Alessandra Cheli, Commento al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 in materia di Giudice di pace penale - Parte I - artt. 1-19

Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274

"Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468"


pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 234 del 10 ottobre 2000 - Supplemento ordinario n. 166.

 


IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;

Visto l'articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;

Visto l'articolo 14 e seguenti della legge 24 novembre 1999, n. 468, che delega il Governo ad adottare, entro otto mesi dalla sua entrata in vigore, un decreto legislativo concernente la competenza in materia penale del giudice di pace, nonché il relativo procedimento e l'apparato sanzionatorio dei reati ad esso devoluti, unitamente alle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie secondo i principi e i criteri direttivi previsti dagli articoli 15, 16 e 17;

Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 23 giugno 2000;

Acquisiti i pareri delle competenti commissioni permanenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, a norma dell'articolo 21, comma 1, della citata legge 24 novembre 1999, n. 468;

Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata nella riunione del 25 agosto 2000;

Sulla proposta del Ministro della giustizia;

E m a n a
il seguente decreto legislativo:

Titolo I
PROCEDIMENTO DAVANTI AL GIUDICE DI PACE

Capo I
Soggetti, giurisdizione e competenza

Art. 1.
Organi giudiziari nel procedimento penale davanti al giudice di pace

1. Svolgono funzioni giudiziarie nel procedimento penale davanti al giudice di pace:
a) il procuratore della Repubblica presso il tribunale nel cui circondario ha sede il giudice di pace
b) il giudice di pace.

** Il legislatore ha mantenuto la funzione inquirente alla magistratura togata. Notevoli sono tuttavia le possibilità di delega che l’art. 50 del presente decreto prevede a favore degli uditori giudiziari, ai vice procuratori onorari addetti all’ufficio e agli ufficiali di P.G. che non abbiano preso parte alle indagini preliminari.

Art. 2.
Principi generali del procedimento davanti al giudice di pace

1. Nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è previsto dal presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme contenute nel codice di procedura penale e nei titoli I e II del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, ad eccezione delle disposizioni relative:
a) all'incidente probatorio;
b) all'arresto in flagranza e al fermo di indiziato di delitto;
c) alle misure cautelari personali;
d) alla proroga del termine per le indagini;
e) all'udienza preliminare;
f) al giudizio abbreviato;
g) all'applicazione della pena su richiesta;
h) al giudizio direttissimo;
i) al giudizio immediato;
l) al decreto penale di condanna.

**         Inizialmente tale norma era stata prevista nelle disposizioni finali del decreto; successivamente, grazie alle modifiche suggerite dalla Commissione Giustizia del Senato mediante proprio Parere approvato con seduta del 27 luglio 2000, ha trovato adeguato inserimento tra le disposizioni di carattere generale.

            Le esclusioni relative all’applicabilità della disciplina codicistica trovano varie giustificazioni.

- L’incidente probatorio e la proroga del termine per le indagini trovano una disciplina specifica agli artt. 18 e 16 del decreto.

- L’arresto in flagranza, il fermo di indiziato di delitto e le misure cautelari personali, in quanto istituti connessi con la privazione della libertà personale, non possono trovare applicazione nel procedimento dinanzi al giudice di pace, dato che questi non ha alcun potere limitativo della libertà personale.

- Per ciò che concerne i riti alternativi indicati, la loro applicabilità è stata esclusa in blocco, e la giustificazione fornita dal legislatore è stata quella della forte esigenza di semplificazione, anche se per la precisione questa motivazione non ha senso in relazione al rito del giudizio immediato, considerato che questo non sarebbe stato praticamente ammissibile data la mancanza dell’udienza preliminare davanti al giudice di pace. I riti alternativi sono stati esclusi, nonostante le critiche della menzionata Commissione Giustizia del Senato in relazione all’ esclusione del decreto penale di condanna. Secondo la Commissione, pur intuibili le motivazioni che hanno indotto a questa scelta, basate sul fatto che svolgendo il giudice di pace una funzione essenzialmente conciliativa, il decreto penale potrebbe intercettarla e vanificarla, “tuttavia l’utilità della sua previsione è difficilmente contestabile, specie nei casi in cui è meno praticabile l’attività riparatoria o conciliativa e comunque anche in quelli, ove la soluzione bonaria non abbia esito. L’esigenza conciliativa merita tutela soprattutto nei reati perseguibili a querela, mentre negli altri può mancare, e spesso di fatto manca, una persona offesa con la quale instaurare questo rapporto conciliativo. In questi casi, invero, prevale l’opportunità di stimolare un’attività riparatoria, per lo più a valenza pubblicistica”.

2. Nel corso del procedimento, il giudice di pace deve favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti.

**         L’art. 2 comma 2° del decreto legislativo individua nella conciliazione il compito e le finalità primari della giurisdizione penale del giudice di pace.

Si tratta della consacrazione del principio per il quale il giudice di pace, per definizione, ha una naturale funzione conciliativa (basti pensare che, coerentemente alla sua denominazione, anche in sede di giurisdizione civile è l’unico giudice al quale è affidato obbligatoriamente il compito di tentare la conciliazione delle parti); l’art. 2 comma 2° tuttavia, non può essere considerato solo come norma che si limita a sancire un principio già esistente nell’ambito dell’ordinamento, ma necessariamente anche come norma programmatica e di riferimento di tutto l’impianto normativo del decreto.

Pur non volendo in alcun modo porre a confronto i due tipi di giurisdizione affidati al giudice di pace, non si può non notare come la composizione del conflitto in materia penale sia considerata dal legislatore il leit motif di tutta la riforma: diversamente dalla giurisdizione civile laddove il tentativo di conciliazione è previsto solo nella prima udienza (Art. 320 comma 1° c.p.c.), nell’ambito della giurisdizione penale il giudice di pace nel corso del procedimento – cioè in tutte le sue fasi - deve – quindi ha l’obbligo - favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti.

Si noti come il decreto legislativo sia andato oltre la previsione della legge delega del 1999 n. 468, nel cui art.17 relativo al procedimento penale davanti al giudice di pace, si era limitata nella lettera g) a prevedere l’obbligo per il giudice di procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti riparatori e risarcitori conseguenti al reato, nonché in ordine alla remissione della querela ed alla relativa accettazione.

Se ci limitiamo a considerare l’art. 2 comma 2° del presente decreto legislativo solo sotto il primo aspetto, e cioè come semplice norma di principio, esso non pone problemi di sorta: nessun dubbio sulla naturale vocazione conciliativa del giudice di pace; se invece consideriamo tale norma come cardine di tutta la riforma e ad essa facciamo costante riferimento nella esegesi del testo di legge, occorrerà verificare in quale modo la funzione conciliativa trova esplicazione e soprattutto se essa può trovare nella prassi soddisfacente applicazione.

Art. 3.
Assunzione della qualità di imputato

1. Nel procedimento davanti al giudice di pace, assume la qualità di imputato la persona alla quale il reato è attribuito nella citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria o nel decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace.

**         La formulazione tecnica di questa norma è alquanto imprecisa, ed il suo inserimento in tale contesto iniziale appare di dubbia opportunità. Il pericolo è quello di fermarsi alla sola lettera di essa, isolandola dal contesto in cui è inserita; se così fosse, si perverrebbe ad una interpretazione fuorviante e del tutto inesatta, interpretazione che verrebbe a scardinare uno dei principi fermi in tema di diritto processuale penale, ossia che l’esercizio dell’azione penale spetta al P.M. e che l’assunzione della qualità di imputato deriva solo ed esclusivamente da tale esercizio. Non sta a noi prendere posizione a favore o contro l’esclusiva titolarità di tale potere in capo al P.M., ma non si può non considerare che finché tale principio esiste questo deve essere rispettato e non certo disatteso attraverso interpretazioni non corrette da parte di chi intende “avvalersi” di una inesatta, o meglio, incompleta, formulazione normativa. L’art. 3 del decreto verrebbe quindi non solo a contrastare con l’art. 60 c.p.p., norma che stabilisce le ipotesi in cui il soggetto assume la qualità di imputato, -ipotesi tutte in cui tale qualità viene attribuita solo a seguito di una serie di atti tipici del P.M.-, ma, conseguentemente, anche con  il principio espressamente stabilito dall’ art. 50 e poi ribadito dall’art. 405 comma 1° c.p.p. in base al quale l’esercizio dell’azione penale spetta solo al P.M.

Malgrado la formulazione di tale articolo, poiché l’interpretazione deve tener conto di tutto il contesto normativo, se si analizza la disciplina concreta della citazione a giudizio disposta dalla P.G. (Art.20) e del decreto di convocazione delle parti emesso dal giudice di pace su ricorso della persona offesa (Artt. 21 e ss.), notiamo che, nonostante dalla lettera dell’art. 3 del decreto l’assunzione della qualità di imputato sia indipendente da qualunque intervento o atto del P.M., in realtà così non è. Per ciò che riguarda infatti la polizia giudiziaria, questa cita sì l’imputato dinanzi al giudice di pace, ma sulla base dell’imputazione formulata dal P.M. (Art. 20 comma 1°).

In relazione al ricorso, questo deve essere previamente comunicato al P.M. mediante deposito di copia presso la sua segreteria (Art. 22 comma 1°); il P.M. entro 10 gg presenta le sue richieste nella cancelleria del giudice di pace (Art. 25 comma 1°), e spetta sempre al P.M. la formulazione dell’imputazione confermando o modificando l’addebito contenuto nel ricorso (Art. 25 comma 2°). In ogni caso, anche se il P.M. non ha presentato richieste, il giudice di pace controlla  l’ammissibilità e la fondatezza del ricorso (Art. 25 comma 2°), per cui l’azione penale non potrà mai dirsi essere esercitata direttamente dalla persona offesa.

Nessun dubbio quindi, che la citazione a giudizio davanti al giudice di pace da parte della persona offesa rappresenti una delle innovazioni fondamentali del decreto in esame, ma la preoccupazione è che si voglia trovare nel testo di legge quello che in realtà non vi è scritto o che comunque non può ricavarsi attraverso l’analisi interpretativa di esso, e cioè che si dia ormai per scontata l’introduzione nell’ordinamento, anche se limitatamente al processo dinanzi al giudice di pace, dell’azione penale privata.

