Paolo Ghiselli, Il decreto legislativo 8 giugno 2001 n. 231 e la responsabilità degli enti

L’introduzione nel nostro ordinamento della responsabilità amministrativa degli enti per i reati commessi da suoi organi o da suoi preposti, rappresenta non solo un accadimento di grande importanza, capace di incidere in misura rilevante sulla vita economica del nostro Paese, caratterizzata da realtà imprenditoriali assai diversificate, in cui convivono piccole e medie imprese accanto a grandi gruppi industriali e alle multinazionali, ma soprattutto, un evento normativo di notevole portata sotto il profilo sistematico, in termini di politica criminale e razionalizzazione del sistema.

Il governo appositamente delegato dalla legge n. 300/2000, di ratifica ed esecuzione di alcuni atti internazionali riguardanti la lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali, dei funzionari degli Stati membri dell’Unione europea e relative alla tutela delle finanze comunitarie, ha emanato il d.lgs. 8 giugno 2001 n. 231, recante la “disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”.

La riforma, che - come si afferma nella relazione ministeriale al decreto legislativo -  “appariva oramai improcrastinabile”, concede finalmente il diritto di cittadinanza al principio “societas delinquere potest” nel nostro ordinamento.  Da lungo tempo, infatti, esigenze di armonizzazione e coordinamento con gran parte dei sistemi europei (così con Francia, Regno Unito, Olanda, Danimarca, Portogallo, Irlanda, Svezia, Finlandia), obbligavano anche il legislatore italiano alla scelta di criminalizzare gli enti.

Va comunque osservato, che sotto il profilo politico criminale, le ragioni che motivano l’introduzione di forme di responsabilità degli enti collettivi appaiono ancor più pregnanti rispetto a quelle riguardanti una pur considerevole esigenza di omogeneità e razionalizzazione della risposta sanzionatoria tra i diversi Stati, posto che alcune tra le più gravi forme di criminalità economica sono chiare espressioni della criminalità di soggetti a struttura organizzata e complessa.

Al fine di contrastare il crescente fenomeno della criminalità economica, il legislatore si è prevalentemente ispirato ad una logica di prevenzione generale negativa (senza disdegnare mezzi di prevenzione speciale), con il chiaro intento di contrastare precise scelte di politica d’impresa, conseguenti alla cost-benefit analysis dei possibili rischi di eventuali condotte illecite.

Il decreto che disciplina in maniera assai scrupolosa i presupposti, le modalità e i limiti di applicabilità delle sanzioni all’ente, è tuttavia carente dei necessari supporti empirici e criminologici che dovrebbero sorreggere la valutazione sulla congruità di un istituto a perseguire i propri obbiettivi.

Questa mancanza rischia di vanificare la ratio polico-criminale dell’introduzione della responsabilità degli enti nel nostro sistema, considerato che non può ritenersi sufficiente a fondare siffatta sorta di responsabilità, il giudizio espresso già da tempo in dottrina, che riconosce alla persona giuridica la qualità di centro d’imputazione di interessi e rapporti giuridici, nonché luogo di decisione e di imputazione di rapporti patrimoniali.

Sarà, allora, l’interpretazione giurisprudenziale a decidere la reale efficacia e la razionalità della responsabilità sanzionatoria dell’impresa, che di amministrativo porta solo il nome, presentando invece, i caratteri propri di quella responsabilità penale, di cui si invoca da tempo la necessità di una introduzione nel sistema penale italiano.

Il sistema di responsabilità – definita “amministrativa”, ma in verità penale – introdotto dal citato decreto a carico delle persone giuridiche, prevede i presupposti oggettivi e soggettivi di applicazione delle sanzioni. In questa sede, ci si occuperà di quegli aspetti fondamentali e caratterizzanti, che contribuiscono a delineare il volto della normativa.

Se si legge il comma 1 dell’art. 1 del decreto legislativo, che disciplina la responsabilità degli enti per “gli illeciti amministrativi dipendenti da reati”, si sarebbe indotti a pensare che la responsabilità amministrativa dell’ente sia originata da un accadimento fattuale differente e conseguente dal fatto di reato. In realtà però il fatto storico è sempre lo stesso, mutano solo le qualificazioni giuridiche del medesimo evento, che è considerato fatto di reato per le persone fisiche ed illecito amministrativo per gli enti collettivi.

