Alessandra Cheli, Commento al decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 in materia di Giudice di pace penale - Parte I - artt. 1-19
Decreto Legislativo 28 agosto 2000, n. 274
"Disposizioni sulla
competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24
novembre 1999, n. 468"
pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 234 del 10 ottobre 2000 -
Supplemento ordinario n. 166.
IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli
articoli 76 e 87 della Costituzione;
Visto
l'articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;
Visto l'articolo 14 e seguenti della legge 24 novembre 1999,
n. 468, che delega il Governo ad adottare, entro otto mesi dalla sua entrata in
vigore, un decreto legislativo concernente la competenza in materia penale del
giudice di pace, nonché il relativo procedimento e l'apparato sanzionatorio dei
reati ad esso devoluti, unitamente alle norme di attuazione, di coordinamento e
transitorie secondo i principi e i criteri direttivi previsti dagli articoli
15, 16 e 17;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei
Ministri, adottata nella riunione del 23 giugno 2000;
Acquisiti i pareri delle competenti commissioni permanenti
del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati, a norma dell'articolo
21, comma 1, della citata legge 24 novembre 1999, n. 468;
Vista la deliberazione del Consiglio dei Ministri, adottata
nella riunione del 25 agosto 2000;
Sulla proposta del Ministro della giustizia;
E m a n a
il seguente decreto legislativo:
Titolo I Capo I Art. 1. 1. Svolgono
funzioni giudiziarie nel procedimento penale davanti al giudice di pace: |
** Il legislatore ha mantenuto la funzione
inquirente alla magistratura togata. Notevoli sono tuttavia le possibilità di
delega che l’art. 50 del presente decreto prevede a favore degli uditori
giudiziari, ai vice procuratori onorari addetti all’ufficio e agli ufficiali di
P.G. che non abbiano preso parte alle indagini preliminari.
Art. 2. 1. Nel
procedimento davanti al giudice di pace, per tutto ciò che non è previsto dal
presente decreto, si osservano, in quanto applicabili, le norme contenute nel
codice di procedura penale e nei titoli I e II del decreto legislativo 28
luglio 1989, n. 271, ad eccezione delle disposizioni relative: |
** Inizialmente
tale norma era stata prevista nelle disposizioni finali del decreto;
successivamente, grazie alle modifiche suggerite dalla Commissione Giustizia
del Senato mediante proprio Parere approvato con seduta del 27 luglio 2000, ha
trovato adeguato inserimento tra le disposizioni di carattere generale.
Le
esclusioni relative all’applicabilità della disciplina codicistica trovano
varie giustificazioni.
- L’incidente probatorio e la proroga
del termine per le indagini trovano una disciplina specifica agli artt. 18 e 16
del decreto.
- L’arresto in flagranza, il fermo di
indiziato di delitto e le misure cautelari personali, in quanto istituti
connessi con la privazione della libertà personale, non possono trovare
applicazione nel procedimento dinanzi al giudice di pace, dato che questi non
ha alcun potere limitativo della libertà personale.
- Per ciò che concerne i riti
alternativi indicati, la loro applicabilità è stata esclusa in blocco, e la
giustificazione fornita dal legislatore è stata quella della forte esigenza di
semplificazione, anche se per la precisione questa motivazione non ha senso in
relazione al rito del giudizio immediato, considerato che questo non sarebbe
stato praticamente ammissibile data la mancanza dell’udienza preliminare
davanti al giudice di pace. I riti alternativi sono stati esclusi, nonostante
le critiche della menzionata Commissione Giustizia del Senato in relazione all’
esclusione del decreto penale di condanna. Secondo la Commissione, pur
intuibili le motivazioni che hanno indotto a questa scelta, basate sul fatto
che svolgendo il giudice di pace una funzione essenzialmente conciliativa, il
decreto penale potrebbe intercettarla e vanificarla, “tuttavia l’utilità
della sua previsione è difficilmente contestabile, specie nei casi in cui è
meno praticabile l’attività riparatoria o conciliativa e comunque anche in
quelli, ove la soluzione bonaria non abbia esito. L’esigenza conciliativa
merita tutela soprattutto nei reati perseguibili a querela, mentre negli altri
può mancare, e spesso di fatto manca, una persona offesa con la quale
instaurare questo rapporto conciliativo. In questi casi, invero, prevale
l’opportunità di stimolare un’attività riparatoria, per lo più a valenza
pubblicistica”.
2. Nel corso del procedimento, il giudice di pace deve
favorire, per quanto possibile, la conciliazione tra le parti. |
** L’art.
2 comma 2° del decreto legislativo individua nella conciliazione il compito e
le finalità primari della giurisdizione penale del giudice di pace.
Si tratta della consacrazione
del principio per il quale il giudice di pace, per definizione, ha una naturale
funzione conciliativa (basti pensare che, coerentemente alla sua denominazione,
anche in sede di giurisdizione civile è l’unico giudice al quale è affidato
obbligatoriamente il compito di tentare la conciliazione delle parti); l’art. 2
comma 2° tuttavia, non può essere considerato solo come norma che si limita a
sancire un principio già esistente nell’ambito dell’ordinamento, ma
necessariamente anche come norma programmatica e di riferimento di tutto
l’impianto normativo del decreto.
Pur non volendo in
alcun modo porre a confronto i due tipi di giurisdizione affidati al giudice di
pace, non si può non notare come la composizione del conflitto in materia
penale sia considerata dal legislatore il leit motif di tutta la riforma:
diversamente dalla giurisdizione civile laddove il tentativo di conciliazione è
previsto solo nella prima udienza (Art. 320 comma 1° c.p.c.), nell’ambito della
giurisdizione penale il giudice di pace nel corso del procedimento – cioè
in tutte le sue fasi - deve – quindi ha l’obbligo - favorire, per quanto
possibile, la conciliazione tra le parti.
Si noti come il
decreto legislativo sia andato oltre la previsione della legge delega del 1999
n. 468, nel cui art.17 relativo al procedimento penale davanti al giudice di
pace, si era limitata nella lettera g) a prevedere l’obbligo per il giudice
di procedere al tentativo di conciliazione sugli aspetti riparatori e
risarcitori conseguenti al reato, nonché in ordine alla remissione della
querela ed alla relativa accettazione.
Se
ci limitiamo a considerare l’art. 2 comma 2° del presente decreto legislativo
solo sotto il primo aspetto, e cioè come semplice norma di principio, esso non
pone problemi di sorta: nessun dubbio sulla naturale vocazione conciliativa del
giudice di pace; se invece consideriamo tale norma come cardine di tutta la
riforma e ad essa facciamo costante riferimento nella esegesi del testo di
legge, occorrerà verificare in quale modo la funzione conciliativa trova
esplicazione e soprattutto se essa può trovare nella prassi soddisfacente
applicazione.
Art. 3. 1. Nel procedimento davanti al giudice di pace, assume la
qualità di imputato la persona alla quale il reato è attribuito nella
citazione a giudizio disposta dalla polizia giudiziaria o nel decreto di
convocazione delle parti emesso dal giudice di pace. |
**
La formulazione tecnica di questa norma è alquanto imprecisa, ed il
suo inserimento in tale contesto iniziale appare di dubbia opportunità. Il
pericolo è quello di fermarsi alla sola lettera di essa, isolandola dal contesto
in cui è inserita; se così fosse, si perverrebbe ad una interpretazione fuorviante
e del tutto inesatta, interpretazione che verrebbe a scardinare uno dei principi
fermi in tema di diritto processuale penale, ossia che l’esercizio dell’azione
penale spetta al P.M. e che l’assunzione della qualità di imputato deriva
solo ed esclusivamente da tale esercizio. Non sta a noi prendere posizione
a favore o contro l’esclusiva titolarità di tale potere in capo al P.M., ma
non si può non considerare che finché tale principio esiste questo deve essere
rispettato e non certo disatteso attraverso interpretazioni non corrette da
parte di chi intende “avvalersi” di una inesatta, o meglio, incompleta, formulazione
normativa. L’art. 3 del decreto verrebbe quindi non solo a contrastare con
l’art. 60 c.p.p., norma che stabilisce le ipotesi in cui il soggetto assume
la qualità di imputato, -ipotesi tutte in cui tale qualità viene attribuita
solo a seguito di una serie di atti tipici del P.M.-, ma, conseguentemente,
anche con il principio espressamente stabilito dall’ art. 50 e poi ribadito
dall’art. 405 comma 1° c.p.p. in base al quale l’esercizio dell’azione penale
spetta solo al P.M.
Malgrado
la formulazione di tale articolo, poiché l’interpretazione deve tener conto di
tutto il contesto normativo, se si analizza la disciplina concreta della
citazione a giudizio disposta dalla P.G. (Art.20) e del decreto di convocazione
delle parti emesso dal giudice di pace su ricorso della persona offesa (Artt.
21 e ss.), notiamo che, nonostante dalla lettera dell’art. 3 del decreto
l’assunzione della qualità di imputato sia indipendente da qualunque intervento
o atto del P.M., in realtà così non è. Per ciò che riguarda infatti la polizia
giudiziaria, questa cita sì l’imputato dinanzi al giudice di pace, ma sulla
base dell’imputazione formulata dal P.M. (Art. 20 comma 1°).
In
relazione al ricorso, questo deve essere previamente comunicato al P.M.
mediante deposito di copia presso la sua segreteria (Art. 22 comma 1°); il P.M.
entro 10 gg presenta le sue richieste nella cancelleria del giudice di pace
(Art. 25 comma 1°), e spetta sempre al P.M. la formulazione dell’imputazione confermando
o modificando l’addebito contenuto nel ricorso (Art. 25 comma 2°). In ogni
caso, anche se il P.M. non ha presentato richieste, il giudice di pace
controlla l’ammissibilità e la
fondatezza del ricorso (Art. 25 comma 2°), per cui l’azione penale non potrà
mai dirsi essere esercitata direttamente dalla persona offesa.
Nessun
dubbio quindi, che la citazione a giudizio davanti al giudice di pace da parte
della persona offesa rappresenti una delle innovazioni fondamentali del decreto
in esame, ma la preoccupazione è che si voglia trovare nel testo di legge
quello che in realtà non vi è scritto o che comunque non può ricavarsi
attraverso l’analisi interpretativa di esso, e cioè che si dia ormai per
scontata l’introduzione nell’ordinamento, anche se limitatamente al processo
dinanzi al giudice di pace, dell’azione penale privata.