 

Art. 4.
Competenza per materia

1. Il giudice di pace è competente:
a) per i delitti consumati o tentati previsti dagli articoli 581 (percosse), 582, limitatamente alle fattispecie di cui al secondo comma perseguibili a querela di parte (lesione personale), 590 (lesioni personali colpose), limitatamente alle fattispecie perseguibili a querela di parte e ad esclusione delle fattispecie connesse alla colpa professionale e dei fatti commessi con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o relative all'igiene del lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale quando, nei casi anzidetti, derivi una malattia di durata superiore a venti giorni, 593, primo e secondo comma (omissione di soccorso), 594 (ingiuria), 595, primo e secondo comma (diffamazione), 612, primo comma (minaccia), 626 (furti punibili a querela della persona offesa), 627 (sottrazione di cose comuni), 631(usurpazione), salvo che ricorra l'ipotesi di cui all'articolo 639-bis, 632 (deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi), salvo che ricorra l'ipotesi di cui all'articolo 639-bis, 633, primo comma (invasione di terreni o edifici), salvo che ricorra l'ipotesi di cui all'articolo 639-bis, 635, primo comma (danneggiamento), 636 (introduzione o abbandono di animali nel fondo altrui e pascolo abusivo), salvo che ricorra l'ipotesi di cui all'articolo 639-bis, 637 (ingresso abusivo nel fondo altrui), 638, primo comma (uccisione o danneggiamento di animali altrui), 639 (deturpamento e imbrattamento di cose altrui) e 647 (appropriazione di cose smarrite, del tesoro o di cose avute per errore o nel caso fortuito) del codice penale;

**         Una prima considerazione deriva da ciò che afferma la Relazione al decreto, nel cui articolo 2 paragrafo 1° esordisce affermando che “l’impronta ideale” di tutta la riforma, ossia la valorizzazione delle funzioni conciliative di tale giudice “si trova immediatamente riflessa già nella scelta dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace”. Sennonché, tale affermazione trova una sua ragion d’essere solo in relazione ai reati di cui al comma 1° dell’art. 4 del decreto legislativo, trattandosi di “delitti di agevole accertamento” ed inoltre costituenti “l’espressione tipica ed immediata di situazioni di microconflittualità individuale” e che “ in quanto tali, sembrano perfettamente ritagliati sulle caratteristiche del giudice onorario deputato a conoscerle”, non certo in relazione agli altri reati previsti nello stesso articolo. In ogni caso, secondo autorevole dottrina[1], non si è osato adottare la soluzione, pure avanzata, dell’assegnazione al giudice di pace dei delitti punibili solo a querela di parte, che avrebbe potuto vedere pienamente dispiegata l’attività conciliativa del giudice nonché un processo largamente gestito dalla stessa parte offesa.

b) per le contravvenzioni previste dagli articoli 689 (somministrazione di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente), 690 (determinazione in altri dello stato di ubriachezza), 691 (somministrazione di bevande alcoliche a persona in stato di manifesta ubriachezza), 726, primo comma (atti contrari alla pubblica decenza), e 731 (inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori) del codice penale.

**         Osserviamo che già a partire dalla lettera b) del secondo comma dell’art.4, la competenza del giudice di pace viene mano a mano scemando dalla funzione di composizione del conflitto tra le parti: la lettera b) tratta infatti di contravvenzioni in cui è poco evidente quella “microconflittualità individuale” che invece giustifica la competenza per i reati della lettera a). Tuttavia, poiché l’art. 15 comma 3° lettera b) della legge delega stabilisce, tra gli altri, come criterio guida per la competenza quello di poter eliminare le conseguenze dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno, si è pensato che in relazione a questa tipologia di contravvenzioni, caratterizzata dallo schema del reato di pericolo, possa trovare spazio il criterio riparatorio.

2. Il giudice di pace è altresì competente per i delitti, consumati o tentati, e per le contravvenzioni previsti dalle seguenti disposizioni:

a) articoli 25 (mancato avviso al questore dello svolgimento di funzioni o processioni) e 62, terzo comma (mancata iscrizione di portieri e custodi nell’apposito registro di Ps), del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773, recante "Testo unico in materia di sicurezza";

b) articoli 1094 Inosservanza di ordine da parte di membro dell’equipaggio) , 1096 (Inosservanza di ordine di arresto) e 1119 ( componente dell’equipaggio che si addormenta)del regio decreto 30 marzo 1942, n. 327, recante "Approvazione del testo definitivo del codice della navigazione";

c) articolo 3 (costruzione o custodia di un rifugio senza l’autorizzazione dell’Ente provinciale del Turismo) del decreto del Presidente della Repubblica 4 agosto 1957, n. 918, recante "Approvazione del testo organico delle norme sulla disciplina dei rifugi alpini";

d) articoli 102 (ingresso di persona non autorizzata nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) e 106 (sottoscrizione di più candidature del collegio uninominale o di più liste nel collegio proporzionale da parte di un elettore) del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, recante "Testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati";

e) articolo 92 (ingresso di persona non autorizzata nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) del decreto del Presidente della Repubblica 16 maggio 1960, n. 570, recante "Testo unico delle leggi per la composizione e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali";

f) articolo 15, secondo comma, (alterazione del contrassegno di identificazione delle macchine utensili) della legge 28 novembre 1965, n. 1329, recante "Provvedimenti per l'acquisto di nuove macchine utensili";

g) articolo 3 (apertura di una farmacia senza autorizzazione) della legge 8 novembre 1991, n. 362, recante "Norme di riordino del settore farmaceutico";

h) articolo 51 (ingresso di persona non autorizzata nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) della legge 25 maggio 1970, n. 352, recante "Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo";

i)articoli 3, terzo e quarto comma (esecuzione di opere ferroviarie non autorizzate), 46, quarto comma (alterazione delle ripe dei fondi laterali alle linee ferroviarie) e 65, terzo comma (manovra non autorizzata di passaggi a livello), del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753, recante "Nuove norme in materia di polizia, sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di trasporto";

l) articoli 18 (organizzazione non autorizzata di lotteria) e 20 (raccolta delle scommesse del lotto senza concessione) della legge 2 agosto 1982, n. 528, recante "Ordinamento del gioco del lotto e misure per il personale del lotto";

m) articolo 17, comma 3 (cessione del proprio sangue o derivati a fini di lucro), della legge 4 maggio 1990, n. 107, recante "Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati";

n) articolo 15, comma 3 (immissione sul mercato di recipienti senza il marchio Cee), del decreto legislativo 27 settembre 1991, n. 311, recante "Attuazione delle direttive n. 87/404/CEE e n. 90/488/CEE in materia di recipienti semplici a pressione, a norma dell'articolo 56 della legge 29 dicembre 1990, n. 428";

o) articolo 11, comma 1 (vendita o distribuzione gratuita di giocattoli privi della marchiatura Cee), del decreto legislativo 27 settembre 1991, n. 313, recante "Attuazione della direttiva n. 88/378/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri concernenti la sicurezza dei giocattoli, a norma dell'articolo 54 della legge 29 dicembre 1990, n. 428";

p) articolo 7, comma 9 (non ottemperanza da parte dell’operatore pubblicitario a provvedimenti d’urgenza, inibitori o di rimozione dell’autorità competente), del decreto legislativo 25 gennaio 1992, n. 74, recante "Attuazione della direttiva n. 84/450/CEE in materia di pubblicità ingannevole";

q) articoli 186, commi 2 e 6 (guida sotto l’influenza di alcool, tranne quando il fatto costituisce reato più grave, e si rifiuti di sottoporsi alla prova dell’etilometro), 187, commi 4 e 5 (guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti, tranne quando il fatto costituisce reato più grave) , e 189, comma 6 (comportamento in caso di incidente nel caso di omissione di soccorso), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante "Nuovo codice della strada";

r) articolo 10, comma 1 (immettere sul mercato i dispositivi medici attivi priva di marcatura Cee), del decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 507, recante "Attuazione della direttiva n. 90/385/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative ai dispositivi medici impiantabili attivi";

s) articolo 23, comma 2 (pubblicità di dispositivi medici in violazione del divieto previsto dalla legge), del decreto legislativo 24 febbraio 1997, n. 46, recante "Attuazione della direttiva n. 90/385/CEE concernente i dispositivi medici".

** In relazione ai reati di cui al secondo comma dell’art.4, la problematica è evidente: la naturale vocazione conciliativa del giudice di pace che più volte il decreto legislativo esalta ponendola come motivo giustificativo e base di tutta la riforma, - da qualunque lato si analizzi tale legislazione penale speciale attribuita alla competenza del giudice di pace -, non può in alcun modo essere  esercitata in presenza di tali reati.

            L’art. 15 comma 3° della legge delega, stabilisce che “Al giudice di pace è inoltre devoluta la competenza per i reati previsti da leggi speciali, da individuare nel rispetto di tutti i seguenti criteri:

a)     reati puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro mesi, ovvero con una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, ad eccezione di quelli che nelle ipotesi aggravate sono puniti con una pena detentiva superiore a quella suindicata;

b)     reati per i quali non sussistono particolari difficoltà interpretative o non ricorre, di regola, la necessità di procedere ad indagini o a valutazioni complesse in fatto o in diritto e per i quali è possibile l’eliminazione delle conseguenze dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno;

c)      reati che non rientrano in taluna delle materie indicate nell’art. 34 della legge 24 novembre 1981 n. 689, ovvero nell’ambito delle violazioni finanziarie.”

Questi criteri, come espressamente stabilito, debbono coesistere, per cui, oltre al fatto che ciascuno di essi pone problemi a sé stanti, l’ulteriore aspetto problematico è dato dall’obbligo di tale coesistenza; per questo, il compito del legislatore delegato si è rivelato notevolmente arduo, trovatosi di fronte ad una delega che ha tentato di osare ma non troppo, volendo, da un lato, attribuire competenza penale al giudice di pace, e dall’altro, non volendogliene attribuire poi molta, quasi che la riforma debba considerarsi come sperimentale.

In relazione alla lettera a) dell’art. 15 comma 3° della legge delega, intenzionalmente il legislatore delegato non ha previsto fattispecie punite con pena pecuniaria particolarmente alta in quanto, si legge nella Relazione al decreto legislativo, “si sarebbe prodotta una irragionevole disparità di trattamento rispetto a reati in origine puniti con pena detentiva (ed assai più gravi) per i quali la legge delega invece non consente di eccedere il limite dei 5 milioni di lire” (Art. 16 lett. a) per le sanzioni irrogabili dal giudice di pace.

Per ciò che concerne la lettera c) dell’art. 15 comma 3° della legge delega, si impone al legislatore di escludere i reati rientranti nelle materie di cui all’art. 34 della legge sulla depenalizzazione. Tuttavia, l’art. 34 della legge del 1981 n. 689, non riguarda solo intere materie, ma anche specifiche disposizioni legislative previste in leggi riguardanti altre materie, per le quali non è stata ritenuta operante l’esclusione di cui alla lettera c). Si è quindi effettuata una interpretazione estensiva (vedi ad esempio la materia elettorale di cui all’art. 4 comma 2° n. 4 e 5 del decreto legislativo), di modo tale che l’esclusione viene a riguardare non la materia intera ma solo singole disposizioni.

