Enrica Accardo, Brevi considerazioni sulla figura processuale dell’imputato-testimone

Con la legge n. 63/01, c.d. legge sul giusto processo, sono state apportate significative modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova.

Una tra le più rilevanti novità introdotte dalla legge di riforma è stata la creazione dell’insolita [1] e per molti aspetti problematica figura dell’imputato-testimone, analiticamente descritta nel neo introdotto art. 197 bis c.p.p..

Conseguenza diretta dell’introduzione di questa nuova figura processuale è stata la restrizione del diritto al silenzio, prima ampiamente garantito ai coimputati e ai soggetti imputati in un procedimento connesso o collegato, con tutte le inevitabili ripercussioni sull’andamento dei processi e sull’efficienza della giustizia.

Mosso dal manifesto intento di dare piena attuazione ai principi sanciti nel novellato art. 111 Cost. [2] il legislatore ha forse trascurato le problematiche discendenti dall’interpretazione sistematica delle norme del codice di rito.

Contestualmente alla restrizione dell’ambito del diritto al silenzio, nel tentativo di mantenere inalterato l’equilibrio all’interno del sistema, con la legge n. 63/01 è stato significativamente modificato l’art. 64 c.p.p. contenente le regole generali per l’interrogatorio: più numerosi sono oggi gli avvertimenti che devono essere dati alla persona interroganda.

Nell’intento di bilanciare la consistente restrizione del diritto di tacere discendente dall’introduzione della nuova figura processuale il legislatore ha rafforzato la tutela che deve essere accordata all’imputato nel momento in cui questo viene ascoltato come persona informata sui fatti, momento astrattamente idoneo ad operare la trasformazione dello stesso in testimone.

Tornando alla figura dell’imputato-testimone occorre analizzare con attenzione, dando la giusta importanza ad ogni singola parola, l’art. 197 bis c.p.p., la cui introduzione ha comportato la necessaria modifica del precedente art. 197 c.p.p. contenente le ipotesi di “incompatibilità con l’ufficio di testimone”, delle quali in questa sede interessano in particolare quelle delineate nelle lettere a), b) del comma I.

Preliminarmente è importante sottolineare che il legislatore nel dettare la disciplina in commento ha tenuto nettamente distinte le figure dei coimputati del medesimo reato o delle persone imputate in un procedimento connesso a norma dell’art. 12 comma I lett. a) c.p.p., da quelle delle persone imputate in un procedimento connesso ex art. 12 comma I lett. c) c.p.p. o di un reato collegato a norma dell’art. 371 comma II lett. b) c.p.p..

Mentre per le persone appartenenti alla prima categoria soltanto la pronuncia di una sentenza definitiva di proscioglimento, condanna o applicazione della pena a norma dell’art. 444 c.p.p. è idonea a fargli assumere la veste di testimoni, per i soggetti indicati nella lett. b) viene fatto salvo quanto previsto dall’art. 64 comma III lett. c) c.p.p., ossia la possibilità di assumere la qualità di testimone nell’ipotesi in cui, previamente avvertiti a norma dello stesso art. 64 c.p.p., questi soggetti abbiano reso dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità di altri.

In ragione della meno stretta connessione tra la loro posizione e quella dell’imputato questi soggetti possono diventare testimoni, perdendo così il loro diritto al silenzio in ordine a tali fatti, anche in un momento antecedente al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il loro procedimento.

Come appare evidente la questione è complessa dal momento che le norme contenute negli artt. 64, 197, 197 bis c.p.p. devono necessariamente leggersi l’una alla luce delle altre.

L’art. 64 c.p.p., nell’imporre che alla persona da interrogare vengano dati determinati avvertimenti, sanziona pesantemente l’omissione degli stessi; in particolare per quanto riguarda l’avvertimento di cui alla lett. c) la sua omissione, oltre a rendere inutilizzabili le dichiarazioni rese dalla persona interrogata, impedisce che l’interrogato possa assumere in futuro, in ordine ai fatti concernenti la responsabilità altrui, l’ufficio di testimone.

La norma, tuttavia, non pone alcuna distinzione in ordine alla necessità dell’avvertimento tra i vari tipi di connessione, pertanto, al di là della doverosa considerazione per cui tale distinzione in questa fase processuale sarebbe assai ardua se non addirittura impossibile, essa sembrerebbe posta a tutela di tutti gli imputati in qualsiasi modo “connessi” e non solo dei connessi a norma dell’art. 12 lett. c) c.p.p. o dei collegati ex art. 371 lett. b) c.p.p..

Le considerazioni sopra svolte sono tuttavia frutto di un’interpretazione meramente letterale e non di un ragionamento logico che porterebbe al contrario a ritenere la garanzia di cui all’art. 64 comma III lett. c) c.p.p. solo a tutela di quei soggetti per cui l’incompatibilità a testimoniare viene meno in un momento antecedente al giudicato.  