Art. 4. 1. Il
giudice di pace è competente: |
** Una
prima considerazione deriva da ciò che afferma la Relazione al decreto, nel cui
articolo 2 paragrafo 1° esordisce affermando che “l’impronta ideale” di
tutta la riforma, ossia la valorizzazione delle funzioni conciliative di tale
giudice “si trova immediatamente riflessa già nella scelta dei reati
devoluti alla competenza del giudice di pace”. Sennonché, tale affermazione
trova una sua ragion d’essere solo in relazione ai reati di cui al comma 1°
dell’art. 4 del decreto legislativo, trattandosi di “delitti di agevole
accertamento” ed inoltre costituenti “l’espressione tipica ed immediata
di situazioni di microconflittualità individuale” e che “ in quanto
tali, sembrano perfettamente ritagliati sulle caratteristiche del giudice
onorario deputato a conoscerle”, non certo in relazione agli altri reati previsti
nello stesso articolo. In ogni caso, secondo autorevole dottrina[1],
non si è osato adottare la soluzione, pure avanzata, dell’assegnazione al
giudice di pace dei delitti punibili solo a querela di parte, che avrebbe
potuto vedere pienamente dispiegata l’attività conciliativa del giudice nonché
un processo largamente gestito dalla stessa parte offesa.
b) per le
contravvenzioni previste dagli articoli 689 (somministrazione
di bevande alcoliche a minori o a infermi di mente), 690 (determinazione in altri dello stato di ubriachezza),
691 (somministrazione di bevande alcoliche a
persona in stato di manifesta ubriachezza), 726, primo comma (atti contrari alla pubblica decenza), e 731
(inosservanza dell’obbligo dell’istruzione
elementare dei minori) del codice
penale. |
** Osserviamo
che già a partire dalla lettera b) del secondo comma dell’art.4, la competenza
del giudice di pace viene mano a mano scemando dalla funzione di composizione
del conflitto tra le parti: la lettera b) tratta infatti di contravvenzioni in
cui è poco evidente quella “microconflittualità individuale” che invece
giustifica la competenza per i reati della lettera a). Tuttavia, poiché l’art.
15 comma 3° lettera b) della legge delega stabilisce, tra gli altri, come
criterio guida per la competenza quello di poter eliminare le conseguenze
dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno,
si è pensato che in relazione a questa tipologia di contravvenzioni,
caratterizzata dallo schema del reato di pericolo, possa trovare spazio il
criterio riparatorio.
2. Il
giudice di pace è altresì competente per i delitti, consumati o tentati, e per
le contravvenzioni previsti dalle seguenti disposizioni: a)
articoli 25 (mancato avviso al questore dello
svolgimento di funzioni o processioni) e
62, terzo comma (mancata iscrizione di portieri
e custodi nell’apposito registro di Ps), del regio decreto 18 giugno
1931, n. 773, recante "Testo unico in materia di sicurezza"; b)
articoli 1094 Inosservanza di ordine da parte di
membro dell’equipaggio) , 1096 (Inosservanza di ordine
di arresto) e 1119 ( componente
dell’equipaggio che si addormenta)del regio decreto 30 marzo 1942,
n. 327, recante "Approvazione del testo definitivo del codice della
navigazione"; c)
articolo 3 (costruzione o custodia di un rifugio
senza l’autorizzazione dell’Ente provinciale del Turismo) del decreto del Presidente della Repubblica 4
agosto 1957, n. 918, recante "Approvazione del testo organico delle norme
sulla disciplina dei rifugi alpini"; d)
articoli 102 (ingresso di persona non
autorizzata nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) e 106
(sottoscrizione di più candidature del collegio
uninominale o di più liste nel collegio proporzionale da parte di un elettore)
del decreto del Presidente della Repubblica 30 marzo 1957, n. 361, recante
"Testo unico delle leggi per l'elezione della Camera dei deputati"; e)
articolo 92 (ingresso di persona non autorizzata
nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) del decreto del Presidente della Repubblica 16
maggio 1960, n. 570, recante "Testo unico delle leggi per la composizione
e la elezione degli organi delle amministrazioni comunali"; f)
articolo 15, secondo comma, (alterazione del
contrassegno di identificazione delle macchine utensili) della legge
28 novembre 1965, n. 1329, recante "Provvedimenti per l'acquisto di nuove
macchine utensili"; g)
articolo 3 (apertura di una farmacia senza
autorizzazione) della legge 8 novembre 1991, n. 362, recante
"Norme di riordino del settore farmaceutico"; h) articolo
51 (ingresso di persona non autorizzata
nell’ufficio centrale o nella sala delle elezioni) della legge 25 maggio 1970, n. 352, recante
"Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa
legislativa del popolo"; i)articoli
3, terzo e quarto comma (esecuzione di opere
ferroviarie non autorizzate), 46, quarto comma (alterazione delle ripe dei fondi laterali alle linee
ferroviarie) e 65, terzo comma (manovra non autorizzata
di passaggi a livello), del decreto del Presidente della Repubblica
11 luglio 1980, n. 753, recante "Nuove norme in materia di polizia,
sicurezza e regolarità dell'esercizio delle ferrovie e di altri servizi di
trasporto"; l)
articoli 18 (organizzazione non autorizzata di
lotteria) e 20 (raccolta delle
scommesse del lotto senza concessione)
della legge 2 agosto 1982, n. 528, recante "Ordinamento del gioco
del lotto e misure per il personale del lotto"; m)
articolo 17, comma 3 (cessione del proprio
sangue o derivati a fini di lucro), della legge 4 maggio 1990, n.
107, recante "Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue
umano ed ai suoi componenti e per la produzione di plasmaderivati"; n)
articolo 15, comma 3 (immissione sul mercato di
recipienti senza il marchio Cee), del decreto legislativo 27 settembre
1991, n. 311, recante "Attuazione delle direttive n. 87/404/CEE e n.
90/488/CEE in materia di recipienti semplici a pressione, a norma dell'articolo
56 della legge 29 dicembre 1990, n. 428"; o)
articolo 11, comma 1 (vendita o distribuzione
gratuita di giocattoli privi della marchiatura Cee), del decreto
legislativo 27 settembre 1991, n. 313, recante "Attuazione della direttiva
n. 88/378/CEE relativa al ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri
concernenti la sicurezza dei giocattoli, a norma dell'articolo 54 della legge
29 dicembre 1990, n. 428"; p)
articolo 7, comma 9 (non ottemperanza da parte
dell’operatore pubblicitario a provvedimenti d’urgenza, inibitori o di
rimozione dell’autorità competente), del decreto legislativo 25
gennaio 1992, n. 74, recante "Attuazione della direttiva n. 84/450/CEE in
materia di pubblicità ingannevole"; q)
articoli 186, commi 2 e 6 (guida sotto
l’influenza di alcool, tranne quando il fatto costituisce reato più grave, e si rifiuti di sottoporsi alla prova dell’etilometro),
187, commi 4 e 5 (guida sotto l’influenza di
sostanze stupefacenti, tranne quando il fatto costituisce reato più grave)
, e 189, comma 6 (comportamento in caso di
incidente nel caso di omissione di soccorso), del decreto
legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante "Nuovo codice della
strada"; r)
articolo 10, comma 1 (immettere sul mercato i
dispositivi medici attivi priva di marcatura Cee), del decreto
legislativo 14 dicembre 1992, n. 507, recante "Attuazione della direttiva
n. 90/385/CEE concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati
membri relative ai dispositivi medici impiantabili attivi"; s)
articolo 23, comma 2 (pubblicità di dispositivi
medici in violazione del divieto previsto dalla legge), del decreto
legislativo 24 febbraio 1997, n. 46, recante "Attuazione della direttiva
n. 90/385/CEE concernente i dispositivi medici". |
** In relazione ai reati di cui al
secondo comma dell’art.4, la problematica è evidente: la naturale vocazione
conciliativa del giudice di pace che più volte il decreto legislativo esalta
ponendola come motivo giustificativo e base di tutta la riforma, - da qualunque
lato si analizzi tale legislazione penale speciale attribuita alla competenza
del giudice di pace -, non può in alcun modo essere esercitata in presenza di tali reati.
L’art.
15 comma 3° della legge delega, stabilisce che “Al giudice di pace è inoltre
devoluta la competenza per i reati previsti da leggi speciali, da
individuare nel rispetto di tutti i seguenti criteri:
a) reati
puniti con una pena detentiva non superiore nel massimo a quattro mesi, ovvero
con una pena pecuniaria sola o congiunta alla predetta pena, ad eccezione di
quelli che nelle ipotesi aggravate sono puniti con una pena detentiva superiore
a quella suindicata;
b) reati
per i quali non sussistono particolari difficoltà interpretative o non ricorre,
di regola, la necessità di procedere ad indagini o a valutazioni complesse in
fatto o in diritto e per i quali è possibile l’eliminazione delle conseguenze
dannose del reato anche attraverso le restituzioni o il risarcimento del danno;
c) reati
che non rientrano in taluna delle materie indicate nell’art. 34 della legge 24
novembre 1981 n. 689, ovvero nell’ambito delle violazioni finanziarie.”
Questi criteri, come espressamente stabilito, debbono coesistere, per
cui, oltre al fatto che ciascuno di essi pone problemi a sé stanti, l’ulteriore
aspetto problematico è dato dall’obbligo di tale coesistenza; per questo, il
compito del legislatore delegato si è rivelato notevolmente arduo, trovatosi di
fronte ad una delega che ha tentato di osare ma non troppo, volendo, da un
lato, attribuire competenza penale al giudice di pace, e dall’altro, non
volendogliene attribuire poi molta, quasi che la riforma debba considerarsi
come sperimentale.
In relazione alla
lettera a) dell’art. 15 comma 3° della legge delega, intenzionalmente il
legislatore delegato non ha previsto fattispecie punite con pena pecuniaria
particolarmente alta in quanto, si legge nella Relazione al decreto
legislativo, “si sarebbe prodotta una irragionevole disparità di trattamento
rispetto a reati in origine puniti con pena detentiva (ed assai più gravi) per
i quali la legge delega invece non consente di eccedere il limite dei 5 milioni
di lire” (Art. 16 lett. a) per le sanzioni irrogabili dal giudice di pace.
A prima vista si
tratta di una contraddizione insanabile, una mancata attuazione della legge
delega dovuta all’esigenza fondamentale di attribuire maggiori reati alla
competenza penale del giudice di pace rispetto a quelli effettivamente voluti
dal legislatore delegante.
Appare corretta la giustificazione fornita
dal legislatore, pervenuto a tale previsione sulla base delle seguenti
considerazioni.
- Se fossero stati
inseriti solo reati per i quali sono possibili le restituzioni o il
risarcimento del danno si sarebbe avuto un effetto assurdo, e cioè
l’attribuzione al giudice di pace di reati di gravità notevole e l’esclusione
dalla competenza di fattispecie meno gravi oltre che di più agevole
accertamento, in quanto reati di pericolo astratto non comportanti conseguenze
dannose.