Per ultima, la lettera b) dell’art. 15 comma 3° della legge delega, la quale ha dato luogo a numerose problematiche che, secondo alcuni autori, il  legislatore delegato non ha saputo risolvere in modo adeguato. La formulazione finale di tale direttiva è quella che ha destato maggiori difficoltà, considerato che prevede l’ulteriore criterio individuativo della competenza, nella possibilità di eliminare le conseguenze dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno. Tuttavia, i reati della legislazione penale complementare di cui all’art. 4 comma 2° del decreto legislativo, non consentono certo né restituzioni né risarcimento del danno. Si tratta infatti di fattispecie che tutelano interessi diffusi o sovraindividuali.

A prima vista si tratta di una contraddizione insanabile, una mancata attuazione della legge delega dovuta all’esigenza fondamentale di attribuire maggiori reati alla competenza penale del giudice di pace rispetto a quelli effettivamente voluti dal legislatore delegante.

Appare corretta la giustificazione fornita dal legislatore, pervenuto a tale previsione sulla base delle seguenti considerazioni.

- Se fossero stati inseriti solo reati per i quali sono possibili le restituzioni o il risarcimento del danno si sarebbe avuto un effetto assurdo, e cioè l’attribuzione al giudice di pace di reati di gravità notevole e l’esclusione dalla competenza di fattispecie meno gravi oltre che di più agevole accertamento, in quanto reati di pericolo astratto non comportanti conseguenze dannose.

- La delega prevedeva all’art. 15 comma 2°,  di devolvere alla competenza del giudice di pace delle contravvenzioni poi riportate nell’art. 4 comma 1° lett. b) del decreto, nelle quali la restitutio non è ipotizzabile o comunque si può avere raramente.

- I criteri ex art. 15 comma 3° lett. a), b) e c) della legge delega, sono espressamente previsti come criteri cumulativi per l’individuazione della competenza per i reati previsti da leggi speciali e, tra queste ultime, non solo non vi sono nel loro complesso molti reati caratterizzati da “conflittualità interindividuale” per i quali siano possibili le restituzioni ed il risarcimento del danno, ma soprattutto non vi sono reati previsti da leggi speciali che, oltre a tale caratteristica, siano anche previsti con pena detentiva non superiore nel massimo a 4 mesi.

Pertanto, “alla luce di queste considerazioni -si legge nella Relazione-, nell’attuazione datane dall’art. 4 comma 2° del decreto legislativo, il richiamo alle conseguenze dannose del reato è stato inteso in senso atecnico: vale a dire, come una sorta di valvola di sfogo del nuovo sistema che, per il tramite di essa, intende preservarsi dal rischio di includere reati puniti non pesantemente, di interpretazione e di accertamento agevole, e tuttavia in ipotesi di considerevole gravità (si pensi a molti reati, previsti spesso in forma contravvenzionale ma di natura sostanzialmente delittuosa, introdotti in attuazione delle diverse leggi comunitarie). In conclusione, si è ritenuto opportuno escludere dal novero dei reati di competenza del giudice di pace quelli suscettibili di produrre effetti non rimovibili; viceversa, sono stati attribuiti a questo giudice, quelli che per la loro tipologia producono conseguenze eliminabili come anche quelli che non producono affatto conseguenze”.

Poiché in tema di competenza del giudice di pace, ci troviamo in presenza dell’attribuzione allo stesso di reati che non possono far sì che venga esplicata la funzione conciliativa, alcuni autori hanno affermato che tale principio debba conseguentemente essere interpretato in senso atecnico. Si è pensato che, dato che la stessa Relazione al decreto afferma che la norma delega in tema di restituzioni e risarcimento del danno deve essere interpretata in senso atecnico, allora anche l’art. 2 del decreto legislativo deve essere  interpretato in questo senso, essendo entrambe le norme espressione del principio della funzione conciliativa.

Senonchè, queste affermazioni rischiano di svuotare il principio sancito dall’art. 2 del decreto legislativo: non è possibile affermare che la funzione conciliativa rappresenta il punto cardine di tutta la riforma e al contempo dire che questa debba essere interpretata in senso atecnico; delle due l’una, se di principio ordinatore di tutto il sistema si deve parlare, esso non può essere poi svuotato di contenuto.

Tuttavia, le considerazioni sopra svolte sono tutte valide, dato che nei reati della legislazione penale complementare questo non può essere assunto come principio base. Sembra allora più corretto affermare che la funzione conciliativa del giudice di pace, pur principio cardine del sistema, ha trovato una maggiore esplicazione negli aspetti processuali del decreto (lo vedremo più avanti) piuttosto che negli aspetti sostanziali, e che questo è dovuto ad esigenze di ordine sistematico piuttosto che ad uno svuotamento del principio stesso, il quale non è che debba essere inteso in senso atecnico, in modo da attribuire ad esso un significato riduttivo, ma semplicemente non trova espressione in determinate ipotesi. Del resto, non bisogna dare eccessivo peso all'elevato numero dei reati previsti dall’art. 4 comma 2 del decreto legislativo; alcuni, come quelli relativi al mancato rispetto delle norme in tema di elezioni e referendum, possono verificarsi solo in presenza di appuntamenti elettorali e referendari ed altri, ad esempio in materia farmaceutica, di giocattoli e di dispositivi medici, si verificano raramente.

Inoltre, non si può tralasciare di considerare una delle esigenze fondamentali che hanno portato all’attuale riforma, ossia l’obiettivo di una maggiore deflazione del carico penale.

Alleggerire la magistratura professionale di un'enorme mole di procedimenti significa tempi più rapidi per la celebrazione dei processi. In questo modo, si cerca di garantire, da un lato, il diritto del cittadino a un giusto processo, e, dall'altro, l'aspettativa della collettività di vedere individuati e puniti i responsabili dei reati.

Con l'attribuzione alla magistratura onoraria della competenza in materia penale sopra specificata, viene introdotto un doppio circuito giudiziario penale: la magistratura professionale per i reati più gravi ed il giudice di pace per quelli di minore gravità, i quali di regola comportano anche una maggiore facilità nella ricerca e nella valutazione delle prove, nonché una minore probabilità di recidiva. Lo scopo è quello di consentire ai giudici togati di concentrarsi esclusivamente sui fatti di maggiore rilevanza e allarme sociale, mentre la magistratura onoraria avrà la competenza per illeciti che, pur continuando a essere sanzionati penalmente, non rivestono caratteri di gravità tali da rendere necessario l'intervento della magistratura professionale.

3. La competenza per i reati di cui ai commi 1 e 2 è tuttavia del tribunale se ricorre una o più delle circostanze previste dagli articoli 1 del decreto-legge 15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio 1980, n. 15 (finalità di terrorismo), 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (criminalità organizzata), e 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (razzismo).

4. Rimane ferma la competenza del tribunale per i minorenni.

Art. 5.
Competenza per territorio

1. Per i reati indicati nell'articolo 4, competente per il giudizio è il giudice di pace del luogo in cui il reato è stato consumato.

**         Il criterio in oggetto è lo stesso della normativa codicistica, ossia quello del locus commissi delicti. In tale primo comma dell’art. 5 del d. lgs. si è voluto indicare solo quello che è il criterio generale per la determinazione della competenza per territorio, rimandando, in forza dell’art. 2 comma 1° del decreto, al comma 3° e 4° dell’art. 8 c.p.p. per ciò che concerne le regole applicabili in ipotesi di reato permanente (giudice del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione) e di delitto tentato (giudice del luogo in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto).

2. Competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari è il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente.

**         Si introduce il giudice di pace per le indagini preliminari circondariale, che è quello del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente per il giudizio. In questo modo, secondo la Relazione governativa, essendo la sede circondariale più grande, si è cercato di ridurre i rischi di incompatibilità, ed al contempo si è attuato quell’obbligo della massima semplificazione previsto nelle direttive della legge delega, non prevedendo la figura di un giudice ad hoc per le indagini preliminari.

La previsione di un G.I.P. quale giudice di controllo e di garanzia anche per il procedimento innanzi al giudice di pace, pur non assumendo l’importanza che esso ha nell’ambito del procedimento ordinario, non è comunque di poco conto, tenendo presente i poteri che gli sono attribuiti in sede di archiviazione dall’art. 17 del decreto, ed i provvedimenti che egli può adottare nel corso delle i.p. a norma dell’art. 19 (in tema di sequestri preventivi e conservativi).

**         In tema di connessione, l’art. 17 comma 1° lett. i) della legge delega, ha stabilito due direttive:

1.      la ridefinizione delle ipotesi di connessione dei procedimenti, doveva tener conto della particolare natura dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace;

2.      l’introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all’obbligo di rilevarne l’operatività.

Quest’ultimo criterio si rivelava però di estrema pericolosità in quanto consentire al giudice di pace un potere discrezionale in tema di connessione, equivarrebbe a consentirgli una determinazione discrezionale della competenza, con evidente violazione dell’art. 25 Cost. in tema di giudice naturale precostituito per legge. Nonostante la lettera della legge delega, tale direttiva è stata però interpretata correttamente dal legislatore delegato, in quanto la discrezionalità a cui si fa riferimento, non è stata intesa come discrezionalità in tema di effetti della connessione sulla competenza (che contrasterebbe appunto con l’art. 25 Cost.), ma come potere discrezionale relativo agli effetti della connessione sulla riunione o separazione dei processi, così come vedremo meglio all’art. 9 del d. lgs.

L’art. 6 del d. lgs. disciplina le ipotesi di connessione eterogenea, ossia quando i casi di connessione si realizzano tra uno o più reati di cui è competente il giudice di pace ed uno o più reati di cui è competente il tribunale o la corte di assise.

L’art. 7 del d. lgs. disciplina le ipotesi di connessione omogenea: quando i casi di connessione si realizzano tra reati che sono tutti di competenza del giudice di pace.

Art. 6.
Competenza per materia determinata dalla connessione (connessione eterogenea)

1. Tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di altro giudice, si ha connessione solo nel caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione.

            ** Si ha connessione solo nel caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione. Quindi, l’unica ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p. presa in considerazione è solo quella relativa alla prima parte della lett. b), ossia l’ipotesi del concorso formale dei reati. 2. Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza del giudice di pace e altri a quella della corte di assise o del tribunale, è competente per tutti il giudice superiore.

2. Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza del giudice di pace e altri a quella della corte di assise o del tribunale, è competente per tutti il giudice superiore.

** Si ha quindi la prevalenza del giudice superiore, nel rispetto del principio fissato dall'art. 15 c.p.p.

3. La connessione non opera se non è possibile la riunione dei processi, nè tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di competenza di un giudice speciale.

            ** Infatti, nell’ipotesi in cui non sia possibile la riunione, come nell’ipotesi in cui i processi siano in una fase o grado diversi, non avrebbe senso l’operatività della connessione, visto che non si potrebbe dar luogo al simultaneus processus.

            ** La connessione non opera quindi se uno dei procedimenti appartiene ad un giudice speciale. Poiché l’art. 4 comma 4° del decreto legislativo stabilisce che “Rimane ferma la competenza del tribunale per i minorenni”, la competenza di quest’ultimo è di per sé sempre inderogabile, per cui il giudice superiore al quale si riferisce il presente articolo è il tribunale militare.

            ** E’ opportuno sottolineare come l’introduzione in tale normativa della connessione eterogenea, pur limitata all’ipotesi di concorso formale, sia avvenuta grazie all’intervento della Commissione Giustizia del Senato; nella prima stesura del d. lgs. essa non era prevista perché veniva ritenuta prevalente la necessità di “tracciare un orto chiuso per il giudice di pace”. Secondo il Parere della Commissione di Palazzo Madama invece, la mancata previsione della connessione eterogenea, avrebbe causato un danno all’imputato, il quale, in questo modo, non avrebbe potuto usufruire del simultaneus processus. Si è pervenuti quindi alla formulazione dell’art. 6 del decreto legislativo, sulla base della seguente considerazione.

            Sicuramente, la riunione dei processi dinanzi al giudice ordinario (tribunale o corte d’assise), produce l’inapplicabilità della disciplina processuale ad hoc dettata per il giudice di pace, in primis la funzione riparatoria e le sanzioni irrogabili da questo giudice. Tuttavia, dando all’imputato la possibilità di scegliere tra, da un lato, il poter riparare alle conseguenze dannose del fatto commesso e, dall’altro lato, di avere un unico processo, sicuramente la scelta cadrebbe su quest’ultimo, anche perché non è detto che all’imputato interessi sempre la possibilità che gli viene offerta di riparare il danno in funzione di una sanzione più mite, può anche contestare di aver alcuna responsabilità e quindi avere interesse a dimostrare la sua completa estraneità ai fatti.

 

Art. 7.
Casi di connessione davanti al giudice di pace (connessione omogenea)

1. Davanti al giudice di pace si ha connessione di procedimenti:
a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione fra loro;

**Nell’ipotesi quindi di  concorso o cooperazione di più persone in uno stesso reato

(natura soggettiva).

b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione.

            ** Nell’ipotesi di concorso formale di reati. (natura oggettiva).

            Rimane quindi esclusa l’ipotesi della connessione per continuazione e della connessione teleologica. Di quest’ultima la Commissione Giustizia del Senato ne aveva auspicato l’inserimento, ma la Relazione al decreto legislativo ha precisato che, pur non essendo espressamente prevista nell’art. 7 lett. b), tuttavia risulta comunque possibile la riunione dei processi per connessione teleologica in forza dell’ultima parte dell’art. 9 comma 2° d. lgs., laddove si stabilisce che “Anche fuori dei casi previsti dall’art. 7 il giudice di pace può ordinare la riunione dei processi…ogni volta in cui ciò giovi alla celerità e alla completezza dell’accertamento”.

Art. 8.
Competenza per territorio determinata dalla connessione

1. Nei casi previsti dall'articolo 7, se i reati sono stati commessi in luoghi diversi, la competenza per territorio appartiene per tutti al giudice di pace del luogo in cui è stato commesso il primo reato. Se non è possibile determinare in tal modo la competenza, questa appartiene al giudice di pace del luogo in cui è iniziato il primo dei procedimenti connessi.

            ** Nell’ipotesi in cui si verifichi il fenomeno della connessione, questo viene ad incidere, come è noto, oltre che sulla competenza per materia, anche nella competenza per territorio. La disciplina generale adottata dall’art. 16 c.p.p., non trova applicazione dinanzi al giudice di pace in quanto l’art. 8 del decreto legislativo stabilisce due criteri diversi da quello della competenza basata sulla gravità del reato: il criterio del primo reato consumato ed in subordine, il criterio del primo procedimento, criteri accomunati dal fatto che entrambi sono basati su riferimenti temporali.

La Relazione al decreto legislativo, motiva la scelta del criterio del primo reato consumato, sulla base del fatto che il criterio della gravità del reato ai fini della determinazione della competenza per territorio determinata dalla connessione non è utilizzabile, dato che i reati qui sono puniti quasi tutti con le stesse pene.

Per ciò che riguarda il criterio subordinato del primo procedimento, è opportuno precisare che nella pratica sarà di rara applicazione, stante le ipotesi di connessione omogenea dell’art. 7. Infatti, poiché questa si ha solo quando il reato è stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione tra di loro e quando si ha concorso formale di reati, difficilmente si avranno più procedimenti.

Art. 9.
Riunione e separazione dei processi

1. Nei casi previsti dall'articolo 7, prima di procedere all'udienza di comparizione, il giudice di pace può ordinare la riunione dei processi, quando questa non pregiudica la rapida definizione degli stessi.

            ** Si tratta della riunione disposta come effetto delle ipotesi di connessione sopra viste all’art. 7, che ricalca la norma generale di cui all’art. 17 c.p.p.

2. Anche fuori dei casi previsti dall'articolo 7, il giudice di pace può ordinare la riunione dei processi quando i reati sono commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre o quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento o quando una persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, ovvero ogni volta in cui ciò giovi alla celerità e alla completezza dell'accertamento.

            ** Si è affermato[2], che mentre nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 9 si ha una sorta di presunzione di utilità alla riunione dei procedimenti, salvo che il giudice ritenga che la riunione stessa pregiudichi la loro rapida definizione, nei casi previsti al secondo comma il giudice di pace dovrà giustificare in positivo la sua scelta con adeguata motivazione.

            Il comma 2° dell’art. 9 viene a disciplinare le ipotesi di riunione per motivi diversi dalla connessione, ipotesi che in teoria consentono una estensione notevole del potere di riunione in capo al giudice di pace. Tuttavia, nonostante tale secondo comma non lo riporti, è opportuno precisare che la riunione, così come dispone il primo comma dell’art. 9, laddove il giudice intenda ordinarla, è soggetta ad un limite temporale ben preciso: prima di procedere all’udienza di comparizione.

            E’ prevedibile che la prima ipotesi di riunione di cui al comma 2°, ossia quando i reati sono commessi da più persone in danno reciproco le une alle altre, o quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento, sia la più frequente, data la competenza del giudice di pace in tema di lesioni.

            La seconda riguarda la riunione in ipotesi di continuazione, disposta per rendere più agevole la disciplina del reato continuato ex art. 81 c.p.

            Infine, la terza ipotesi, è quella che consente al giudice il massimo della discrezionalità. Tuttavia, secondo la Relazione governativa, il criterio elastico della celerità e della completezza dell’accertamento “non deve destare eccessive preoccupazioni, poiché il giudice di pace, dato il tipo di reati per i quali è competente, non sarà prevedibilmente propenso ad abusare dei poteri in tal senso attribuitigli dalla legge”.

3. Prima di procedere all'udienza di comparizione e, comunque, non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, il giudice di pace ordina la separazione dei processi, qualora ritenga che la riunione possa pregiudicare il tentativo di conciliazione, ovvero la rapida definizione di alcuni fra i processi riuniti.

            ** In concreto, il potere di separazione è sicuramente più elastico di quello generale previsto all’art. 18 c.p.p., elasticità giustificata dal fatto che la separazione dei processi può risultare essenziale per lo scopo conciliativo o per la celerità del giudizio stesso.

 Ritornando al problema indicato in commento all’art. 6, ossia alla direttiva di cui all’art. 17 lett. i) della legge delega che sanciva l’introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all’obbligo di rilevare l’operatività della connessione, si è detto che in realtà essa non si riferisce propriamente alla discrezionalità in relazione agli effetti della connessione sulla competenza, bensì al potere discrezionale in tema di riunione e separazione dei giudizi in capo al giudice di pace, un potere discrezionale sicuramente maggiore rispetto a quello sancito per il giudice ordinario dalla normativa codicistica.

Art. 10.
Astensione e ricusazione del giudice di pace

1. Sulla dichiarazione di astensione del giudice di pace decide il presidente del tribunale.

2. Sulla ricusazione del giudice di pace decide la Corte di appello.

**         Rispetto alla disciplina generale, la normativa sull’astensione e sulla ricusazione del giudice di pace, si discosta solo per ciò che riguarda l’organo deputato a decidere (presidente del tribunale in caso di astensione e corte d’appello in caso di ricusazione), non per ciò che concerne i motivi di astensione e le cause di ricusazione, che sono gli stessi.

3. Il giudice di pace astenuto o ricusato è sostituito con altro giudice dello stesso ufficio designato secondo le leggi di ordinamento giudiziario.

4. Qualora non sia possibile la sostituzione prevista dal comma 3, la corte o il tribunale rimette il procedimento al giudice di pace dell'ufficio più vicino.

** Si prevedono qui i criteri di sostituzione: in primis la sostituzione con altro giudice dello stesso ufficio. Tuttavia, potendo ciò risultare impossibile in caso di ufficio monopersonale, si prevede che in tal caso il tribunale o la corte d’appello rimettano il procedimento al giudice di pace dell’ufficio più vicino.

Capo II
Indagini preliminari

** Si tratta di una fase “eventuale”: l’espletamento delle indagini preliminari si avrà solo per i reati perseguibili d’ufficio, soprattutto quindi per le contravvenzioni, dato che per i reati perseguibili a querela è prevista la citazione a giudizio su ricorso immediato della persona offesa.

Art. 11.
Attività di indagine

1. Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria compie di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del fatto e per l'individuazione del colpevole e ne riferisce al pubblico ministero, con relazione scritta, entro il termine di quattro mesi.

2. Se la notizia di reato risulta fondata, la polizia giudiziaria enuncia nella relazione il fatto in forma chiara e precisa, con l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, e richiede l'autorizzazione a disporre la comparizione della persona sottoposta ad indagini davanti al giudice di pace.

