Antonio Genovese, L’art. 14 comma 5-ter Dlgs. 286/98 (inserito dalla  Legge Bossi - Fini): una norma proprio fuori dalla Costituzione

L'art. 14 comma 5-ter Dlg. 286/98 (introdotto dall'art. 13 L. 30 luglio 2002 n. 189) così stabilisce: "Lo straniero che senza giustifìcato motivo si trattiene nel territorio dello Stato in violazione dell'ordine impartito dal questore ai sensi del comma 5-bis è punito con l'arresto da sei mesi ad un anno. In tal caso si procede a nuova espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica".

A poco tempo dalla sua entrata in vigore, la norma solleva dubbi di legittimità costituzionale per violazione degli articoli 25 (principio di tassavità), 3 (principio di ragionevolezza), 27 (funzione rieducativa della pena), 13 (libertà personale) e 24 (diritto di difesa), Costituzione;

Il primo dei motivi di contrasto con la Carta Costituzionale sorge, a parere di chi scrive, per l'estrema indeterminatezza della fattispecie. Infatti, il legislatore non si limita a sanzionare la condotta dello straniero che non ottemperi tout court al provvedimento del Questore, ma la condotta di colui che ponga in essere tale comportamento “senza giustificato motivo”.

Invero, nessuna indicazione ermeneutica viene fornita sul significato da attribuire ai “giustificati motivi” che esonerano lo straniero rimasto sul territorio dalla sanzione penale. Nel vuoto legislativo appare quindi concreta la reviviscenza della fattispecie di cui all’art. 7 bis della legge Martelli (decreto legge 30/12/1989 n. 416, convertito, con modificazioni dalla L. 28/2/1990 n. 39) che puniva, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, lo straniero destinatario di un provvedimento di espulsione che non si "adoperava" per ottenere dalla competente autorità diplomatica o consolare il rilascio del documento di viaggio; disposizione che la Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima con sentenza n. 34 del 1995.

Invero, l’espressione impiegata dal legislatore nell’art. 14 co. 5-ter cit., in mancanza di parametri oggettivi di riferimento, impedisce di stabilire con precisione quando l’inerzia del soggetto che si sia intesa sanzionare raggiunga la soglia penalmente apprezzabile.

Tale indeterminatezza, da un lato pone il soggetto destinatario del precetto nell’impossibilità di rendersi conto del comportamento doveroso cui attenersi per evitare di soggiacere alla conseguenze della sua inosservanza, tanto più che il precetto è rivolto esclusivamente a stranieri, e, d’altro canto, non consente all’interprete di esprimere un giudizio di corrispondenza sorretto da un fondamento controllabile nella operazione ermeneutica di riconduzione della fattispecie concreta alla previsione normativa.

Per tali ragioni la norma impugnata non è rispettosa del “principio di tassatività della fattispecie contenuta nella riserva di legge in materia penale, consacrato nell’art. 25 della Costituzione" (sent. n. 86 del 1981), rimanendo la sua applicazione affidata all’arbitrio dell’interprete.

Il principio secondo cui appartiene alla discrezionalità del legislatore la determinazione della quantità e qualità della sanzione penale costituisce un dato costante della giurisprudenza costituzionale: non spetta infatti alla Corte rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, né stabilire quantificazioni sanzionatorie. Tuttavia, come è stato sottolineato soprattutto nella giurisprudenza più recente, alla Corte rimane il compito di verificare che l’uso della discrezionalità legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza.

 In particolare, con la sentenza n. 408/89 la Corte ha definitivamente chiarito che “il principio di uguaglianza, di cui all’art. 3, comma 1, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; … le valutazioni all’uopo necessarie rientrano nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato, sotto il profilo della legittimità costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza” (Cfr., nello stesso senso, sentenze Corte Costituzionale nn. 343 e 422 del 1993).

A parere di chi scrive la pena di cui all’art. 14 comma 5-ter cit. in relazione ai principi delineati dalla nostra Carta Costituzionale, è assolutamente sproporzionata in eccesso: di qui il sospetto di una violazione dell’art. 27, comma terzo Cost., poiché l’irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti, comprometterebbe la finalità rieducativa della pena.