- La delega prevedeva
all’art. 15 comma 2°, di devolvere alla
competenza del giudice di pace delle contravvenzioni poi riportate nell’art. 4
comma 1° lett. b) del decreto, nelle quali la restitutio non è
ipotizzabile o comunque si può avere raramente.
- I criteri ex art.
15 comma 3° lett. a), b) e c) della legge delega, sono espressamente previsti
come criteri cumulativi per l’individuazione della competenza per i reati
previsti da leggi speciali e, tra queste ultime, non solo non vi sono nel loro
complesso molti reati caratterizzati da “conflittualità interindividuale”
per i quali siano possibili le restituzioni ed il risarcimento del danno, ma
soprattutto non vi sono reati previsti da leggi speciali che, oltre a tale
caratteristica, siano anche previsti con pena detentiva non superiore nel
massimo a 4 mesi.
Pertanto, “alla
luce di queste considerazioni -si legge nella Relazione-, nell’attuazione
datane dall’art. 4 comma 2° del decreto legislativo, il richiamo alle
conseguenze dannose del reato è stato inteso in senso atecnico: vale a dire,
come una sorta di valvola di sfogo del nuovo sistema che, per il tramite di
essa, intende preservarsi dal rischio di includere reati puniti non
pesantemente, di interpretazione e di accertamento agevole, e tuttavia
in ipotesi di considerevole gravità (si pensi a molti reati, previsti spesso in
forma contravvenzionale ma di natura sostanzialmente delittuosa, introdotti in
attuazione delle diverse leggi comunitarie). In conclusione, si è ritenuto
opportuno escludere dal novero dei reati di competenza del giudice di pace
quelli suscettibili di produrre effetti non rimovibili; viceversa, sono stati
attribuiti a questo giudice, quelli che per la loro tipologia producono
conseguenze eliminabili come anche quelli che non producono affatto conseguenze”.
Poiché in tema di
competenza del giudice di pace, ci troviamo in presenza dell’attribuzione allo
stesso di reati che non possono far sì che venga esplicata la funzione
conciliativa, alcuni autori hanno affermato che tale principio debba
conseguentemente essere interpretato in senso atecnico. Si è pensato che, dato
che la stessa Relazione al decreto afferma che la norma delega in tema di
restituzioni e risarcimento del danno deve essere interpretata in senso
atecnico, allora anche l’art. 2 del decreto legislativo deve essere interpretato in questo senso, essendo
entrambe le norme espressione del principio della funzione conciliativa.
Senonchè, queste
affermazioni rischiano di svuotare il principio sancito dall’art. 2 del decreto
legislativo: non è possibile affermare che la funzione conciliativa rappresenta
il punto cardine di tutta la riforma e al contempo dire che questa debba essere
interpretata in senso atecnico; delle due l’una, se di principio ordinatore di
tutto il sistema si deve parlare, esso non può essere poi svuotato di
contenuto.
Tuttavia, le considerazioni
sopra svolte sono tutte valide, dato che nei reati della legislazione penale
complementare questo non può essere assunto come principio base. Sembra allora
più corretto affermare che la funzione conciliativa del giudice di pace, pur
principio cardine del sistema, ha trovato una maggiore esplicazione negli
aspetti processuali del decreto (lo vedremo più avanti) piuttosto che negli
aspetti sostanziali, e che questo è dovuto ad esigenze di ordine sistematico
piuttosto che ad uno svuotamento del principio stesso, il quale non è che
debba essere inteso in senso atecnico, in modo da attribuire ad esso un significato
riduttivo, ma semplicemente non trova espressione in determinate ipotesi.
Del resto, non bisogna dare eccessivo peso all'elevato numero dei reati previsti
dall’art. 4 comma 2 del decreto legislativo; alcuni, come quelli relativi
al mancato rispetto delle norme in tema di elezioni e referendum, possono
verificarsi solo in presenza di appuntamenti elettorali e referendari ed altri,
ad esempio in materia farmaceutica, di giocattoli e di dispositivi medici,
si verificano raramente.
Inoltre, non si può
tralasciare di considerare una delle esigenze fondamentali che hanno portato
all’attuale riforma, ossia l’obiettivo di una maggiore deflazione del carico
penale.
Alleggerire
la magistratura professionale di un'enorme mole di procedimenti significa tempi
più rapidi per la celebrazione dei processi. In questo modo, si cerca di
garantire, da un lato, il diritto del cittadino a un giusto processo, e,
dall'altro, l'aspettativa della collettività di vedere individuati e puniti i
responsabili dei reati.
Con
l'attribuzione alla magistratura onoraria della competenza in materia penale
sopra specificata, viene introdotto un doppio circuito giudiziario penale: la
magistratura professionale per i reati più gravi ed il giudice di pace per
quelli di minore gravità, i quali di regola comportano anche una maggiore
facilità nella ricerca e nella valutazione delle prove, nonché una minore
probabilità di recidiva. Lo scopo è quello di consentire ai giudici togati di
concentrarsi esclusivamente sui fatti di maggiore rilevanza e allarme sociale,
mentre la magistratura onoraria avrà la competenza per illeciti che, pur continuando
a essere sanzionati penalmente, non rivestono caratteri di gravità tali da
rendere necessario l'intervento della magistratura professionale.
3. La
competenza per i reati di cui ai commi 1 e 2 è tuttavia del tribunale se
ricorre una o più delle circostanze previste dagli articoli 1 del decreto-legge
15 dicembre 1979, n. 625, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 febbraio
1980, n. 15 (finalità di terrorismo),
7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni,
dalla legge 12 luglio 1991, n. 203 (criminalità
organizzata), e 3 del decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122,
convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205 (razzismo). 4. Rimane ferma la competenza del tribunale per i minorenni. |
Art. 5. 1.
Per i reati indicati nell'articolo 4, competente per il giudizio è
il giudice di pace del luogo in cui il reato è stato consumato. |
**
Il criterio in oggetto è lo stesso della normativa codicistica, ossia
quello del locus commissi delicti. In tale primo comma dell’art. 5
del d. lgs. si è voluto indicare solo quello che è il criterio generale per
la determinazione della competenza per territorio, rimandando, in forza dell’art.
2 comma 1° del decreto, al comma 3° e 4° dell’art. 8 c.p.p. per ciò che concerne
le regole applicabili in ipotesi di reato permanente (giudice del luogo in
cui ha avuto inizio la consumazione) e di delitto tentato (giudice del luogo
in cui è stato compiuto l’ultimo atto diretto a commettere il delitto).
2.
Competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini preliminari
è il giudice di pace del luogo ove ha sede il tribunale del circondario
in cui è compreso il giudice territorialmente competente. |
La
previsione di un G.I.P. quale giudice di controllo e di garanzia anche per il
procedimento innanzi al giudice di pace, pur non assumendo l’importanza che
esso ha nell’ambito del procedimento ordinario, non è comunque di poco conto,
tenendo presente i poteri che gli sono attribuiti in sede di archiviazione
dall’art. 17 del decreto, ed i provvedimenti che egli può adottare nel corso
delle i.p. a norma dell’art. 19 (in tema di sequestri preventivi e
conservativi).
1. la
ridefinizione delle ipotesi di connessione dei procedimenti, doveva tener conto
della particolare natura dei reati devoluti alla competenza del giudice di
pace;
2. l’introduzione
di poteri discrezionali in capo al giudice quanto all’obbligo di rilevarne
l’operatività.
Quest’ultimo
criterio si rivelava però di estrema pericolosità in quanto consentire al
giudice di pace un potere discrezionale in tema di connessione, equivarrebbe a
consentirgli una determinazione discrezionale della competenza, con evidente
violazione dell’art. 25 Cost. in tema di giudice naturale precostituito per
legge. Nonostante la lettera della legge delega, tale direttiva è stata però
interpretata correttamente dal legislatore delegato, in quanto la
discrezionalità a cui si fa riferimento, non è stata intesa come
discrezionalità in tema di effetti della connessione sulla competenza (che
contrasterebbe appunto con l’art. 25 Cost.), ma come potere discrezionale
relativo agli effetti della connessione sulla riunione o separazione dei
processi, così come vedremo meglio all’art. 9 del d. lgs.
L’art.
6 del d. lgs. disciplina le ipotesi di connessione eterogenea, ossia
quando i casi di connessione si realizzano tra uno o più reati di cui è
competente il giudice di pace ed uno o più reati di cui è competente il
tribunale o la corte di assise.
L’art.
7 del d. lgs. disciplina le ipotesi di connessione omogenea: quando i
casi di connessione si realizzano tra reati che sono tutti di competenza del
giudice di pace.
Art. 6. 1.
Tra procedimenti di competenza del giudice di pace e procedimenti di
competenza di altro giudice, si ha connessione solo nel caso di persona
imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione. |
** Si ha connessione solo nel caso di persona imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione. Quindi, l’unica ipotesi di connessione ex art. 12 c.p.p. presa in considerazione è solo quella relativa alla prima parte della lett. b), ossia l’ipotesi del concorso formale dei reati. 2. Se alcuni dei procedimenti connessi appartengono alla competenza del giudice di pace e altri a quella della corte di assise o del tribunale, è competente per tutti il giudice superiore.
|
3. La connessione
non opera se non è possibile la riunione dei processi, |
** Infatti, nell’ipotesi in cui non sia possibile la riunione, come nell’ipotesi
in cui i processi siano in una fase o grado diversi, non avrebbe senso l’operatività
della connessione, visto che non si potrebbe dar luogo al simultaneus processus.
** La connessione non opera quindi se uno dei
procedimenti appartiene ad un giudice speciale. Poiché l’art. 4 comma 4° del
decreto legislativo stabilisce che “Rimane ferma la competenza del tribunale
per i minorenni”, la competenza di quest’ultimo è di per sé sempre
inderogabile, per cui il giudice superiore al quale si riferisce il presente
articolo è il tribunale militare.
** E’ opportuno sottolineare come l’introduzione in tale normativa della connessione
eterogenea, pur limitata all’ipotesi di concorso formale, sia avvenuta grazie
all’intervento della Commissione Giustizia del Senato; nella prima stesura
del d. lgs. essa non era prevista perché veniva ritenuta prevalente la necessità
di “tracciare un orto chiuso per il giudice di pace”. Secondo il Parere
della Commissione di Palazzo Madama invece, la mancata previsione della connessione
eterogenea, avrebbe causato un danno all’imputato, il quale, in questo modo,
non avrebbe potuto usufruire del simultaneus processus. Si è pervenuti
quindi alla formulazione dell’art. 6 del decreto legislativo, sulla base della
seguente considerazione.