3. Con la relazione, la polizia giudiziaria indica il giorno e l'ora in cui ha acquisito la notizia.

**         Secondo l’art. 17 lettera b) della legge delega, “nel rispetto dei principi sanciti negli artt. 109 e 112 della Cost., l’attività di indagine deve essere di regola affidata esclusivamente alla P.G…..

Il legislatore delegato ha recepito tale direttiva prevedendo all’art. 11 comma 1° che la P.G., di propria iniziativa, compia tutti gli atti di indagine (naturalmente nell’ipotesi in cui sia la P.G. ad acquisire la notizia di reato) . E’ una novità di rilievo in quanto la P.G. diviene così il soggetto principale delle indagini preliminari, novità introdotta essenzialmente per “alleggerire” il lavoro del P.M.  Si tratta di un alleggerimento e non certo di una sottrazione di poteri, del resto non consentita dalla stessa direttiva della legge delega, laddove si premette l’obbligo del rispetto dei principi di cui agli artt. 109 ( l’A.G. dispone direttamente della P.G.) e 112 ( il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione penale) della Cost. In base poi ai successivi artt. 12, 13, 15 comma 2° e 16 del d. lgs, il P.M. mantiene il potere di direzione e di controllo, ed in base all’art. 15 comma 1° dello stesso decreto, spetta al P.M. l’esercizio dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.

Di sicuro l’articolo in esame nulla ha in comune con l’obbligo di informativa di cui all’art. 347 c.p.p.: la relazione che la  P.G. deve presentare al P.M. entro 4 mesi infatti, oltre che indicare il giorno e l’ora di acquisizione della notizia di reato, deve contenere l’enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, e l’indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, per cui si tratta di una sorta di formulazione dell’imputazione in fieri da sottoporre al controllo del P.M.

E’ opportuno inoltre precisare che la preminenza della P.G. in relazione al compimento degli atti di indagine si ha solo se il P.M. non decide di svolgerli personalmente; la stessa Relazione precisa come “ la limitazione resta affidata alle valutazioni dello stesso P.M., nel senso che non opera come divieto per la parte pubblica del processo di svolgere il ruolo specifico che le assegna l’ordinamento processuale….

Art. 12.
Notizie di reato ricevute dal pubblico ministero

1. Salvo che ritenga di richiedere l'archiviazione, il pubblico ministero se prende direttamente notizia di un reato di competenza del giudice di pace ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o incaricati di un pubblico servizio, la trasmette alla polizia giudiziaria, perché proceda ai sensi dell'articolo 11, impartendo, se necessario, le direttive. Il pubblico ministero, se non ritiene necessari atti di indagine, formula l'imputazione e autorizza la polizia giudiziaria alla citazione a giudizio dell'imputato.

**         L’art. 12 disciplina l’ipotesi in cui sia lo stesso P.M. a ricevere la notizia di reato. In sostanza quindi, gli artt. 11 e 12 del decreto legislativo, per ciò che concerne l’acquisizione della notizia di reato, non si discostano dalla norma generale di cui all’art. 330 c.p.p., in base alla quale “Il P.M. e la P.G. prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di reato presentate o trasmesse a norma degli artt. seguenti”, come le denunce, i referti, le querele.

            Il P.M. può quindi:

1.      Richiedere l’archiviazione. La richiesta di archiviazione riguarda tutte le ipotesi previste dalla normativa codicistica, con l’aggiunta però, come precisa la Relazione al decreto, del caso previsto dall’art. 34 del decreto, ossia la particolare tenuità del fatto.

2.      Ritenere necessarie le i.p. In questo caso, egli trasmette la notizia alla P.G. perché proceda a norma dell’art. 11. Si riconferma quindi la P.G. quale soggetto principale delle indagini, anche se il P.M. può comunque impartire direttive. “In questo modo, -secondo la Relazione- si evita di coinvolgere il P.M. immediatamente nelle indagini, ma gli si assicura la possibilità di una immediata direzione dell’attività della P.G.

3.      Ritenere non necessarie le i.p. Il P.m. in questo caso formula l’imputazione autorizzando la P.G. alla citazione a giudizio dell’imputato.

Sono opportune alcune considerazioni in tema di indagini preliminari. Poiché l’art. 2 del decreto legislativo afferma che “Nel procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è previsto nel presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme contenute nel c.p.p…”, tale disposizione ci consente di riflettere se in tale procedimento possa trovare applicazione l’art. 358 c.p.p., secondo il quale “Il P.M. compie ogni attività ai fini indicati nell’art. 326 c.p.p. e svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini”.

E’ probabile che ci si domandi ironicamente che senso abbia porsi il problema dell’applicazione di una norma nell’ambito della disciplina speciale relativa alla competenza penale del giudice di pace, quando già in sede di applicazione pratica della disciplina generale essa risulta di scarsa importanza, data la mancanza di sanzioni processuali in ipotesi di suo mancato rispetto. (Si noti che l’obbligo a carico del P.M. sorge indipendentemente da eventuali istanze di parte, si tratta cioè di un dovere che il P.M. ha, indipendentemente da un eventuale impulso della parte interessata, ma come spesso nella pratica si adempia ad esso solo a seguito di richieste specifiche).

Il problema posto non è invece di poco conto; se l’art. 358 c.p.p. non fosse applicabile in tema di indagini preliminari relative ai reati di competenza del giudice di pace, questa potrebbe essere una conferma di ciò che si è sempre temuto, ossia come il legislatore per primo, fin dal momento dell’entrata in vigore dell’obbligo sancito dall’art. 358 c.p.p., cioè l’obbligo a carico del P.M. di compiere accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini, abbia così poco creduto nella sua concreta attuazione, da non aver ritenuto necessaria la sua previsione o applicazione nel decreto legislativo in esame.

Di sicuro, l’interpretazione dell’art. 358 c.p.p. è stata notevolmente ridimensionata a seguito di alcune sentenze della Corte di Cassazione e ad alcuni interventi della Corte Costituzionale, ridimensionamento notevole se si pensa a quelle che erano state le iniziali aspettative della dottrina, la maggioranza della quale, aveva inteso questa norma quale decisivo passo in avanti per poter garantire una maggiore parità tra accusa e difesa e concreta attuazione del diritto di difesa stesso.

L’ordinanza n. 96 del 1997 della Corte Costituzionale (link a Consulta Online), nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 358 c.p.p., sollevata in riferimento agli artt. 24 comma 2°, 27 comma 2° e 76 della Costituzione, ha affermato che “Nella logica dell’attuale processo penale l’obbligo del pubblico ministero di svolgere indagini non mira né a realizzare il principio di eguaglianza tra accusa e difesa, né a dare attuazione al diritto della difesa, ma si innesta sulla natura di parte pubblica dell’organo dell’accusa e sui compiti che il pubblico ministero è chiamato ad assolvere nell’ambito delle determinazioni che, a norma del combinato disposto degli art.. 358 e 326 c.p.p., deve assumere in ordine all’esercizio dell’azione penale”.

In sostanza, tale accertamento a favore della persona sottoposta alle indagini, secondo la Corte Cost., è sì importante, ma solo perché, spettando al P.M. l’esercizio dell’azione penale, è essenziale che questi possa evitare l’instaurazione di un processo superfluo.

Premesso questo doveroso cenno al modo in cui tale principio è stato interpretato, fondamentale per capire perché la disposizione non si traduca in un obbligo processualmente sanzionato e non tolga il carattere essenzialmente discrezionale delle scelte investigative, e venendo alla questione prima esposta, nessun obbligo di effettuare accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini è previsto nel decreto legislativo, né a carico del P.M. né a carico della P.G. Occorrerà quindi verificare se tale obbligo vi sia comunque in forza dell’applicazione dell’art. 2 del decreto, di modo tale che l’art. 358 c.p.p. possa dirsi applicabile in quanto compatibile.

Poiché la fase delle indagini preliminari è funzionale alla determinazione dell’azione penale (ex art. 326 c.p.p. Il P.M. e la P.G. svolgono, nell’ambito delle rispettive attribuzioni, le indagini inerenti all’esercizio dell’azione penale), la disciplina generale prevede appunto che sia il P.M., in quanto unico titolare di tale azione, ad avere la gestione e la direzione delle indagini (ex art. 327 c.p.p. Il P.M. dirige le indagini e dispone direttamente della P.G.). Proprio perché dominus di questa fase, è il P.M. che deve svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini, ossia tale accertamento è strettamente collegato al fatto che spetta al P.M. l’esercizio dell’azione penale (L’art. 358 infatti nella sua prima parte premette che il P.M. compie ogni attività necessaria ai fini indicati nell’art. 326 c.p.p.).

Nell’ambito delle indagini preliminari su reati di competenza del giudice di pace, pur essendo sempre il P.M. l’unico titolare dell’esercizio dell’azione penale, questi tuttavia non è dominus delle indagini: si è visto come la regola generale sia che soggetto principale di queste è la P.G., non solo nell’ipotesi in cui sia la stessa P.G. ad acquisire la notizia di reato (Art. 11), ma anche nell’ipotesi in cui ad acquisirla sia il P.M. (Art. 12).

 Di conseguenza, pur non volendo arrivare ad affermare l’incompatibilità dell’art. 358 c.p.p. con la disciplina del presente decreto, esso in pratica non riceverà applicazione, in virtù del fatto che quest’ultima è strettamente collegata in modo funzionale al soggetto principale delle indagini.

- Per quello che riguarda il P.M., pur potendo sostenere che comunque nei suoi confronti rimane sempre l’obbligo ex art. 358 c.p.p., manca tuttavia il presupposto fondamentale perché tale obbligo possa essere attuato nella pratica, ossia  la titolarità esclusiva delle indagini preliminari. La direzione delle indagini è prevista solo come eventuale, così come eventuale è la decisione di compiere personalmente singoli atti o di svolgere personalmente le indagini stesse.

- Per quello che riguarda la P.G., l’obbligo degli accertamenti favorevoli non è ricompreso nei suoi fini istituzionali (si veda l’art. 55 c.p.p.), per cui l’unico modo sarebbe quello di affermare che, tra le direttive impartite dal P.M. alla P.G.,vi sia anche quella di compiere accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini. Tuttavia, anche questa soluzione non appare soddisfacente, in primis perché se così fosse il legislatore delegato avrebbe dovuto comunque prevederlo espressamente; in secondo luogo, perché è vero che il P.M. può, a norma dell’art. 12 del decreto legislativo impartire direttive alla P.G., ma si tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo.

Una ulteriore considerazione si rende inoltre necessaria alla luce dei recenti progressi compiuti dal legislatore in tema di indagini difensive, al fine di poter sostenere quanto l’obbligo di cui all’art. 358 c.p.p. sia importante e di conseguenza come esso debba essere oggetto di una attenta rivalutazione.