Un’interpretazione logica induce, infatti, al di là della lettera della norma, a ritenere che i soggetti indicati nella lettera a) dell’art. 197 c.p.p., una volta intervenuta una delle sentenze definitive indicate, siano a tutti gli effetti testimoni, con tutte le garanzie apprestate dalla legge per l’esame dell’imputato-testimone, indipendentemente dal ricevimento dell’avvertimento di cui alla lettera c) dell’art. 64 c.p.p..

La questione non è tuttavia di facile soluzione dal momento che l’avvertimento che se un soggetto renderà dichiarazioni in ordine alla responsabilità di altri potrà in ordine a tali fatti assumere la veste di testimone, è indubbiamente posto a tutela del diritto di autodeterminazione dello stesso dichiarante. L’assunzione dell’ufficio di testimone comporta, infatti, una serie di responsabilità per cui sembra logico, ed in linea con i principi costituzionali posti a tutela della persona, che questa debba essere avvertita di quali potrebbero essere le conseguenze delle sue dichiarazioni.

Pertanto, nonostante la posizione di un soggetto sia divenuta inattaccabile per l’intervento del giudicato, ciò non toglie che lo stesso con le sue dichiarazioni si esponga, in caso di testimonianza falsa o reticente alle conseguenze penali previste dalla legge (art. 372 c.p.).

Pur non volendo attenersi strettamente al dato letterale la logica conduce, quindi, a seconda del punto di vista che si assume, in due diverse direzioni. Le interpretazioni prospettate sono entrambe sostenibili sulla base di fondati ragionamenti, e gli interessi privilegiati dall’una o dall’altra sono ugualmente meritevoli di tutela.

L’intera questione è poi ulteriormente complicata da una disciplina transitoria lacunosa ed assolutamente non esaustiva, contenuta nell’art. 26 legge n. 63/01.

Al di là dei problemi di interpretazione sistematica che si porranno in futuro, problemi applicativi si pongono nell’immediato, nella fase transitoria in cui la normativa in commento deve applicarsi direttamente, seppur con i correttivi dettati dal suddetto art. 26, anche a procedimenti iniziati nel vigore di norme ben diverse.

La norma citata prende in considerazione le sole ipotesi in cui il procedimento si trovi ancora nella fase delle indagini preliminari o in cui le dichiarazioni precedentemente rese nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare siano già state acquisite al fascicolo per il dibattimento. Nel primo caso, essendo ancora in fase d’indagine, il giudice deve provvedere a rinnovare l’esame dei soggetti indicati negli artt. 64 e 197 bis c.p.p., nel secondo caso le dichiarazioni dovranno essere valutate a norma dei commi III, IV, V, VI del previgente art. 500 c.p.p..

Resta quindi assolutamente privo di qualsiasi disciplina transitoria il caso in cui il procedimento non si trovi più nella fase delle indagini ma le dichiarazioni rese non siano ancora state acquisite al fascicolo per il dibattimento. Necessariamente tali dichiarazioni sono state rese senza i previi avvertimenti introdotti con la legge n. 63/01, ma l’esame, in ragione della fase in cui si trova il procedimento, non può essere rinnovato.

Che cosa ne sarà di tali dichiarazioni?

Inoltre, potrà il soggetto precedentemente interrogato, ma non avvertito, che ha reso dichiarazioni erga alios essere sentito in ordine a tali fatti come testimone dal momento in cui la sua posizione sia definita con sentenza irrevocabile?

Si ripropongono le soluzioni prospettate in precedenza e le problematiche ad esse connesse.

Dovrà ritenersi prevalente il diritto di un soggetto all’autodeterminazione o il principio di non dispersione della prova [3] ?

La risposta come sempre ci verrà fornita dall’attività giurisprudenziale cui è affidato l’arduo compito di armonizzare norme introdotte con le migliori intenzioni ma senza risultati ottimali.

Enrica Accardo - settembre 2002

(riproduzione riservata)


[1] Prendendo ad esempio, tra gli altri ordinamenti processuali dell’Unione Europea, quello inglese e quello francese, la riforma pare ispirata maggiormente a quest’ultimo. L’ordinamento francese distingue, infatti, l’ipotesi in cui  l’imputato renda dichiarazioni erga se da quella in cui le renda erga alios, riconoscendo il diritto al silenzio solo nel primo caso. L’ordinamento inglese, invece, riconosce sempre all’imputato il diritto di avvalersi della facoltà di non rispondere, tuttavia nell’ipotesi in cui egli decida di rendere dichiarazioni sarà tenuto a dire la verità.

[2] L’art. 111 Cost. è stato modificato ad opera della Legge cost. 23 Novembre 1999, n. 2, in G.U. n. 300 del 23.12.1999.

[3] Al proposito occorre sottolineare che il principio di non dispersione della prova è una creazione giurisprudenziale; venne sancito dalla Corte Costituzionale nella famosa sentenza n. 255/92, ma dalla stessa Corte è stato ritenuto superato in seguito all’entrata in vigore della normativa sul giusto processo; cfr. Corte Cost. 25 ottobre 2000, n. 440, in G. D. n. 41, p. 400 ss..

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