Sicuramente, la riunione dei processi dinanzi al giudice ordinario (tribunale o corte d’assise), produce l’inapplicabilità della disciplina processuale ad hoc dettata per il giudice di pace, in primis la funzione riparatoria e le sanzioni irrogabili da questo giudice. Tuttavia, dando all’imputato la possibilità di scegliere tra, da un lato, il poter riparare alle conseguenze dannose del fatto commesso e, dall’altro lato, di avere un unico processo, sicuramente la scelta cadrebbe su quest’ultimo, anche perché non è detto che all’imputato interessi sempre la possibilità che gli viene offerta di riparare il danno in funzione di una sanzione più mite, può anche contestare di aver alcuna responsabilità e quindi avere interesse a dimostrare la sua completa estraneità ai fatti.
Art. 7. 1. Davanti al giudice di pace si ha connessione di
procedimenti: **Nell’ipotesi
quindi di concorso o cooperazione di
più persone in uno stesso reato (natura
soggettiva). b) se una persona è imputata di più reati commessi con una
sola azione od omissione. |
** Nell’ipotesi di concorso formale di reati. (natura
oggettiva).
Rimane
quindi esclusa l’ipotesi della connessione per continuazione e della
connessione teleologica. Di quest’ultima la Commissione Giustizia del Senato ne
aveva auspicato l’inserimento, ma la Relazione al decreto legislativo ha
precisato che, pur non essendo espressamente prevista nell’art. 7 lett. b),
tuttavia risulta comunque possibile la riunione dei processi per connessione
teleologica in forza dell’ultima parte dell’art. 9 comma 2° d. lgs., laddove si
stabilisce che “Anche fuori dei casi previsti dall’art. 7 il giudice di pace
può ordinare la riunione dei processi…ogni volta in cui ciò giovi alla celerità
e alla completezza dell’accertamento”.
Art. 8. 1. Nei casi previsti dall'articolo 7, se i reati sono stati
commessi in luoghi diversi, la competenza per territorio appartiene per tutti
al giudice di pace del luogo in cui è stato commesso il primo reato. Se non è
possibile determinare in tal modo la competenza, questa appartiene al giudice
di pace del luogo in cui è iniziato il primo dei procedimenti connessi. |
La
Relazione al decreto legislativo, motiva la scelta del criterio del primo
reato consumato, sulla base del fatto che il criterio della gravità del
reato ai fini della determinazione della competenza per territorio determinata
dalla connessione non è utilizzabile, dato che i reati qui sono puniti quasi
tutti con le stesse pene.
Per
ciò che riguarda il criterio subordinato del primo procedimento, è
opportuno precisare che nella pratica sarà di rara applicazione, stante le
ipotesi di connessione omogenea dell’art. 7. Infatti, poiché questa si ha solo
quando il reato è stato commesso da più persone in concorso o in cooperazione
tra di loro e quando si ha concorso formale di reati, difficilmente si avranno
più procedimenti.
Art. 9. 1. Nei casi previsti dall'articolo 7, prima di procedere all'udienza di comparizione, il giudice di pace può ordinare la riunione dei processi, quando questa non pregiudica la rapida definizione degli stessi. |
**
Si tratta della riunione disposta come effetto delle ipotesi di connessione
sopra viste all’art. 7, che ricalca la norma generale di cui all’art. 17 c.p.p.
2. Anche fuori dei casi previsti dall'articolo 7, il
giudice di pace può ordinare la riunione dei processi quando i reati sono
commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre o quando più
persone con condotte indipendenti hanno determinato l'evento o quando una
persona è imputata di più reati commessi con più azioni od omissioni esecutive
di un medesimo disegno criminoso, ovvero ogni volta in cui ciò giovi alla
celerità e alla completezza dell'accertamento. |
** Si è affermato[2],
che mentre nell’ipotesi di cui al primo comma dell’art. 9 si ha una sorta di
presunzione di utilità alla riunione dei procedimenti, salvo che il giudice
ritenga che la riunione stessa pregiudichi la loro rapida definizione, nei casi
previsti al secondo comma il giudice di pace dovrà giustificare in positivo la
sua scelta con adeguata motivazione.
Il
comma 2° dell’art. 9 viene a disciplinare le ipotesi di riunione per motivi
diversi dalla connessione, ipotesi che in teoria consentono una estensione
notevole del potere di riunione in capo al giudice di pace. Tuttavia,
nonostante tale secondo comma non lo riporti, è opportuno precisare che la
riunione, così come dispone il primo comma dell’art. 9, laddove il giudice
intenda ordinarla, è soggetta ad un limite temporale ben preciso: prima di
procedere all’udienza di comparizione.
E’
prevedibile che la prima ipotesi di riunione di cui al comma 2°, ossia quando i
reati sono commessi da più persone in danno reciproco le une alle altre, o
quando più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento, sia la
più frequente, data la competenza del giudice di pace in tema di lesioni.
La
seconda riguarda la riunione in ipotesi di continuazione, disposta per rendere
più agevole la disciplina del reato continuato ex art. 81 c.p.
Infine,
la terza ipotesi, è quella che consente al giudice il massimo della
discrezionalità. Tuttavia, secondo la Relazione governativa, il criterio
elastico della celerità e della completezza dell’accertamento “non deve
destare eccessive preoccupazioni, poiché il giudice di pace, dato il tipo di
reati per i quali è competente, non sarà prevedibilmente propenso ad abusare
dei poteri in tal senso attribuitigli dalla legge”.
3. Prima di procedere all'udienza di comparizione e,
comunque, non oltre la dichiarazione di apertura del dibattimento, il giudice
di pace ordina la separazione dei processi, qualora ritenga che la riunione
possa pregiudicare il tentativo di conciliazione, ovvero la rapida definizione
di alcuni fra i processi riuniti. |
**
In concreto, il potere di separazione è sicuramente più elastico di quello
generale previsto all’art. 18 c.p.p., elasticità giustificata dal fatto che la
separazione dei processi può risultare essenziale per lo scopo conciliativo o
per la celerità del giudizio stesso.
Ritornando al problema indicato in commento
all’art. 6, ossia alla direttiva di cui all’art. 17 lett. i) della legge delega
che sanciva l’introduzione di poteri discrezionali in capo al giudice quanto
all’obbligo di rilevare l’operatività della connessione, si è detto che in
realtà essa non si riferisce propriamente alla discrezionalità in relazione
agli effetti della connessione sulla competenza, bensì al potere discrezionale
in tema di riunione e separazione dei giudizi in capo al giudice di pace, un
potere discrezionale sicuramente maggiore rispetto a quello sancito per il
giudice ordinario dalla normativa codicistica.
Art. 10. 1. Sulla dichiarazione di astensione del giudice di
pace decide il presidente del tribunale. 2. Sulla ricusazione del giudice di pace decide la
Corte di appello. |
** Rispetto
alla disciplina generale, la normativa sull’astensione e sulla ricusazione del
giudice di pace, si discosta solo per ciò che riguarda l’organo deputato a
decidere (presidente del tribunale in caso di astensione e corte d’appello in
caso di ricusazione), non per ciò che concerne i motivi di astensione e le
cause di ricusazione, che sono gli stessi
3. Il giudice di pace astenuto o ricusato è sostituito con
altro giudice dello stesso ufficio designato secondo le leggi di ordinamento
giudiziario. 4. Qualora non sia possibile la sostituzione prevista dal
comma 3, la corte o il tribunale rimette il procedimento al giudice di pace
dell'ufficio più vicino. |
** Si prevedono qui i criteri di
sostituzione: in primis la sostituzione con altro giudice dello stesso
ufficio. Tuttavia, potendo ciò risultare impossibile in caso di ufficio
monopersonale, si prevede che in tal caso il tribunale o la corte d’appello
rimettano il procedimento al giudice di pace dell’ufficio più vicino.
Capo II Indagini preliminari |
** Si tratta di una fase “eventuale”:
l’espletamento delle indagini preliminari si avrà solo per i reati perseguibili
d’ufficio, soprattutto quindi per le contravvenzioni, dato che per i reati
perseguibili a querela è prevista la citazione a giudizio su ricorso immediato
della persona offesa.
Art. 11. 1. Acquisita la notizia di reato, la polizia giudiziaria compie
di propria iniziativa tutti gli atti di indagine necessari
per la ricostruzione del fatto e per l'individuazione del colpevole e ne
riferisce al pubblico ministero, con relazione scritta, entro il termine di
quattro mesi. 2. Se la notizia di reato risulta fondata, la polizia
giudiziaria enuncia nella relazione il fatto in forma chiara e precisa, con
l'indicazione degli articoli di legge che si assumono violati, e richiede
l'autorizzazione a disporre la comparizione della persona sottoposta ad
indagini davanti al giudice di pace. 3. Con la relazione, la polizia giudiziaria indica il giorno
e l'ora in cui ha acquisito la notizia. |
**
Secondo l’art. 17 lettera b) della legge delega, “nel rispetto
dei principi sanciti negli artt. 109 e 112 della Cost., l’attività di indagine
deve essere di regola affidata esclusivamente alla P.G….”
Il
legislatore delegato ha recepito tale direttiva prevedendo all’art. 11 comma 1°
che la P.G., di propria iniziativa, compia tutti gli atti di indagine
(naturalmente nell’ipotesi in cui sia la P.G. ad acquisire la notizia di reato)
. E’ una novità di rilievo in quanto la P.G. diviene così il soggetto
principale delle indagini preliminari, novità introdotta essenzialmente per
“alleggerire” il lavoro del P.M. Si
tratta di un alleggerimento e non certo di una sottrazione di poteri, del resto
non consentita dalla stessa direttiva della legge delega, laddove si premette
l’obbligo del rispetto dei principi di cui agli artt. 109 ( l’A.G. dispone
direttamente della P.G.) e 112 ( il P.M. ha l’obbligo di esercitare l’azione
penale) della Cost. In base poi ai successivi artt. 12, 13, 15 comma 2° e 16
del d. lgs, il P.M. mantiene il potere di direzione e di controllo, ed in base
all’art. 15 comma 1° dello stesso decreto, spetta al P.M. l’esercizio
dell’azione penale o la richiesta di archiviazione.
Di
sicuro l’articolo in esame nulla ha in comune con l’obbligo di informativa di
cui all’art. 347 c.p.p.: la relazione che la
P.G. deve presentare al P.M. entro 4 mesi infatti, oltre che indicare il
giorno e l’ora di acquisizione della notizia di reato, deve contenere
l’enunciazione del fatto in forma chiara e precisa, e l’indicazione degli
articoli di legge che si assumono violati, per cui si tratta di una sorta di
formulazione dell’imputazione in fieri da sottoporre al controllo del
P.M.