Il principio di proporzione costituisce per la Corte Costituzionale uno dei criteri guida che presiedono allo stesso esercizio della potestà legislativa, vincolando il legislatore nell’attività di predeterminazione del tipo e della misura edittale della pena.

In tal senso si esprime anche quella parte della dottrina secondo cui la minaccia di una pena troppo severa corre il rischio di suscitare “sentimenti di insofferenza nel potenziale trasgressore e alterare nei consociati la percezione di quella corretta scala di valori che dovrebbe riflettersi nel rapporto tra i singoli reati e le sanzioni corrispondenti”.

Il giudizio di proporzione tra fatto tipico e sanzione penale viene quindi a costituire “una premessa ineliminabile dell’accettazione psicologica di un trattamento diretto a favorire nel condannato il recupero della capacità di apprezzare i valori tutelati nell’ordinamento” (tale principio di proporzionalità viene quindi a costituire il limite logico-giuridico del potere punitivo dello Stato) (Cfr. Padovani, L’utopia punitiva, 1991, pag. 262; Fiandaca, Commento all’art. 27 co. 3 Cost., in Commentario alla costituzione, a cura di Branca e Pizzorusso, 1989).

In applicazione di questi principi la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazione dell’art. 27, comma 3, Cost.. In particolare, la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che “la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale” provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell’illecito “produce … una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall’art. 27, comma 3, Cost., che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione”.

Relativamente alla violazione dell'art. 13 Cost., la Corte Costituzionale ha affermato in tema di diritti dello straniero sul territorio dello Stato alcuni principi di cui bisogna tener conto.

Al riguardo si fa distinzione tra il diritto dello straniero in ordine alla permanenza nello stato italiano ed il suo diritto alla libertà personale in senso stretto, quale diritto inviolabile dell'uomo. Quanto al primo profilo, la Corte Costituzionale con la sentenza n. 244 del 1974, ha affermato che "la mancanza nello straniero di un legame ontologico con la comunità nazionale e, quindi, di un nesso giuridico costitutivo con lo Stato italiano conduce a negare allo stesso una posizione di libertà in ordine…  alla permanenza nello stato italiano, dal momento che egli può soggiornarvi solo conseguendo determinate autorizzazioni ....". La ponderazione degli svariati interessi pubblici che presiedono a tali determinazioni "spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità alla Costituzione, soltanto dal vincolo che le scelte non risultino manifestamente irragionevoli".

Quanto al secondo profilo, la stessa Corte, con la sentenza n. 62 del 1994 (che si rifà a quella testé citata) ha peraltro precisato che "quando venga riferito al godimento dei diritti inviolabili dell'uomo, quale è nel caso la libertà personale, il principio costituzionale di uguaglianza in generale non tollera discriminazioni tra la posizione del cittadino e quello dello straniero".

Il legislatore, infine, con la fattispecie in esame sembra aver trascurato che il reato di cui all'art. 14 co. 5ter cit non consente, in virtù della pena edittale (da sei mesi ad un anno di arresto), l'applicazione di misure coercitive e che, pertanto, nell'impossibilità di presentare (da parte del Pubblico Ministero) richieste in tal senso, lo straniero arrestato deve immediatamente essere liberato ai sensi dell'art. 121 disp.att. c.p.p. (udienza di convalida, quindi, con indagato libero,  giudizio direttissimo) In questo caso, l'espulsione verrebbe quasi sicuramente a precludere al soggetto la possibilità di difendersi davanti al Giudice e di avanzare richiesta dei c.d. riti alternativi, così subordinando la garanzia di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione alle esigenze poste alla base del provvedimento di espulsione 

Ed infatti la possibilità per lo straniero espulso di rientrare in Italia per partecipare al processo, prevista dall'art. 17 Dlg. 286/98 diventa, nel caso che ci occupa, inevitabilmente e assolutamente impraticabile.

Per altro verso, questa possibilità si presenta, anche nella generalità dei casi, come del tutto fittizia e illusoria, assolutamente inadeguata a garantire l'esercizio effettivo del diritto di difesa, per di più limitata dall'art. 17 cit. "per il tempo strettamente necessario per l'esercizio del diritto di difesa, al solo fine di partecipare al giudizio o al compimento di atti per i quali è necessaria la sua presenza".

avv. Antonio Genovese - ottobre 2002

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