La legge del 7 dicembre 2000 n. 397, "Disposizioni in materia di indagini difensive", non è una gentile concessione dell’attuale legislatore, si tratta di un atto dovuto in forza sia dell’art. 24 comma 2° Cost. (La difesa è un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento), sia dell’art. 190 c.p.p., che ha codificato il diritto alla disponibilità della prova per le parti, di modo tale che le parti devono essere messe in condizione di parità in ordine alla ricerca, individuazione e presentazione delle prove al giudice.

Nonostante l’art. 190 c.p.p., il legislatore del 1988 non aveva comunque previsto nel codice di rito alcuna disposizione in tema di indagini difensive, disciplinate solamente a partire dal 1989 agli artt. 38 e 222 delle disp. att. (d. lgs del 28.07.1989 n. 271). Non si può semplificare affermando che sempre di legge si tratta, perché la collocazione sistematica in primis e la disciplina concreta poi, sempre che si potesse seriamente parlare di una effettiva disciplina, hanno dimostrato come la previsione fosse e sia tuttora del tutto insoddisfacente. Originariamente infatti, l’art. 38 era composto solo dal comma 1° e 2° e si prevedeva solamente il diritto per il difensore di svolgere investigazioni per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, di conferire con le persone che potevano dare informazioni e la facoltà di compiere tale attività tramite investigatori privati autorizzati.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva presto affievolito la portata, già tenue, della normativa sulle indagini difensive affermando [3] che, pur essendo il diritto dei difensori a svolgere le indagini preordinato al fine di esercitare il diritto alla prova ex art. 190 c.p.p., tuttavia tali attività di indagine non potevano essere direttamente utilizzate come elementi di prova neppure nella fase delle indagini preliminari. E, si noti bene, la Cassazione era pervenuta a tale assunto affermando espressamente che ciò derivava anche dal combinato disposto dell’art. 190 c.p.p. con l’art. 358 c.p.p. che, prevedendo l’obbligo del P.M. di svolgere accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini, comportava che gli elementi di prova acquisiti nella fase delle indagini preliminari dovessero essere assunti dal P.M. stesso.

La legge dell’8 agosto 1995 n. 332, aggiunse all’art. 38 disp. att. il comma 2° bis, che riconosceva al difensore della persona sottoposta alle indagini e al difensore della persona offesa il diritto di presentare direttamente al giudice elementi che reputava rilevanti ai fini della decisione da adottare, nonché il comma 2° ter, il quale prevedeva l’obbligo di inserire la documentazione prodotta nel fascicolo degli atti di indagine. Ad oggi quindi, la disciplina delle indagini difensive è compresa nel solo art. 38 delle disposizioni di attuazione.

Ritornando al problema dell’applicazione dell’art. 358 c.p.p., l’accenno effettuato alle indagini difensive è importante per poter affermare come sicuramente comprensibile, laddove vi fosse, sarebbe l’atteggiamento di “resa” da parte dell’operatore del diritto di fronte alla speranza di veder effettivamente attuato nella pratica l’obbligo a carico del P.M. di effettuare “altresì” accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini.

Comprensibile, perché fin dall’origine in tale norma molte sono state le speranze riposte, ma con la consapevolezza che essa fosse più una semplice affermazione di principio che non una norma cogente dotata di una valenza concreta, stante la mancanza di sanzioni processuali in caso di suo mancato rispetto. E se si pensa all’interpretazione che di essa è stata data sia da parte della giurisprudenza della Cassazione che dalla stessa Corte Costituzionale, ancora più comprensibile sarà l’atteggiamento di coloro che, a seguito dell’emanazione ed entrata in vigore della normativa in tema di indagini difensive, accantoneranno la speranza di veder applicato l’art. 358 c.p.p.

Atteggiamento comprensibile, quindi, ma criticabile. Nel momento in cui l’esigenza di riconoscere finalmente al difensore il diritto di “difendere provando” verrà soddisfatta, ciò non dovrà, per il ruolo di funzione pubblica che il P.M. assolve, portare ad affermare che così come il difensore potrà e dovrà difendere provando, il P.M. dovrà provare a tutti i costi solo l’accusa: nessun percorso può essere intrapreso con un minimo di buon senso effettuando un passo avanti e alcuni indietro. Il P.M., in quanto parte pubblica, ha un ruolo di lealtà che gli impone necessariamente di svolgere altresì accertamenti a favore della persona sottoposta ad indagine. Inoltre, l’effettiva applicazione pratica di tale obbligo,  ove vi fosse, potrà anche limitare una delle maggiori critiche alla nuova normativa in tema di indagini difensive, ossia quella di creare una disparità di trattamento tra coloro che possono permettersi una difesa completa di indagini e coloro che non possono.

Art. 13.
Autorizzazione del pubblico ministero al compimento di atti

1. La polizia giudiziaria può richiedere al pubblico ministero l'autorizzazione al compimento di accertamenti tecnici irripetibili ovvero di interrogatori o di confronti cui partecipi la persona sottoposta alle indagini. Il pubblico ministero, se non ritiene di svolgere personalmente le indagini o singoli atti, può autorizzare la polizia giudiziaria al compimento degli atti richiesti. Allo stesso modo provvede se viene richiesta l'autorizzazione al compimento di perquisizioni e sequestri nei casi in cui la polizia giudiziaria non può procedervi di propria iniziativa.

**         Di fondamentale importanza la previsione di cui all’art. 13 del decreto: essa rappresenta uno dei modi concreti per applicare nella pratica quanto detto circa la P.G. quale soggetto principale delle indagini preliminari. Ci sono determinati atti che la polizia giudiziaria non ha il potere di compiere in quanto riservati esclusivamente al P.M., come gli accertamenti tecnici non ripetibili di cui all’art. 360 c.p.p.; altri atti che invece appartengono alla competenza del P.M. ma che possono essere delegati alla P.G., quali gli interrogatori e i confronti ex art. 370 comma 1° c.p.p.; altri atti ancora, come le perquisizioni ed i sequestri, che a volte non possono essere svolti ad iniziativa della sola P.G.

            Senza la previsione di cui all’art. 13, che invece consente alla P.G., per gli atti di cui sopra, il compimento autonomo su autorizzazione del P.M., la P.G. non potrebbe in concreto, ex art. 11 “compie(re) di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del fatto e per l’individuazione del colpevole”.

Tecnicamente, a seguito della richiesta di autorizzazione della P.G. al compimento di atti specifici, il P.M. può:

1. Ritenere di svolgere personalmente le indagini. Tale ipotesi necessita di un approfondimento. Come si è visto negli articoli precedenti, la notizia di reato può essere acquisita direttamente dalla P.G. (Art. 11), oppure può essere acquisita dal P.M. (Art. 12); in entrambi i casi, spetta sempre alla P.G. il compimento delle indagini, dato che il P.M. può solo impartire direttive o al massimo, come precisa la Relazione, compiere personalmente solo singoli atti.

Quando invece la P.G. richiede al P.M. l’autorizzazione al compimento di atti che, secondo la normativa generale non potrebbe compiere, una delle soluzioni stabilite dall’art. 13 è che il P.M. ritenga a questo punto di svolgere personalmente le indagini. Si tratta dell’attuazione concreta del potere di controllo che, si è detto, rimane comunque in capo al P.M. Infatti, nel momento in cui la P.G. chiede al P.M. l’autorizzazione al compimento di determinati atti, non siamo più nella fase di acquisizione della notizia di reato, ma sicuramente in una fase più avanzata delle indagini; la P.G. dovrà motivare la richiesta sulla base degli atti svolti fino ad allora, atti che il P.M. prenderà in visione e sui quali quindi potrà esprimere un giudizio sul lavoro fino ad allora effettuato dalla sola P.G. Quindi, se riterrà di svolgere personalmente le indagini, ciò starà a significare che le indagini fino ad allora svolte dalla P.G., pur provvisorie, non sono a suo giudizio soddisfacenti.

La Relazione cerca di ridurre la portata della norma, laddove si precisa che nel caso in cui il P.M. decida di assumere personalmente la direzione delle indagini, questo in sostanza si tradurrà nel delegare il compimento di atti diversi da quelli richiesti, oppure, che il P.M. si limiterà ad impartire direttive per l’ulteriore corso delle investigazioni. Tuttavia, l'art.13 è chiaro: una delle possibilità per il P.M. in caso di richiesta di autorizzazione al compimento di atti, è che questi possa decidere di svolgere personalmente le indagini, con evidente limitazione della c.d. esclusività della P.G. nella fase in oggetto.

2. Ritenere di svolgere personalmente i singoli atti richiesti. In questo caso il P.M. si limita a compiere l’atto richiesto; dopo il compimento dell’atto, restituirà gli atti alla P.G. affinché sia questa a procedere ulteriormente nelle indagini.

3. Autorizzare la P.G. al compimento degli atti richiesti. Il P.M. quindi rilascia l’autorizzazione restituendo gli atti alla P.G. per il compimento dell’atto autorizzato. Precisa la Relazione che in questa ipotesi, così come nell’ipotesi di cui sopra, il P.M. non svolge alcun controllo né verifica i risultati parziali delle indagini. Nel caso della semplice autorizzazione poi, egli si limita a rimuovere un ostacolo giuridico per il proficuo svolgimento delle indagini.

4. Non autorizzare l’atto richiesto. Si tratta di un’ipotesi non espressamente prevista, ma che si ricava dal fatto che l’art. 13, dopo aver previsto il caso n. 1 e n. 2, afferma che il P.M. “può autorizzare la P.G. al compimento degli atti richiesti”: trattandosi perciò di una facoltà e non di un obbligo, può esserci anche diniego, giustificato da ragioni investigative o da mancanza di presupposti per il compimento dell’atto richiesto.

Art. 14.
Iscrizione della notizia di reato

1. Il pubblico ministero provvede all'iscrizione della notizia di reato a seguito della trasmissione della relazione di cui all'articolo 11, ovvero anche prima di aver ricevuto la relazione fin dal primo atto di indagine svolto personalmente.

** Non ci sono modifiche relative alla titolarità del soggetto che deve provvedere all’iscrizione della notizia di reato, spettando questa sempre al P.M.; pur tuttavia, la previsione di cui all’art. 14 del decreto si è resa necessaria per stabilire il momento temporale dell’iscrizione. A norma dell’art. 335 c.p.p., il P.M. iscrive “immediatamente” ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa. In base all’art. 14 del decreto invece, occorre distinguere.