E’
opportuno inoltre precisare che la preminenza della P.G. in relazione al compimento
degli atti di indagine si ha solo se il P.M. non decide di svolgerli personalmente;
la stessa Relazione precisa come “ la limitazione resta affidata alle valutazioni
dello stesso P.M., nel senso che non opera come divieto per la parte pubblica
del processo di svolgere il ruolo specifico che le assegna l’ordinamento processuale…”
Art. 12. 1. Salvo che ritenga di richiedere l'archiviazione, il
pubblico ministero se prende direttamente notizia di un reato di competenza del
giudice di pace ovvero la riceve da privati o da pubblici ufficiali o
incaricati di un pubblico servizio, la trasmette alla polizia giudiziaria,
perché proceda ai sensi dell'articolo 11, impartendo, se necessario, le
direttive. Il pubblico ministero, se non ritiene necessari atti di indagine,
formula l'imputazione e autorizza la polizia giudiziaria alla citazione a
giudizio dell'imputato. |
** L’art.
12 disciplina l’ipotesi in cui sia lo stesso P.M. a ricevere la notizia di
reato. In sostanza quindi, gli artt. 11 e 12 del decreto legislativo, per ciò
che concerne l’acquisizione della notizia di reato, non si discostano dalla
norma generale di cui all’art. 330 c.p.p., in base alla quale “Il P.M. e la
P.G. prendono notizia dei reati di propria iniziativa e ricevono le notizie di
reato presentate o trasmesse a norma degli artt. seguenti”, come le
denunce, i referti, le querele.
Il
P.M. può quindi:
1. Richiedere
l’archiviazione. La richiesta di archiviazione riguarda tutte
le ipotesi previste dalla normativa codicistica, con l’aggiunta però, come
precisa la Relazione al decreto, del caso previsto dall’art. 34 del decreto,
ossia la particolare tenuità del fatto.
2. Ritenere
necessarie le i.p. In questo caso, egli trasmette la notizia
alla P.G. perché proceda a norma dell’art. 11. Si riconferma quindi la P.G.
quale soggetto principale delle indagini, anche se il P.M. può comunque
impartire direttive. “In questo modo, -secondo la Relazione- si evita
di coinvolgere il P.M. immediatamente nelle indagini, ma gli si assicura la
possibilità di una immediata direzione dell’attività della P.G.”
3. Ritenere
non necessarie le i.p. Il P.m. in questo caso formula l’imputazione
autorizzando la P.G. alla citazione a giudizio dell’imputato.
E’
probabile che ci si domandi ironicamente che senso abbia porsi il problema
dell’applicazione di una norma nell’ambito della disciplina speciale relativa
alla competenza penale del giudice di pace, quando già in sede di applicazione
pratica della disciplina generale essa risulta di scarsa importanza, data la
mancanza di sanzioni processuali in ipotesi di suo mancato rispetto. (Si noti
che l’obbligo a carico del P.M. sorge indipendentemente da eventuali istanze di
parte, si tratta cioè di un dovere che il P.M. ha, indipendentemente da un
eventuale impulso della parte interessata, ma come spesso nella pratica si
adempia ad esso solo a seguito di richieste specifiche).
Il
problema posto non è invece di poco conto; se l’art. 358 c.p.p. non fosse
applicabile in tema di indagini preliminari relative ai reati di competenza del
giudice di pace, questa potrebbe essere una conferma di ciò che si è sempre
temuto, ossia come il legislatore per primo, fin dal momento dell’entrata in vigore
dell’obbligo sancito dall’art. 358 c.p.p., cioè l’obbligo a carico del P.M. di
compiere accertamenti a favore della persona sottoposta alle indagini, abbia
così poco creduto nella sua concreta attuazione, da non aver ritenuto
necessaria la sua previsione o applicazione nel decreto legislativo in esame.
Di
sicuro, l’interpretazione dell’art. 358 c.p.p. è stata notevolmente
ridimensionata a seguito di alcune sentenze della Corte di Cassazione e ad
alcuni interventi della Corte Costituzionale, ridimensionamento notevole se si
pensa a quelle che erano state le iniziali aspettative della dottrina, la
maggioranza della quale, aveva inteso questa norma quale decisivo passo in
avanti per poter garantire una maggiore parità tra accusa e difesa e concreta
attuazione del diritto di difesa stesso.
L’ordinanza n. 96 del 1997 della Corte
Costituzionale (link a Consulta Online), nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di
legittimità costituzionale dell’art. 358 c.p.p., sollevata in riferimento agli
artt. 24 comma 2°, 27 comma 2° e 76 della Costituzione, ha affermato che “Nella
logica dell’attuale processo penale l’obbligo del pubblico ministero di
svolgere indagini non mira né a realizzare il principio di eguaglianza tra
accusa e difesa, né a dare attuazione al diritto della difesa, ma si innesta
sulla natura di parte pubblica dell’organo dell’accusa e sui compiti che il
pubblico ministero è chiamato ad assolvere nell’ambito delle determinazioni
che, a norma del combinato disposto degli art.. 358 e 326 c.p.p., deve assumere
in ordine all’esercizio dell’azione penale”.
In
sostanza, tale accertamento a favore della persona sottoposta alle indagini,
secondo la Corte Cost., è sì importante, ma solo perché, spettando al P.M.
l’esercizio dell’azione penale, è essenziale che questi possa evitare
l’instaurazione di un processo superfluo.
Premesso
questo doveroso cenno al modo in cui tale principio è stato interpretato,
fondamentale per capire perché la disposizione non si traduca in un obbligo
processualmente sanzionato e non tolga il carattere essenzialmente
discrezionale delle scelte investigative, e venendo alla questione prima
esposta, nessun obbligo di effettuare accertamenti a favore della persona
sottoposta alle indagini è previsto nel decreto legislativo, né a carico del
P.M. né a carico della P.G. Occorrerà quindi verificare se tale obbligo vi sia
comunque in forza dell’applicazione dell’art. 2 del decreto, di modo tale che
l’art. 358 c.p.p. possa dirsi applicabile in quanto compatibile.
Poiché
la fase delle indagini preliminari è funzionale alla determinazione dell’azione
penale (ex art. 326 c.p.p. Il P.M. e la P.G. svolgono, nell’ambito delle
rispettive attribuzioni, le indagini inerenti all’esercizio dell’azione
penale), la disciplina generale prevede appunto che sia il P.M., in quanto
unico titolare di tale azione, ad avere la gestione e la direzione delle
indagini (ex art. 327 c.p.p. Il P.M. dirige le indagini e dispone direttamente
della P.G.). Proprio perché dominus di questa fase, è il P.M. che deve
svolgere altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona
sottoposta alle indagini, ossia tale accertamento è strettamente collegato al
fatto che spetta al P.M. l’esercizio dell’azione penale (L’art. 358 infatti
nella sua prima parte premette che il P.M. compie ogni attività necessaria ai
fini indicati nell’art. 326 c.p.p.).
Nell’ambito
delle indagini preliminari su reati di competenza del giudice di pace, pur
essendo sempre il P.M. l’unico titolare dell’esercizio dell’azione penale,
questi tuttavia non è dominus delle indagini: si è visto come la regola
generale sia che soggetto principale di queste è la P.G., non solo nell’ipotesi
in cui sia la stessa P.G. ad acquisire la notizia di reato (Art. 11), ma anche
nell’ipotesi in cui ad acquisirla sia il P.M. (Art. 12).
Di conseguenza, pur non volendo arrivare ad
affermare l’incompatibilità dell’art. 358 c.p.p. con la disciplina del presente
decreto, esso in pratica non riceverà applicazione, in virtù del fatto che
quest’ultima è strettamente collegata in modo funzionale al soggetto principale
delle indagini.
- Per quello che riguarda il P.M., pur
potendo sostenere che comunque nei suoi confronti rimane sempre l’obbligo ex
art. 358 c.p.p., manca tuttavia il presupposto fondamentale perché tale obbligo
possa essere attuato nella pratica, ossia
la titolarità esclusiva delle indagini preliminari. La direzione delle
indagini è prevista solo come eventuale, così come eventuale è la decisione di
compiere personalmente singoli atti o di svolgere personalmente le indagini
stesse.
- Per quello che riguarda la P.G.,
l’obbligo degli accertamenti favorevoli non è ricompreso nei suoi fini
istituzionali (si veda l’art. 55 c.p.p.), per cui l’unico modo sarebbe quello
di affermare che, tra le direttive impartite dal P.M. alla P.G.,vi sia anche
quella di compiere accertamenti a favore della persona sottoposta alle
indagini. Tuttavia, anche questa soluzione non appare soddisfacente, in
primis perché se così fosse il legislatore delegato avrebbe dovuto comunque
prevederlo espressamente; in secondo luogo, perché è vero che il P.M. può, a
norma dell’art. 12 del decreto legislativo impartire direttive alla P.G., ma si
tratta appunto di una facoltà e non di un obbligo.
Una
ulteriore considerazione si rende inoltre necessaria alla luce dei recenti
progressi compiuti dal legislatore in tema di indagini difensive, al fine di
poter sostenere quanto l’obbligo di cui all’art. 358 c.p.p. sia importante e di
conseguenza come esso debba essere oggetto di una attenta rivalutazione.
La
legge del 7 dicembre
2000 n. 397, "Disposizioni in materia di indagini difensive", non è una
gentile concessione dell’attuale legislatore, si tratta di un atto dovuto
in forza sia dell’art. 24 comma 2° Cost. (La difesa è un diritto inviolabile
in ogni stato e grado del procedimento), sia dell’art. 190 c.p.p., che
ha codificato il diritto alla disponibilità della prova per le parti, di modo
tale che le parti devono essere messe in condizione di parità in ordine alla
ricerca, individuazione e presentazione delle prove al giudice.
Nonostante
l’art. 190 c.p.p., il legislatore del 1988 non aveva comunque previsto nel
codice di rito alcuna disposizione in tema di indagini difensive, disciplinate
solamente a partire dal 1989 agli artt. 38 e 222 delle disp. att. (d. lgs
del 28.07.1989 n. 271). Non si può semplificare affermando che sempre di legge
si tratta, perché la collocazione sistematica in primis e la disciplina
concreta poi, sempre che si potesse seriamente parlare di una effettiva disciplina,
hanno dimostrato come la previsione fosse e sia tuttora del tutto insoddisfacente.
Originariamente infatti, l’art. 38 era composto solo dal comma 1° e 2° e si
prevedeva solamente il diritto per il difensore di svolgere investigazioni
per ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito,
di conferire con le persone che potevano dare informazioni e la facoltà di
compiere tale attività tramite investigatori privati autorizzati.