Questa rilevanza bivalente del medesimo fatto storico è connessa alla posizione funzionale rivestita dai soggetti che compiono il fatto di reato, e più precisamente: coloro che rivestono funzioni di rappresentanza, amministrazione, direzione, anche di una unità organizzativa dell’ente dotata di autonomia o coloro che esercitano, anche in via di fatto, la gestione o il controllo dello stesso o coloro che sono sottoposti alla direzione o vigilanza di chi gestisce o controlla l’ente, rendono l’ente medesimo, responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio (art. 5, c. 1). Tuttavia l’ente non risponde se tali persone “hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi” (art. 5, c. 2).

Il decreto, utilizzando il termine “reato”, non si riferisce ad un fatto tipico, antigiuridico e colpevole, secondo la stessa nozione in uso nel diritto penale. Esigenze generalpreventive hanno spinto il legislatore ad allotanarsi dal concetto di reato proprio del sistema penale, per avvicinarsi ad una nozione più ristretta, rinunciando però ad una piena applicazione del principio di colpevolezza.  Infatti, secondo l’art. 8 “la responsabilità sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile”. Queste situazioni che non permettono o che escludono la possibilità di formulare un pieno giudizio di colpevolezza, contraddicono in modo assai significativo, la relazione che accompagna il decreto nel pregevole proposito “di creare un sistema che, per la sua evidente affinità con il diritto penale, di cui condivide la stessa caratterizzazione afflittiva, si dimostri rispettoso dei principi che informano il secondo: primo tra tutti, appunto la colpevolezza”.  L’art. 8 inficia, soprattutto, la presa di posizione della Corte europea dei diritti dell’uomo e della migliore dottrina, che concordano nel ritenere applicabili le imprescindibili garanzie del diritto penale ad altre forme di diritto sanzionatorio a contenuto punitivo. 

Ci si chiede allora, quali manifestazioni dell’illegalità sia destinata a regolare questa poligenetica responsabilità delle persone giuridiche: il decreto indica espressamente le ipotesi di reato per le quali scatta la responsabilità penale per le persone fisiche ed amministrativa per l’ente.

Il legislatore delegato aveva inizialmente ritenuto di seguire una via restrittiva, prevedendo la responsabilità dell’ente, esclusivamente in ordine ai reati di concussione, corruzione e frode, riducendo così il catalogo dei reati per i quali la legge delega prescrive la responsabilità dell’ente: l’art. 11 l. n. 300/2000, oltre alle fattispecie indicate dalle Convenzioni internazionali sopracitate, prevede la responsabilità delle persone giuridiche anche per le fattispecie a tutela della sicurezza del lavoro, dell’ambiente e del territorio. Questa prudente soluzione, è dettata dalla necessità di procedere con cautela, limitando la tipologia di reati che costituiscono presupposto di responsabilità, posto che attualmente mancano conoscenze empiriche in grado di rivelare gli effetti, che il nuovo apparato sanzionatorio può provocare sulle imprese.

Ad estendere la responsabilità amministrativa della persona giuridica alla sfera dei reati societari, ha provveduto l’art. 3 del d.lgs. n. 61/2002 che introduce un nuovo art. 25 ter (dopo l’art. 25 bis in materia di falsificazioni nummarie connesse all’entrata in vigore dell’euro, inserito dalla legge n. 409/2001).

Il citato art. 3 sostituisce così la rubrica del Capo I, Sez. III del d.lgs. n. 231: non più “Responsabilità amministrativa per reati previsti dal codice penale”, bensì “Responsabilità amministrativa da reato”. Questa modifica è necessaria per comprendere ipotesi di responsabilità dell’ente relative a reati disciplinati da normative diverse dal codice penale, quali quelle previste nel codice civile.

Come appare di tutta evidenza il d.lgs. n. 231 prevede tutte le ipotesi esistenti di corporate liability, ed è in grado di contenere quelle che saranno introdotte in futuro, al fine di assecondare precisi obiettivi di politica criminale.