- Se ad acquisire la notizia è la P.G., come si è visto, non si applica la normativa generale di cui all’art. 347 c.p.p. che prevede come essa debba riferirla “senza ritardo” al P.M. ma, in base all’art. 11, la P.G. svolge le indagini e riferisce al P.M. con relazione scritta entro 4 mesi. In questo caso quindi, l’iscrizione della notizia avverrà a seguito della trasmissione della relazione (con notevoli conseguenze in tema di termine per la chiusura delle indagini preliminari, come vedremo all’art. 16).

- Tuttavia, si può avere anche una iscrizione anticipata rispetto al momento di presentazione della relazione: questo avviene quando il P.M. svolge atti di indagine personalmente, per cui l’iscrizione dovrà avvenire fin dal primo atto di indagine svolto. Dall’ultimo inciso dell’art. 14 si ricava quindi che la differenza temporale dell’iscrizione della notizia di reato non dipende da quale sia il soggetto che acquisisce la notizia, bensì da quale sia il soggetto che svolge le indagini. Infatti, nell’ipotesi in cui la notizia venga acquisita direttamente dal P.M., questi, a norma dell’art. 12, deve trasmettere gli atti alla P.G. perché provveda a norma dell’art. 11; in questo caso il P.M. non provvederà quindi alla iscrizione della notizia di reato, la quale avverrà solo a seguito della presentazione della relazione; egli provvederà all'iscrizione nel caso in cui ritenga di dover svolgere personalmente le indagini e precisamente fin dal primo atto di indagine.

** L’art. 14 riguarda solamente il procedimento che si conclude o che dovrebbe concludersi, con la citazione a giudizio da parte della P.G., non certo quello relativo al ricorso della persona offesa. Si è detto infatti che la fase delle indagini preliminari sarà una fase destinata a svolgersi solo nell’ipotesi di reati perseguibili d’ufficio; nel caso di ricorso della persona offesa mancano le indagini preliminari e di conseguenza non c’è bisogno della iscrizione della notizia di reato. L'art.51 comma 3° del d. lgs, rimette all'emanazione di un decreto del Ministro della giustizia la disciplina delle forme di registrazione in materia penale, comprendendo in tali forme di registrazione anche i ricorsi presentati dalla persona offesa dal reato.

Art. 15.
Chiusura delle indagini preliminari

1. Ricevuta la relazione di cui all'articolo 11, il pubblico ministero, se non richiede l'archiviazione, esercita l'azione penale, formulando l'imputazione e autorizzando la citazione dell'imputato.

2. Se ritiene necessarie ulteriori indagini, il pubblico ministero vi provvede personalmente ovvero si avvale della polizia giudiziaria, impartendo direttive o delegando il compimento di specifici atti.

** Le indagini preliminari possono concludersi nei seguenti modi.

1. Richiesta di archiviazione da parte del P.M. In questo caso si applica l’art. 17 del decreto.

2. Esercizio da parte del P.M. dell’azione penale. Il P.M. dovrà quindi formulare l’imputazione e autorizzare la citazione dell’imputato davanti al giudice di pace da parte della P.G.

3. Integrazione delle indagini. Quando il P.M. ritiene che le indagini compiute dalla P.G. siano incomplete o comunque sia necessario un loro approfondimento, ne dispone l’integrazione. In entrambi i casi, il P.M. può decidere di provvedere personalmente oppure di avvalersi della P.G. impartendo direttive o delegando specifici atti.

Non è stata riproposta una norma analoga all’art. 415 bis c.p.p., per cui ci si domanda se tale norma sia applicabile al procedimento davanti al giudice di pace in quanto compatibile. Pur non essendoci una pratica incompatibilità, tuttavia non sembra possa applicarsi l’obbligo per il P.M. di far notificare all’indagato e al suo difensore l’avviso di conclusione delle indagini, sia perché l’art. 415 bis c.p.p. contrasterebbe con l’esigenza di semplificazione ritenuta essenziale dal legislatore delegante, sia perché ove si volesse ritenere applicabile tale norma, essa non sarebbe sanzionata in caso di sua mancata applicazione.

Art. 16.
Durata delle indagini preliminari

1. Il termine per la chiusura delle indagini preliminari è di quattro mesi dall'iscrizione della notizia di reato.

2. Nei casi di particolare complessità, il pubblico ministero dispone, con provvedimento motivato, la prosecuzione delle indagini preliminari per un periodo di tempo non superiore a due mesi. Il provvedimento è immediatamente comunicato al giudice di pace di cui all'articolo 5, comma 2, che se non ritiene sussistenti, in tutto o in parte, le ragioni rappresentate dal pubblico ministero, entro cinque giorni dalla comunicazione, dichiara la chiusura delle indagini ovvero riduce il termine indicato.

3. Gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza dei termini indicati nei commi 1 e 2 non possono essere utilizzati.

**         In relazione alla durata delle indagini preliminari, il termine per la loro chiusura è di quattro mesi dall’iscrizione della notizia di reato. Questo sta a significare però, che la durata delle indagini si differenzia: quattro mesi dal compimento del primo atto di indagine da parte del P.M., ex art. 14 seconda parte, oppure quattro mesi dalla ricezione della relazione ex art. 14 prima parte. Ma, mentre nel primo caso si hanno effettivamente soli quattro mesi, dato che il termine per le indagini decorre dalla data della stessa iscrizione, nel secondo caso invece, pur decorrendo tale termine sempre dalla iscrizione della notizia di reato, nella sostanza non si avranno quattro mesi di indagini bensì otto, dato che i primi quattro sono previsti ex art. 11 per arrivare a presentare la relazione e gli ulteriori quattro decorrono dal momento in cui tale relazione è ricevuta dal P.M. il quale effettua l’iscrizione della notizia di reato.

            Il comma 2° dell’art. 16 consente di disporre la prosecuzione delle indagini oltre il termine di cui al comma 1°, quando vi sono delle indagini particolarmente complesse. Inizialmente tale proroga non era prevista dallo schema di decreto trasmesso al Senato; essa è stata introdotta su sollecitazione della Commissione Giustizia di Palazzo Madama. Tale prosecuzione è disposta de plano dal P.M. con provvedimento motivato e per un periodo di tempo non superiore ai due mesi.

            Possiamo osservare come la proroga del termine delle indagini preliminari sia prevista anche dalla normativa generale all’art. 406 c.p.p., ma con sostanziali differenze rispetto a quanto prevede l’art. 16 del decreto. Infatti, l’art. 406 comma 1° c.p.p. prevede come presupposti per la proroga: l’esistenza di una giusta causa e la richiesta al giudice da parte del P.M. L’ipotesi della particolare complessità è poi prevista al comma 2° dell’art. 406 c.p.p. come motivo di ulteriore proroga, e anche in questo caso il provvedimento viene richiesto dal P.M. al giudice. In base all’art. 16 del decreto invece, il provvedimento di proroga viene disposto de plano dal P.M. senza la necessità di richiedere l’autorizzazione al giudice.

            E’ previsto comunque il controllo giurisdizionale in ordine alla legittimità di tale dilazione dei termini: il provvedimento del P.M. è immediatamente comunicato al giudice di pace circondariale (competente per le indagini preliminari ex art. 5 comma 2° del decreto) che, ove non ritenga sussistenti le ragioni poste dal P.M. a fondamento della prosecuzione, dichiara entro cinque giorni la chiusura delle indagini o riduce il termine fissato dal P.M. 

            La Relazione al decreto, con riferimento al termine di durata, afferma che “In tale modo, la durata massima delle indagini risulta determinata in sei mesi, termine come è noto che il codice di rito individua come quello ordinario delle indagini preliminari”. Si tratta tuttavia di una affermazione inesatta. Tecnicamente, è vero, il termine di decorrenza per l’espletamento delle indagini è ancorato all’iscrizione della notizia di reato, per cui si dovrebbe avere un periodo complessivo di sei mesi nel caso in cui vi sia anche la proroga. Il termine di sei mesi risulta quindi comune sia alla normativa del codice di rito, sia a quella del decreto. In base alla normativa codicistica, l’art. 405 c.p.p. prevede  il termine di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla quale è attribuito il reato è iscritta nel registro delle notizia di reato. Il decreto in oggetto, prevede all’art. 16 comma 1° il termine di quattro mesi dall’iscrizione della notizia di reato, più al comma 2°, due mesi in caso di proroga per particolare complessità delle indagini. Tuttavia, mentre in base all’art. 335 c.p.p., il P.M. iscrive immediatamente ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, non così avviene per il procedimento in oggetto.

            La regola è che le i.p. siano svolte ad iniziativa della sola P.G., sia che sia la stessa P.G. ad acquisire la notizia di reato (Art. 11), sia che ad acquisirla sia il P.M. (Art.12); la P.G. ha tempo quattro mesi per poter presentare la relazione scritta al P.M. Solo a seguito della presentazione di tale relazione avviene l’iscrizione della notizia di reato, dalla quale decorrono i quattro mesi per la chiusura delle indagini preliminari, con eventuale proroga  di due mesi per indagini particolarmente complesse.

            L’ipotesi di immediata iscrizione della notizia di reato si ha solo se il P.M. compie personalmente atti di indagine, di modo che l’iscrizione deve avvenire fin dal primo atto di indagine svolto dal P.M., ipotesi che nella struttura del decreto è considerata come marginale, stante la previsione della P.G. quale soggetto esclusivo delle indagini.

            Pertanto, nella pratica, l’effettivo termine per la chiusura delle indagini preliminari sarà di otto mesi, con la possibilità in caso di proroga di arrivare fino a dieci:

-                         Tempo massimo di quattro mesi di indagini della P.G. che sfociano nella relazione al P.M (Art. 11 e 12);

-                         al P.M. perviene la relazione, per cui provvede alla iscrizione della notizia di reato (Art. 14);

-                         ulteriori quattro mesi di indagini dalla iscrizione della notizia di reato (Art. 16 comma 1°);

-                         altri due mesi in caso di proroga in ipotesi di indagini particolarmente complesse (art. 16 comma 2°).

Infine, il comma terzo dell’art. 16 precisa, con disposizione analoga a quella dell’art. 407 comma 3° c.p.p., che gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza dei termini non possono essere utilizzati.

Art. 17.
Archiviazione

1. Il pubblico ministero presenta al giudice di pace richiesta di archiviazione quando la notizia di reato è infondata, nonché nei casi previsti dagli articoli 411 del codice di procedura penale e 125 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché dall'articolo 34, commi 1 e 2 del presente decreto. Con la richiesta è trasmesso il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali compiuti davanti al giudice.