La
giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva presto affievolito la portata,
già tenue, della normativa sulle indagini difensive affermando
[3]
che, pur essendo il diritto dei difensori a svolgere le indagini preordinato
al fine di esercitare il diritto alla prova ex art. 190 c.p.p., tuttavia tali
attività di indagine non potevano essere direttamente utilizzate come elementi
di prova neppure nella fase delle indagini preliminari. E, si noti bene, la
Cassazione era pervenuta a tale assunto affermando espressamente che ciò derivava
anche dal combinato disposto dell’art. 190 c.p.p. con l’art. 358 c.p.p. che,
prevedendo l’obbligo del P.M. di svolgere accertamenti a favore della persona
sottoposta alle indagini, comportava che gli elementi di prova acquisiti nella
fase delle indagini preliminari dovessero essere assunti dal P.M. stesso.
La
legge dell’8 agosto 1995 n. 332, aggiunse all’art. 38 disp. att. il comma
2° bis, che riconosceva al difensore della persona sottoposta alle
indagini e al difensore della persona offesa il diritto di presentare direttamente
al giudice elementi che reputava rilevanti ai fini della decisione da adottare,
nonché il comma 2° ter, il quale prevedeva l’obbligo di inserire
la documentazione prodotta nel fascicolo degli atti di indagine. Ad oggi quindi,
la disciplina delle indagini difensive è compresa nel solo art. 38 delle disposizioni
di attuazione.
Ritornando
al problema dell’applicazione dell’art. 358 c.p.p., l’accenno effettuato alle
indagini difensive è importante per poter affermare come sicuramente
comprensibile, laddove vi fosse, sarebbe l’atteggiamento di “resa” da parte
dell’operatore del diritto di fronte alla speranza di veder effettivamente
attuato nella pratica l’obbligo a carico del P.M. di effettuare “altresì”
accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle
indagini.
Comprensibile,
perché fin dall’origine in tale norma molte sono state le speranze riposte,
ma con la consapevolezza che essa fosse più una semplice affermazione di principio
che non una norma cogente dotata di una valenza concreta, stante la mancanza
di sanzioni processuali in caso di suo mancato rispetto. E se si pensa all’interpretazione
che di essa è stata data sia da parte della giurisprudenza della Cassazione
che dalla stessa Corte Costituzionale, ancora più comprensibile sarà l’atteggiamento
di coloro che, a seguito dell’emanazione ed entrata in vigore della normativa
in tema di indagini difensive, accantoneranno la speranza di veder applicato
l’art. 358 c.p.p.
Atteggiamento
comprensibile, quindi, ma criticabile. Nel momento in cui l’esigenza di riconoscere
finalmente al difensore il diritto di “difendere provando” verrà soddisfatta,
ciò non dovrà, per il ruolo di funzione pubblica che il P.M. assolve, portare
ad affermare che così come il difensore potrà e dovrà difendere provando,
il P.M. dovrà provare a tutti i costi solo l’accusa: nessun percorso può essere
intrapreso con un minimo di buon senso effettuando un passo avanti e alcuni
indietro. Il P.M., in quanto parte pubblica, ha un ruolo di lealtà che gli
impone necessariamente di svolgere altresì accertamenti a favore della persona
sottoposta ad indagine. Inoltre, l’effettiva applicazione pratica di tale
obbligo, ove vi fosse, potrà anche limitare una delle maggiori critiche alla
nuova normativa in tema di indagini difensive, ossia quella di creare una
disparità di trattamento tra coloro che possono permettersi una difesa completa
di indagini e coloro che non possono.
Art. 13. 1. La polizia giudiziaria può richiedere al pubblico ministero l'autorizzazione al compimento di accertamenti tecnici irripetibili ovvero di interrogatori o di confronti cui partecipi la persona sottoposta alle indagini. Il pubblico ministero, se non ritiene di svolgere personalmente le indagini o singoli atti, può autorizzare la polizia giudiziaria al compimento degli atti richiesti. Allo stesso modo provvede se viene richiesta l'autorizzazione al compimento di perquisizioni e sequestri nei casi in cui la polizia giudiziaria non può procedervi di propria iniziativa. |
** Di
fondamentale importanza la previsione di cui all’art. 13 del decreto: essa
rappresenta uno dei modi concreti per applicare nella pratica quanto detto
circa la P.G. quale soggetto principale delle indagini preliminari. Ci sono
determinati atti che la polizia giudiziaria non ha il potere di compiere in
quanto riservati esclusivamente al P.M., come gli accertamenti tecnici non
ripetibili di cui all’art. 360 c.p.p.; altri atti che invece appartengono alla
competenza del P.M. ma che possono essere delegati alla P.G., quali gli
interrogatori e i confronti ex art. 370 comma 1° c.p.p.; altri atti ancora,
come le perquisizioni ed i sequestri, che a volte non possono essere svolti ad
iniziativa della sola P.G.
Senza
la previsione di cui all’art. 13, che invece consente alla P.G., per gli atti
di cui sopra, il compimento autonomo su autorizzazione del P.M., la P.G. non
potrebbe in concreto, ex art. 11 “compie(re) di propria iniziativa
tutti gli atti di indagine necessari per la ricostruzione del fatto e per
l’individuazione del colpevole”.
Tecnicamente, a seguito della richiesta di
autorizzazione della P.G. al compimento di atti specifici, il P.M. può:
1.
Ritenere di svolgere personalmente le indagini. Tale ipotesi necessita
di un approfondimento. Come si è visto negli articoli precedenti, la notizia
di reato può essere acquisita direttamente dalla P.G. (Art. 11), oppure può
essere acquisita dal P.M. (Art. 12); in entrambi i casi, spetta sempre alla
P.G. il compimento delle indagini, dato che il P.M. può solo impartire direttive
o al massimo, come precisa la Relazione, compiere personalmente solo singoli
atti.
Quando
invece la P.G. richiede al P.M. l’autorizzazione al compimento di atti che,
secondo la normativa generale non potrebbe compiere, una delle soluzioni
stabilite dall’art. 13 è che il P.M. ritenga a questo punto di svolgere
personalmente le indagini. Si tratta dell’attuazione concreta del potere di
controllo che, si è detto, rimane comunque in capo al P.M. Infatti, nel momento
in cui la P.G. chiede al P.M. l’autorizzazione al compimento di determinati
atti, non siamo più nella fase di acquisizione della notizia di reato, ma
sicuramente in una fase più avanzata delle indagini; la P.G. dovrà motivare la
richiesta sulla base degli atti svolti fino ad allora, atti che il P.M.
prenderà in visione e sui quali quindi potrà esprimere un giudizio sul lavoro
fino ad allora effettuato dalla sola P.G. Quindi, se riterrà di svolgere
personalmente le indagini, ciò starà a significare che le indagini fino ad
allora svolte dalla P.G., pur provvisorie, non sono a suo giudizio
soddisfacenti.
La
Relazione cerca di ridurre la portata della norma, laddove si precisa che
nel caso in cui il P.M. decida di assumere personalmente la direzione delle
indagini, questo in sostanza si tradurrà nel delegare il compimento di atti
diversi da quelli richiesti, oppure, che il P.M. si limiterà ad impartire
direttive per l’ulteriore corso delle investigazioni. Tuttavia, l'art.13 è
chiaro: una delle possibilità per il P.M. in caso di richiesta di autorizzazione
al compimento di atti, è che questi possa decidere di svolgere personalmente
le indagini, con evidente limitazione della c.d. esclusività della P.G. nella
fase in oggetto.
2. Ritenere di svolgere personalmente i
singoli atti richiesti. In questo caso il P.M. si limita a compiere l’atto
richiesto; dopo il compimento dell’atto, restituirà gli atti alla P.G. affinché
sia questa a procedere ulteriormente nelle indagini.
3.
Autorizzare la P.G. al compimento degli atti richiesti. Il P.M. quindi
rilascia l’autorizzazione restituendo gli atti alla P.G. per il compimento
dell’atto autorizzato. Precisa la Relazione che in questa ipotesi, così come
nell’ipotesi di cui sopra, il P.M. non svolge alcun controllo né verifica
i risultati parziali delle indagini. Nel caso della semplice autorizzazione
poi, egli si limita a rimuovere un ostacolo giuridico per il proficuo svolgimento
delle indagini.
4.
Non autorizzare l’atto richiesto. Si tratta di un’ipotesi non espressamente
prevista, ma che si ricava dal fatto che l’art. 13, dopo aver previsto il
caso n. 1 e n. 2, afferma che il P.M. “può autorizzare la P.G. al compimento
degli atti richiesti”: trattandosi perciò di una facoltà e non di un obbligo,
può esserci anche diniego, giustificato da ragioni investigative o da mancanza
di presupposti per il compimento dell’atto richiesto.
Art. 14. 1. Il pubblico ministero provvede all'iscrizione della
notizia di reato a seguito della trasmissione della relazione di cui
all'articolo 11, ovvero anche prima di aver ricevuto la relazione fin dal primo
atto di indagine svolto personalmente. |
** Non ci sono modifiche relative alla
titolarità del soggetto che deve provvedere all’iscrizione della notizia di
reato, spettando questa sempre al P.M.; pur tuttavia, la previsione di cui
all’art. 14 del decreto si è resa necessaria per stabilire il momento temporale
dell’iscrizione. A norma dell’art. 335 c.p.p., il P.M. iscrive “immediatamente”
ogni notizia di reato che gli perviene o che ha acquisito di propria
iniziativa. In base all’art. 14 del decreto invece, occorre distinguere.
- Se ad acquisire la notizia è la P.G.,
come si è visto, non si applica la normativa generale di cui all’art. 347
c.p.p. che prevede come essa debba riferirla “senza ritardo” al P.M. ma, in
base all’art. 11, la P.G. svolge le indagini e riferisce al P.M. con relazione
scritta entro 4 mesi. In questo caso quindi, l’iscrizione della notizia avverrà
a seguito della trasmissione della relazione (con notevoli conseguenze in tema
di termine per la chiusura delle indagini preliminari, come vedremo all’art.
16).
-
Tuttavia, si può avere anche una iscrizione anticipata rispetto al momento
di presentazione della relazione: questo avviene quando il P.M. svolge atti
di indagine personalmente, per cui l’iscrizione dovrà avvenire fin dal primo
atto di indagine svolto. Dall’ultimo inciso dell’art. 14 si ricava quindi
che la differenza temporale dell’iscrizione della notizia di reato non dipende
da quale sia il soggetto che acquisisce la notizia, bensì da quale sia il
soggetto che svolge le indagini. Infatti, nell’ipotesi in cui la notizia venga
acquisita direttamente dal P.M., questi, a norma dell’art. 12, deve trasmettere
gli atti alla P.G. perché provveda a norma dell’art. 11; in questo caso il
P.M. non provvederà quindi alla iscrizione della notizia di reato, la quale
avverrà solo a seguito della presentazione della relazione; egli provvederà
all'iscrizione nel caso in cui ritenga di dover svolgere personalmente le
indagini e precisamente fin dal primo atto di indagine.