Il c. 1 dell’art. 9 stabilisce le sanzioni destinate a reprimere la commissione degli illeciti amministrativi.  Esse sono: sanzione pecuniaria, sanzioni interdittive, confisca, la pubblicazione della sentenza. Il c. 2 dello stesso articolo prevede le seguenti sanzioni interdittive: interdizione dall’esercizio di attività; la sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito; il divieto di contrattare con la pubblica amministrazione, salvo che per ottenere le prestazioni di un pubblico servizio; l’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi; il divieto di pubblicizzare beni o servizi.

Si tratta in gran parte di sanzioni mutuate dall’arsenale penalistico, il che fonda il ragionevole sospetto che si tratti di una frode delle etichette: la responsabilità amministrativa dissimula una responsabilità penale di natura reale.

Al di là di etichette di “facciata”, va comunque osservato che la sanzione pecuniaria (art. 10 s.) costituisce il vero perno del sistema sanzionatorio. Ma la vera novità, è costituita dal suo metodo di commisurazione per quote, secondo un modello bifasico, che impone al giudice di determinare autonomamente il numero complessivo delle quote, tenendo conto della gravità, oggettiva e soggettiva dell’illecito; e successivamente, di assegnare un valore economico ad ogni singola quota, valutando la capacità economica della persona giuridica. Questo sistema, da un lato, permette di adeguare la sanzione pecuniaria alle condizioni economiche del reo, dall’altro, offre la possibilità di leggere in trasparenza l’operazione commisurativa, separando, la riprovevolezza dell’ente per il fatto, dalla sensibilità alla pena di quest’ultimo. 

Le sanzioni interdittive, che mostrano una spiccata attitudine specialpreventiva, trovano applicazione solo nelle situazioni più gravi, rispetto alle quali si renda necessaria una progressiva risposta punitiva (art.13).

Il modello sanzionatorio - qui delineato nei suoi tratti principali - appare, nel suo complesso, idoneo a raggiungere gli obiettivi di prevenzione generale e speciale, posto che dimostra un sufficiente grado di flessibilità, consentendo di diminuire sensibilmente il quantum della sanzione pecuniaria (art. 12), ovvero di escludere le più gravose sanzioni interdittive (art.17), nel caso di attività riparatorie e di rientri post factum nella legalità.

E’ comunque da segnalare, la precisa scelta del legislatore di non applicare ai reati societari (art. 25 ter) le sanzioni interdittive, ma le sole sanzioni pecuniarie (oltre la confisca). Tale scelta, non è condivisibile sul piano politico-criminale: le sanzioni pecuniarie, infatti, vanno ad incidere sul patrimonio dell’ente e non sull’attività, che è il vero bene che occorre sanzionare perché essenziale alla vita della società e quindi in grado di svolgere una efficace funzione generalpreventiva.

Il cuore della nuova disciplina è costituito dall’adozione dei cd. “modelli di organizzazione” – i compliance programs sperimentati con successo negli U.S.A. – diretti a prevenire la commissione di reati. L’art. 6 del decreto, infatti prevede, l’esclusione della responsabilità dell’ente, per i reati commessi dai soggetti che ricoprono posizioni di vertice, se lo stesso prova, la predisposizione di modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi, affidati ad un autonomo organismo di controllo, sempre che tali persone abbiano commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli, e non vi sia stata insufficiente vigilanza dell’organismo di controllo.

Sul piano processuale questa disposizione è decisamente in contrasto con il principio in dubio pro reo, poiché pone in capo all’ente l’onere di provare l’osservanza del modello e l’adeguatezza dello stesso a prevenire il reato commesso.

Se il reato invece, è compiuto da una persona che si trovi con l’ente in rapporto di subordinazione, il principio in dubio pro reo, con il correlato gravare dell’onus probandi sulla pubblica accusa, riacquista piena valenza per l’impresa imputata (art.7).

Prima di concludere occorre procedere ad un osservazione sulla eccessiva genericità ed indeterminatezza di questa scelta normativa. Il decreto non indica gli elementi costitutivi del modello, né spiega in che cosa debba consistere. Se appare comprensibile la scelta di evitare uno schema rigido, non si giustifica la carenza di minime indicazioni. Decisivo, resterà sempre il libero apprezzamento del giudice circa l’idoneità e, soprattutto, l’effettiva applicazione di siffatti modelli di organizzazione e di gestione.

dott. Paolo Ghiselli - paolo.ghiselli@tin.it - luglio 2002

(riproduzione riservata)

[torna alla primapagina]