2. Copia della richiesta è notificata alla persona offesa che nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nella richiesta è altresì precisato che nel termine di dieci giorni la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari. Con l'opposizione alla richiesta di archiviazione la persona offesa indica, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova che giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie.

3. Il pubblico ministero provvede sempre a norma del comma 2, nei casi in cui la richiesta di archiviazione è successiva alla trasmissione del ricorso ai sensi dell'articolo 26, comma 2.

4. Il giudice, se accoglie la richiesta, dispone con decreto l'archiviazione, altrimenti restituisce, con ordinanza, gli atti al pubblico ministero indicando le ulteriori indagini necessarie e fissando il termine indispensabile per il loro compimento ovvero disponendo che entro dieci giorni il pubblico ministero formuli l'imputazione.

5. Quando è ignoto l'autore del reato si osservano le disposizioni di cui all'articolo 415 del codice di procedura penale.

**         Come già precisato in commento all’art. 5 comma 2° del presente decreto, il giudice di pace competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari è quello circondariale, ossia il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente competente. La scelta è dovuta alla necessità di evitare situazioni di incompatibilità, per cui si è voluto distinguere tra giudice con funzione di controllo sull’esercizio dell’azione penale (giudice di pace-giudice per le indagini preliminari) e giudice che deve pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato (giudice di pace-giudice del giudizio).

Cause di archiviazione

1.      Quando la notizia di reato è infondata.

2.      Quando manca una condizione di procedibilità. (Art. 411 c.p.p.)

3.      Quando il fatto non è previsto dalla legge come reato. (Art. 411 c.p.p.)

4.      Quando il reato è estinto. (Art. 411 c.p.p.)

5.      Quando è ignoto l’autore o gli autori del reato. (Art. 415 c.p.p. in base all’art. 17 comma 5°)

6.      Quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. (Art.125 disp. att. )

7.      Quando si ha particolare tenuità del fatto. (Art. 34 decreto)

 

Procedimento

Con la richiesta di archiviazione, il P.M. trasmette il fascicolo contenente la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i verbali compiuti davanti al giudice ( si vedano a questo proposito i successivi articoli 18 e 19).

Copia della richiesta di archiviazione deve essere notificata alla persona offesa che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia dichiarato di voler essere informata circa l’eventuale archiviazione. Nella stessa richiesta deve essere precisato che nel termine di dieci giorni, la persona offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata di prosecuzione delle indagini preliminari. Con tale atto di opposizione, la persona offesa deve indicare, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova che giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie.

Il procedimento è quindi semplificato rispetto a quello ordinario, dato che non viene riportata la previsione dell’udienza da tenere in caso di opposizione all’archiviazione da parte della persona offesa: tutto si svolge attraverso un “contraddittorio cartolare”, come precisa la stessa Relazione al decreto.

Il terzo comma dell’art. 17 stabilisce che il P.M. provvede alla notificazione della richiesta di archiviazione anche nei casi in cui essa è successiva alla trasmissione da parte del giudice di pace del ricorso immediato della persona offesa dichiarato inammissibile o manifestamente infondato a norma dell’art. 26 comma 2°.

Se il giudice accoglie la richiesta, dispone con decreto l’archiviazione.

Se invece non accoglie la richiesta (sia stata fatta o meno l’opposizione), allora si ha una duplice possibilità: con ordinanza può indicare al P.M. le ulteriori indagini da compiere, fissando il termine indispensabile per il loro compimento e restituendo gli atti al P.M., oppure, può disporre con ordinanza non impugnabile, che il P.M. entro dieci giorni formuli l’imputazione, sempre restituendo allo stesso gli atti.

Art. 18.
Assunzione di prove non rinviabili

1. Fino all'udienza di comparizione, il giudice di pace dispone, a richiesta di parte, l'assunzione delle prove non rinviabili, osservando le forme previste per il dibattimento. Si applicano le disposizioni previste dall'articolo 467, commi 2 e 3, del codice di procedura penale.

**         Nonostante sia richiamata l’applicazione dell’art. 467 comma 2° e 3° c.p.p., sicuramente la portata della disposizione di cui all’art. 18 del presente decreto è più ampia degli “atti urgenti” del rito ordinario, dato che l’assunzione di prove non rinviabili può essere compiuta durante l’intera fase delle indagini preliminari, fino all’udienza di comparizione, mentre gli atti urgenti sono temporalmente collocati nella fase degli atti preliminari al dibattimento. Si tratta in sostanza di un istituto che sostituisce l’incidente probatorio, anche se la Relazione al decreto non parla precisamente di sostituzione bensì di riduzione del ruolo dell’incidente probatorio. Tale riduzione si è resa necessaria vista l’esigenza di massima semplificazione stabilita dalla legge delega, ma anche perché,  secondo la Relazione, “considerando la tipologia dei reati attribuiti alla competenza della magistratura onoraria, deve riconoscersi come il ricorso all’incidente probatorio sarebbe, in ogni caso, del tutto residuale in questo processo. Da qui l’opzione di non riproporre l’istituto, soprattutto con riferimento ai diversi casi previsti dall’art. 392 c.p.p. Tuttavia, una radicale esclusione di meccanismi processuali diretti a consentire l’immediata assunzione di prove non rinviabili al dibattimento, avrebbe avuto l’effetto di compromettere i diritti delle parti nel processo, che non avrebbero potuto azionare in maniera piena il proprio diritto alla prova”. Da qui quindi, l’introduzione con opportuni adattamenti, dell’applicazione dell’art. 467 c.p.p.

L’assunzione delle prove non rinviabili si ha a richiesta di parte, per cui possono richiederla l’imputato, la persona offesa e il P.M. Poiché si applicano il secondo e terzo comma dell’art. 467 c.p.p., deve essere dato avviso del compimento dell’atto almeno ventiquattro ore prima al P.M., alla persona offesa, all’imputato ed ai difensori, e l’assunzione delle prove avviene nel contraddittorio delle parti secondo le forme previste per il dibattimento. I verbali degli atti compiuti sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431 lett. d) c.p.p..

            Si è detto come l’assunzione delle prove non rinviabili possa avvenire durante l’intera fase delle indagini preliminari e  fino all’udienza di  comparizione, per cui, mentre nella fase delle indagini il giudice competente per tale assunzione sarà il giudice di pace circondariale a norma dell’art. 5 comma 2°, dopo la chiusura delle indagini preliminari, sarà competente il giudice del dibattimento. Sarà invece sempre competente il giudice del dibattimento, in ipotesi di procedimento su ricorso della persona offesa, dato che in questo caso mancano le indagini preliminari.

Art. 19.
Provvedimenti del giudice nel corso delle indagini

1. Nel corso delle indagini e fino al deposito dell'atto di citazione a norma dell'articolo 29, comma 1, competente a disporre il sequestro preventivo e conservativo è il giudice di pace indicato nell'articolo 5, comma 2.

2. Il giudice di cui al comma 1 decide anche sulla richiesta di archiviazione, sull'opposizione di cui all'articolo 263, comma 5, del codice di procedura penale, sulla richiesta di sequestro di cui all'articolo 368 del medesimo codice, nonché sulla richiesta di riapertura delle indagini. Lo stesso giudice è altresì competente a decidere sulla richiesta di autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero di altre forme di telecomunicazione, nonché per i successivi provvedimenti riguardanti l'esecuzione delle operazioni e la conservazione della documentazione.

**         Il giudice di pace circondariale è inoltre competente per una serie di atti espressamente stabiliti dall’art. 19.

-                         E’ competente a disporre il sequestro preventivo e conservativo.

-                         E’ competente a decidere sull’opposizione degli interessati contro il decreto del P.M. che dispone la restituzione o rigetta la richiesta di restituzione delle cose sequestrate ex art. 263 comma 5° c.p.p.

-                         E’ competente a decidere sulla richiesta di sequestro ex art. 368 c.p.p.

-                         E’ competente a decidere sulla richiesta di riapertura delle indagini.

-                         E’ competente a decidere sulla richiesta di autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero di altre forme di telecomunicazione, nonché per i successivi provvedimenti riguardanti l’esecuzione delle operazioni e la conservazione della documentazione.

Applicabilità delle altre disposizioni del c.p.p. in materia di indagini preliminari

Si è detto come il presente decreto, pur prevedendo una disciplina in tema di competenza penale del giudice di pace derogatoria della normativa generale del codice di procedura penale, rimandi all’applicazione delle disposizioni codicistiche in quanto applicabili (Art. 2 comma 1°). Anche in materia di indagini preliminari quindi, laddove il decreto non dispone, si applicano le norme del codice i rito, e a questo proposito la stessa Relazione governativa precisa alcuni casi concreti che vale la pena di riportare.

Per quanto riguarda la P.G., trovano applicazione tutte le ordinarie disposizioni in materia di atti di investigazione, dall’identificazione della persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (Art. 349 c.p.p.), alle norme sulla documentazione dell’attività di polizia giudiziaria (Art. 357 c.p.p.). Così, ad esempio, nel caso in cui la P.G. proceda ad un sequestro, dovrà osservare le disposizioni contenute nell’art. 355 c.p.p. in materia di convalida e, quindi, trasmettere il relativo verbale al P.M. nei tempi e nei modi previsti dalla norma; in tale ipotesi, ovviamente, non troverà applicazione il termine per la presentazione della relazione al P.M. di cui all’art. 11 del decreto, ma il diverso termine indicato dall’art. 355 comma 1° c.p.p. (senza ritardo e comunque non oltre le quarantotto ore). Identica situazione si avrà nel caso di perquisizione eseguita ad iniziativa della P.G. (Art. 352 comma 4° c.p.p.) o di sequestro preventivo nei casi di urgenza (Art. 321 bis comma 3° c.p.p. ). In tutte queste ipotesi, la trasmissione del verbale al P.M. secondo tempi diversi rispetto alla trasmissione della relazione finale, non impedisce alla P.G. di continuare l’attività di indagine, ma consente alle parti interessate (persona sottoposta alle indagini, persona alla quale le cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione) di poter far valere tempestivamente le proprie ragioni, anche attraverso una richiesta di riesame.

- Alessandra Cheli - dicembre 2000 - Rev. 2.0 febbraio 2001



[1] V. Zagrebelsky, “Solo un piccolo catalogo di reati supera la porta stretta della delega” in Diritto & Giustizia del 09.10.2000

[2] C. Riviezzo “La persona offesa protagonista del processo davanti al giudice di pace” in Diritto & Giustizi@ del 09.09.2000

[3] Cass. penale sez. fer. del 18 agosto 1992 e Cass. penale sez. I del 16 marzo 1994

 

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