**
L’art. 14 riguarda solamente il procedimento che si conclude o che dovrebbe
concludersi, con la citazione a giudizio da parte della P.G., non certo quello
relativo al ricorso della persona offesa. Si è detto infatti che la fase delle
indagini preliminari sarà una fase destinata a svolgersi solo nell’ipotesi
di reati perseguibili d’ufficio; nel caso di ricorso della persona offesa
mancano le indagini preliminari e di conseguenza non c’è bisogno della iscrizione
della notizia di reato.
Art. 15. 1. Ricevuta la relazione di cui all'articolo 11, il pubblico
ministero, se non richiede l'archiviazione, esercita l'azione penale,
formulando l'imputazione e autorizzando la citazione dell'imputato. 2. Se ritiene necessarie ulteriori indagini, il pubblico
ministero vi provvede personalmente ovvero si avvale della polizia giudiziaria,
impartendo direttive o delegando il compimento di specifici atti. |
** Le indagini preliminari possono
concludersi nei seguenti modi.
1. Richiesta di archiviazione da parte
del P.M. In questo caso si applica l’art. 17 del decreto.
2. Esercizio da parte del P.M.
dell’azione penale. Il P.M. dovrà quindi formulare l’imputazione e
autorizzare la citazione dell’imputato davanti al giudice di pace da parte
della P.G.
3. Integrazione delle indagini. Quando
il P.M. ritiene che le indagini compiute dalla P.G. siano incomplete o comunque
sia necessario un loro approfondimento, ne dispone l’integrazione. In entrambi
i casi, il P.M. può decidere di provvedere personalmente oppure di avvalersi
della P.G. impartendo direttive o delegando specifici atti.
Non è stata riproposta una norma analoga
all’art. 415 bis c.p.p., per cui ci si domanda se tale norma sia applicabile al
procedimento davanti al giudice di pace in quanto compatibile. Pur non
essendoci una pratica incompatibilità, tuttavia non sembra possa applicarsi
l’obbligo per il P.M. di far notificare all’indagato e al suo difensore
l’avviso di conclusione delle indagini, sia perché l’art. 415 bis c.p.p.
contrasterebbe con l’esigenza di semplificazione ritenuta essenziale dal
legislatore delegante, sia perché ove si volesse ritenere applicabile tale
norma, essa non sarebbe sanzionata in caso di sua mancata applicazione.
Art. 16. 1. Il termine per la chiusura delle indagini preliminari è
di quattro mesi dall'iscrizione della notizia di reato. 2. Nei casi di particolare complessità, il pubblico
ministero dispone, con provvedimento motivato, la prosecuzione delle indagini
preliminari per un periodo di tempo non superiore a due mesi. Il provvedimento
è immediatamente comunicato al giudice di pace di cui all'articolo 5, comma 2,
che se non ritiene sussistenti, in tutto o in parte, le ragioni rappresentate
dal pubblico ministero, entro cinque giorni dalla comunicazione, dichiara la
chiusura delle indagini ovvero riduce il termine indicato. 3. Gli atti di indagine compiuti dopo la scadenza dei
termini indicati nei commi 1 e 2 non possono essere utilizzati. |
** In
relazione alla durata delle indagini preliminari, il termine per la loro
chiusura è di quattro mesi dall’iscrizione della notizia di reato. Questo sta a
significare però, che la durata delle indagini si differenzia: quattro mesi dal
compimento del primo atto di indagine da parte del P.M., ex art. 14 seconda
parte, oppure quattro mesi dalla ricezione della relazione ex art. 14 prima
parte. Ma, mentre nel primo caso si hanno effettivamente soli quattro mesi,
dato che il termine per le indagini decorre dalla data della stessa iscrizione,
nel secondo caso invece, pur decorrendo tale termine sempre dalla iscrizione
della notizia di reato, nella sostanza non si avranno quattro mesi di indagini
bensì otto, dato che i primi quattro sono previsti ex art. 11 per arrivare a
presentare la relazione e gli ulteriori quattro decorrono dal momento in cui
tale relazione è ricevuta dal P.M. il quale effettua l’iscrizione della notizia
di reato.
Il
comma 2° dell’art. 16 consente di disporre la prosecuzione delle indagini oltre
il termine di cui al comma 1°, quando vi sono delle indagini particolarmente
complesse. Inizialmente tale proroga non era prevista dallo schema di decreto
trasmesso al Senato; essa è stata introdotta su sollecitazione della
Commissione Giustizia di Palazzo Madama. Tale prosecuzione è disposta de
plano dal P.M. con provvedimento motivato e per un periodo di tempo non
superiore ai due mesi.
Possiamo
osservare come la proroga del termine delle indagini preliminari sia prevista
anche dalla normativa generale all’art. 406 c.p.p., ma con sostanziali
differenze rispetto a quanto prevede l’art. 16 del decreto. Infatti, l’art. 406
comma 1° c.p.p. prevede come presupposti per la proroga: l’esistenza di una
giusta causa e la richiesta al giudice da parte del P.M. L’ipotesi della
particolare complessità è poi prevista al comma 2° dell’art. 406 c.p.p. come
motivo di ulteriore proroga, e anche in questo caso il provvedimento viene
richiesto dal P.M. al giudice. In base all’art. 16 del decreto invece, il provvedimento
di proroga viene disposto de plano dal P.M. senza la necessità di
richiedere l’autorizzazione al giudice.
E’
previsto comunque il controllo giurisdizionale in ordine alla legittimità di
tale dilazione dei termini: il provvedimento del P.M. è immediatamente
comunicato al giudice di pace circondariale (competente per le indagini
preliminari ex art. 5 comma 2° del decreto) che, ove non ritenga sussistenti le
ragioni poste dal P.M. a fondamento della prosecuzione, dichiara entro cinque
giorni la chiusura delle indagini o riduce il termine fissato dal P.M.
La
Relazione al decreto, con riferimento al termine di durata, afferma che “In
tale modo, la durata massima delle indagini risulta determinata in sei mesi,
termine come è noto che il codice di rito individua come quello
ordinario delle indagini preliminari”. Si tratta tuttavia di una
affermazione inesatta. Tecnicamente, è vero, il termine di decorrenza per
l’espletamento delle indagini è ancorato all’iscrizione della notizia di reato,
per cui si dovrebbe avere un periodo complessivo di sei mesi nel caso in cui vi
sia anche la proroga. Il termine di sei mesi risulta quindi comune sia alla
normativa del codice di rito, sia a quella del decreto. In base alla normativa
codicistica, l’art. 405 c.p.p. prevede
il termine di sei mesi dalla data in cui il nome della persona alla
quale è attribuito il reato è iscritta nel registro delle notizia di reato. Il
decreto in oggetto, prevede all’art. 16 comma 1° il termine di quattro mesi
dall’iscrizione della notizia di reato, più al comma 2°, due mesi in caso di
proroga per particolare complessità delle indagini. Tuttavia, mentre in base
all’art. 335 c.p.p., il P.M. iscrive immediatamente ogni notizia di reato che
gli perviene o che ha acquisito di propria iniziativa, non così avviene per il
procedimento in oggetto.
La
regola è che le i.p. siano svolte ad iniziativa della sola P.G., sia che sia la
stessa P.G. ad acquisire la notizia di reato (Art. 11), sia che ad acquisirla
sia il P.M. (Art.12); la P.G. ha tempo quattro mesi per poter presentare la
relazione scritta al P.M. Solo a seguito della presentazione di tale relazione
avviene l’iscrizione della notizia di reato, dalla quale decorrono i quattro
mesi per la chiusura delle indagini preliminari, con eventuale proroga di due mesi per indagini particolarmente
complesse.
L’ipotesi
di immediata iscrizione della notizia di reato si ha solo se il P.M. compie
personalmente atti di indagine, di modo che l’iscrizione deve avvenire fin dal
primo atto di indagine svolto dal P.M., ipotesi che nella struttura del decreto
è considerata come marginale, stante la previsione della P.G. quale soggetto
esclusivo delle indagini.
Pertanto,
nella pratica, l’effettivo termine per la chiusura delle indagini preliminari
sarà di otto mesi, con la possibilità in caso di proroga di arrivare fino a
dieci:
-
Tempo massimo di quattro mesi di indagini della
P.G. che sfociano nella relazione al P.M (Art. 11 e 12);
-
al P.M. perviene la relazione, per cui provvede
alla iscrizione della notizia di reato (Art. 14);
-
ulteriori quattro mesi di indagini dalla
iscrizione della notizia di reato (Art. 16 comma 1°);
-
altri due mesi in caso di proroga in ipotesi di
indagini particolarmente complesse (art. 16 comma 2°).
Infine,
il comma terzo dell’art. 16 precisa, con disposizione analoga a quella
dell’art. 407 comma 3° c.p.p., che gli atti di indagine compiuti dopo la
scadenza dei termini non possono essere utilizzati.
Art. 17. 1. Il pubblico ministero presenta al giudice di pace
richiesta di archiviazione quando la notizia di reato è infondata, nonché nei
casi previsti dagli articoli 411 del codice di procedura penale e 125 del
decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271, nonché dall'articolo 34, commi 1 e
2 del presente decreto. Con la richiesta è trasmesso il fascicolo contenente
la notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i
verbali compiuti davanti al giudice. 2. Copia della richiesta è notificata alla persona offesa
che nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione abbia
dichiarato di volere essere informata circa l'eventuale archiviazione. Nella
richiesta è altresì precisato che nel termine di dieci giorni la persona
offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata di prosecuzione
delle indagini preliminari. Con l'opposizione alla richiesta di archiviazione
la persona offesa indica, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova che
giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie. 3. Il pubblico ministero provvede sempre a norma del comma
2, nei casi in cui la richiesta di archiviazione è successiva alla
trasmissione del ricorso ai sensi dell'articolo 26, comma 2. 4. Il giudice, se accoglie la richiesta, dispone con decreto
l'archiviazione, altrimenti restituisce, con ordinanza, gli atti al pubblico
ministero indicando le ulteriori indagini necessarie e fissando il termine
indispensabile per il loro compimento ovvero disponendo che entro dieci giorni
il pubblico ministero formuli l'imputazione. 5. Quando è ignoto l'autore del reato si osservano le disposizioni di cui all'articolo 415 del codice di procedura penale. |
** Come
già precisato in commento all’art. 5 comma 2° del presente decreto, il giudice
di pace competente per gli atti da compiere nella fase delle indagini
preliminari è quello circondariale, ossia il giudice di pace del luogo ove ha
sede il tribunale del circondario in cui è compreso il giudice territorialmente
competente. La scelta è dovuta alla necessità di evitare situazioni di incompatibilità,
per cui si è voluto distinguere tra giudice con funzione di controllo
sull’esercizio dell’azione penale (giudice di pace-giudice per le indagini
preliminari) e giudice che deve pronunciarsi sulla responsabilità dell’imputato
(giudice di pace-giudice del giudizio).
Cause di
archiviazione
1. Quando
la notizia di reato è infondata.
2.
Quando manca una condizione di procedibilità. (Art. 411 c.p.p.)
3.
Quando il fatto non è previsto dalla legge come
reato. (Art. 411 c.p.p.)
4.
Quando il reato è estinto. (Art. 411 c.p.p.)
5.
Quando è ignoto l’autore o gli autori del reato. (Art. 415 c.p.p. in base all’art. 17 comma 5°)
6.
Quando gli elementi acquisiti nelle indagini
preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio. (Art.125 disp. att. )
7. Quando
si ha particolare tenuità del fatto. (Art. 34 decreto)
Procedimento
Con la
richiesta di archiviazione, il P.M. trasmette il fascicolo contenente la
notizia di reato, la documentazione relativa alle indagini espletate e i
verbali compiuti davanti al giudice ( si vedano a questo proposito i successivi
articoli 18 e 19).
Copia
della richiesta di archiviazione deve essere notificata alla persona offesa
che, nella notizia di reato o successivamente alla sua presentazione, abbia
dichiarato di voler essere informata circa l’eventuale archiviazione. Nella
stessa richiesta deve essere precisato che nel termine di dieci giorni, la
persona offesa può prendere visione degli atti e presentare richiesta motivata
di prosecuzione delle indagini preliminari. Con tale atto di opposizione, la
persona offesa deve indicare, a pena di inammissibilità, gli elementi di prova
che giustificano il rigetto della richiesta o le ulteriori indagini necessarie.
Il
procedimento è quindi semplificato rispetto a quello ordinario, dato che non
viene riportata la previsione dell’udienza da tenere in caso di opposizione
all’archiviazione da parte della persona offesa: tutto si svolge attraverso un
“contraddittorio cartolare”, come precisa la stessa Relazione al
decreto.
Il terzo
comma dell’art. 17 stabilisce che il P.M. provvede alla notificazione della
richiesta di archiviazione anche nei casi in cui essa è successiva alla
trasmissione da parte del giudice di pace del ricorso immediato della persona
offesa dichiarato inammissibile o manifestamente infondato a norma dell’art. 26
comma 2°.
Se il
giudice accoglie la richiesta, dispone con decreto l’archiviazione.
Se
invece non accoglie la richiesta (sia stata fatta o meno l’opposizione), allora
si ha una duplice possibilità: con ordinanza può indicare al P.M. le ulteriori
indagini da compiere, fissando il termine indispensabile per il loro compimento
e restituendo gli atti al P.M., oppure, può disporre con ordinanza non
impugnabile, che il P.M. entro dieci giorni formuli l’imputazione, sempre
restituendo allo stesso gli atti.
Art. 18. 1. Fino all'udienza di comparizione, il giudice di pace dispone, a richiesta di parte, l'assunzione delle prove non rinviabili, osservando le forme previste per il dibattimento. Si applicano le disposizioni previste dall'articolo 467, commi 2 e 3, del codice di procedura penale. |
**
Nonostante sia richiamata l’applicazione dell’art. 467 comma 2° e 3° c.p.p.,
sicuramente la portata della disposizione di cui all’art. 18 del presente
decreto è più ampia degli “atti urgenti” del rito ordinario, dato che l’assunzione
di prove non rinviabili può essere compiuta durante l’intera fase delle indagini
preliminari, fino all’udienza di comparizione, mentre gli atti urgenti sono
temporalmente collocati nella fase degli atti preliminari al dibattimento.
Si tratta in sostanza di un istituto che sostituisce l’incidente probatorio,
anche se la Relazione al decreto non parla precisamente di sostituzione bensì
di riduzione del ruolo dell’incidente probatorio. Tale riduzione si è resa
necessaria vista l’esigenza di massima semplificazione stabilita dalla legge
delega, ma anche perché, secondo la Relazione, “considerando la tipologia
dei reati attribuiti alla competenza della magistratura onoraria, deve riconoscersi
come il ricorso all’incidente probatorio sarebbe, in ogni caso, del tutto
residuale in questo processo. Da qui l’opzione di non riproporre l’istituto,
soprattutto con riferimento ai diversi casi previsti dall’art. 392 c.p.p.
Tuttavia, una radicale esclusione di meccanismi processuali diretti a consentire
l’immediata assunzione di prove non rinviabili al dibattimento, avrebbe avuto
l’effetto di compromettere i diritti delle parti nel processo, che non avrebbero
potuto azionare in maniera piena il proprio diritto alla prova”. Da qui
quindi, l’introduzione con opportuni adattamenti, dell’applicazione dell’art.
467 c.p.p.
L’assunzione
delle prove non rinviabili si ha a richiesta di parte, per cui possono richiederla
l’imputato, la persona offesa e il P.M. Poiché si applicano il secondo e terzo
comma dell’art. 467 c.p.p., deve essere dato avviso del compimento dell’atto
almeno ventiquattro ore prima al P.M., alla persona offesa, all’imputato ed
ai difensori, e l’assunzione delle prove avviene nel contraddittorio delle
parti secondo le forme previste per il dibattimento. I verbali degli atti
compiuti sono inseriti nel fascicolo per il dibattimento ex art. 431
lett. d) c.p.p..
Si
è detto come l’assunzione delle prove non rinviabili possa avvenire durante
l’intera fase delle indagini preliminari e
fino all’udienza di
comparizione, per cui, mentre nella fase delle indagini il giudice
competente per tale assunzione sarà il giudice di pace circondariale a norma
dell’art. 5 comma 2°, dopo la chiusura delle indagini preliminari, sarà
competente il giudice del dibattimento. Sarà invece sempre competente il
giudice del dibattimento, in ipotesi di procedimento su ricorso della persona
offesa, dato che in questo caso mancano le indagini preliminari.
Art. 19. 1. Nel corso delle indagini e fino al deposito dell'atto di
citazione a norma dell'articolo 29, comma 1, competente a disporre il sequestro
preventivo e conservativo è il giudice di pace indicato nell'articolo 5, comma
2. 2. Il giudice di cui al comma 1 decide anche sulla richiesta di archiviazione, sull'opposizione di cui all'articolo 263, comma 5, del codice di procedura penale, sulla richiesta di sequestro di cui all'articolo 368 del medesimo codice, nonché sulla richiesta di riapertura delle indagini. Lo stesso giudice è altresì competente a decidere sulla richiesta di autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni o comunicazioni telefoniche, di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero di altre forme di telecomunicazione, nonché per i successivi provvedimenti riguardanti l'esecuzione delle operazioni e la conservazione della documentazione. |
**
Il giudice di pace circondariale è inoltre competente per una serie di atti
espressamente stabiliti dall’art. 19.
-
E’ competente a disporre il sequestro preventivo
e conservativo.
-
E’ competente a decidere sull’opposizione degli
interessati contro il decreto del P.M. che dispone la restituzione o rigetta la
richiesta di restituzione delle cose sequestrate ex art. 263 comma 5° c.p.p.
-
E’ competente a decidere sulla richiesta di
sequestro ex art. 368 c.p.p.
-
E’ competente a decidere sulla richiesta di
riapertura delle indagini.
-
E’ competente a decidere sulla richiesta di
autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazione di conversazioni o
comunicazioni telefoniche, di comunicazioni informatiche o telematiche ovvero
di altre forme di telecomunicazione, nonché per i successivi provvedimenti
riguardanti l’esecuzione delle operazioni e la conservazione della
documentazione.
Applicabilità
delle altre disposizioni del c.p.p. in materia di indagini preliminari
Si è
detto come il presente decreto, pur prevedendo una disciplina in tema di
competenza penale del giudice di pace derogatoria della normativa generale del
codice di procedura penale, rimandi all’applicazione delle disposizioni
codicistiche in quanto applicabili (Art. 2 comma 1°). Anche in materia di
indagini preliminari quindi, laddove il decreto non dispone, si applicano le
norme del codice i rito, e a questo proposito la stessa Relazione governativa
precisa alcuni casi concreti che vale la pena di riportare.
Per
quanto riguarda la P.G., trovano applicazione tutte le ordinarie disposizioni
in materia di atti di investigazione, dall’identificazione della persona nei
cui confronti vengono svolte le indagini (Art. 349 c.p.p.), alle norme sulla
documentazione dell’attività di polizia giudiziaria (Art. 357 c.p.p.). Così,
ad esempio, nel caso in cui la P.G. proceda ad un sequestro, dovrà osservare
le disposizioni contenute nell’art. 355 c.p.p. in materia di convalida e,
quindi, trasmettere il relativo verbale al P.M. nei tempi e nei modi previsti
dalla norma; in tale ipotesi, ovviamente, non troverà applicazione il termine
per la presentazione della relazione al P.M. di cui all’art. 11 del decreto,
ma il diverso termine indicato dall’art. 355 comma 1° c.p.p. (senza ritardo
e comunque non oltre le quarantotto ore). Identica situazione si avrà nel
caso di perquisizione eseguita ad iniziativa della P.G. (Art. 352 comma 4°
c.p.p.) o di sequestro preventivo nei casi di urgenza (Art. 321 bis comma
3° c.p.p. ). In tutte queste ipotesi, la trasmissione del verbale al P.M.
secondo tempi diversi rispetto alla trasmissione della relazione finale, non
impedisce alla P.G. di continuare l’attività di indagine, ma consente alle
parti interessate (persona sottoposta alle indagini, persona alla quale le
cose sono state sequestrate e quella che avrebbe diritto alla loro restituzione)
di poter far valere tempestivamente le proprie ragioni, anche attraverso una
richiesta di riesame.
[1] V. Zagrebelsky, “Solo un piccolo catalogo
di reati supera la porta stretta della delega” in Diritto & Giustizia del
09.10.2000
[2] C.
Riviezzo “La persona offesa protagonista del processo davanti al giudice di
pace” in Diritto & Giustizi@ del 09.09.2000
[3] Cass. penale
sez. fer. del 18 agosto 1992 e Cass. penale sez. I del 16 marzo 1994
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