Stefano G. Guizzi, Il D.Lvo. 274/00 all'applicazione del giudice "togato"
Indice : 1. I tre diversi ambiti d’intervento riconosciuti al giudice togato. – 2. L’intervento nella “fase transitoria” – 3. (segue) La disciplina applicabile: le c.d. “norme sanzionatorie” (in particolare gli artt. 58, 60 e 62 del D.Lvo. 274/00). - 4. (segue) Le “definizioni alternative del procedimento”. - 5. La competenza per connessione. - 6. Le funzioni di giudice d’appello (cenni).
1. L’entrata in vigore del D.Lvo. 274/00 pone anche per il “giudice togato” - con tale espressione volendosi sinteticamente designare (da parte chi scrive) ogni giudice che, “diverso dal giudice di pace” (secondo la locuzione adoperata dall’art. 63 del summenzionato decreto legislativo), sia come questo tuttavia chiamato a dare applicazione a tale ius superveniens - alcuni problemi ermeneutici (ed operativi) sui quali si intende (senza peraltro alcuna pretesa di esaustività di analisi) richiamare brevemente l’attenzione.
Seguendo, pertanto, siffatta impostazione, appare assolutamente pregiudiziale identificare quale sia l’area d’intervento che la nuova normativa assegna al c.d. “giudice togato” (e segnatamente al Tribunale in composizione “monocratica”).
Sotto questo profilo deve, quindi, riconoscersi che il coinvolgimento di tale autorità giudiziaria nell’applicazione della nuova normativa, oltre a concernere quest’ultima esclusivamente in parte qua – riguardando esclusivamente (unitamente alle disposizioni del titolo secondo del summenzionato decreto legislativo) le sole (altre) norme espressamente richiamate dall’art. 63 co. 1 del decreto legislativo (ma, in tale caso, previa verifica di “compatibilità” delle stesse con il tradizionale impianto del sistema penale) – può essere ridotto a tre sole evenienze: per l’applicazione della disciplina transitoria (non essendo stato previsto, come si vedrà, alcun meccanismo di traslatio iudicii in favore del giudice di pace); nell’ipotesi di connessione tra reati (ma che sia esclusivamente determinata – ex art. 6 co. 2 – dall’ipotesi di concorso “formale” degli stessi); per lo svolgimento delle funzioni d’appello rispetto alle decisioni adottate dal giudice di pace.
Ponendo ciascuna di tali evenienze – se si eccettua quel profilo comune costituito (come premesso) dall’applicazione, in tutti e tre i casi sopra individuati, delle sole disposizioni del titolo secondo del D.Lvo 274/00 (e delle altre specificamente indicate dal già menzionato art. 63 co. 1) - problematiche affatto diverse (che interesseranno, oltretutto, il “giudice togato” secondo tempistiche del pari differenziate), appare opportuno procedere ad una analisi separata di ciascuna di esse.
2. L’attenzione di chi scrive si volgerà, pertanto, inizialmente alle questioni concernenti il c.d. “diritto transitorio”, atteso che le stesse appaiono destinate ad interessare, per così dire, “in prima battuta” il “giudice togato”.
Da questo punto di vista, quindi, la prima delle disposizioni normative che dovrà prendersi in rassegna è la penultima (art. 64) del decreto legislativo in esame, essa infatti contemplando la disciplina destinata a governare la fase del passaggio di competenze (relativamente ai reati previsti dall’art. 4 co. 1 e 2) dalle altre autorità giudiziarie investite di funzioni di giudici “di prime cure” e l’ufficio del Giudice di Pace.
Orbene la norma in esame prevede – come si anticipava – un regime che esclude la necessità del trasferimento al Giudice di Pace dei “procedimenti” (e quindi a fortiori anche dei giudizi) già pendenti alla data dell’entrata in vigore della nuova normativa, mantenendoli alla (perdurante) competenza del “giudice togato”, ma facendo carico allo stesso di applicare le “norme sanzionatorie” introdotte dal nuovo testo legislativo (e le altre richiamate, nominatim, dall’art. 63 co. 1).
L’articolo 64, infatti, stabilisce – dopo l’ovvia premessa (comma 1) che tale ius superveniens interesserà, nella sua integralità (e quindi con la piena competenza dell’ufficio del Giudice di Pace sia per la fase delle indagini preliminari che per quella del giudizio), i procedimenti relativi ai reati suddetti “commessi dopo la sua entrata in vigore” (e cioè dopo il 2/1/02) – che per i procedimenti relativi, invece, ai reati de quibus “commessi prima della data di entrata in vigore”, si osserveranno le “disposizioni dell’art. 63” (ferma però “l’applicabilità dell’art. 2 co. 3 c.p.”), purché alla condizione (che si evince dall’ultima proposizione enunciata dalla suddetta “norma transitoria”, e cioè quella contenuta nella seconda parte del comma 2 dell’art. 64) che alla data “di entrata in vigore non (sia) ancora avvenuta l’iscrizione della notizia di reato”.
Ponendo insieme tali dati si deduce, in sostanza, che per i procedimenti già pendenti (e cioè quelli per i quali sia già stato espletato l’incombente ex art. 335 c.p.p.) alla data di entrata in vigore del decreto legislativo in esame (e cioè il 2/1/02) – e relativi alle fattispecie devolute per il futuro (e per effetto della nuova normativa) alla competenza del giudice di pace - sarà configurabile una (perdurante) potestas decidendi dell’autorità giudiziaria precedentemente investita (e cioè il Tribunale).
Questo, tuttavia, sarà chiamato a definire i procedimenti ancora in itinere, ed i conseguenti giudizi, secondo le regole previste dal codice di procedura penale (l’art. 63 co. 2 - prima parte - non richiama, infatti, le norme “processuali” enunciate dal titolo primo del decreto legislativo in esame), ma facendo però applicazione, tanto delle norme “sanzionatorie” contemplate dal titolo secondo del D.Lvo 274/00 (ferma, però, l’operatività del principio della retroattività della “norma più favorevole” stabilito dal codice penale in relazione al fenomeno della successione di norme penali nel tempo), quanto delle altre disposizioni richiamate dall’art. 63 (ma in questo caso previa verifica di compatibilità con il sistema), spiccando tra queste ultime, in particolare, gli art. 34 e 35 relativi a quelle c.d. “definizioni alternative del procedimento” che (come si vedrà) costituiscono tra gli aspetti più innovativi della nuova disciplina.
È, quindi, la “pendenza” del procedimento già alla data del 2/1/02 che funge da criterio discretivo per individuare in quali casi perduri la competenza della autorità giudiziaria già in passato investita della cognizione dei reati di cui all’art. 4 co. 1 e 2.
Trattasi, infatti, di conclusione da ribadirsi (ulteriormente) alla luce della precisazione contenuta nell’ultima parte della “norma transitoria” in esame (e cioè la seconda parte del comma 2 dell’art. 64), atteso che tale “frammento” di disposizione normativa - chiudendo il cerchio (seppur con una disposizione scritta “in negativo”) - sancisce l’applicabilità (anche) del titolo primo del decreto legislativo de quo (e quindi proprio delle norme “processuali”) per quei procedimenti relativi a reati che, seppur commessi (anche) dopo la pubblicazione del presente decreto legislativo (6/10/00), siano stati iscritti nel registro ex art. 335 c.p.p. soltanto dopo la data della sua entrata in vigore (2/1/02)
3. Operata, dunque, questa actio finium regundorum, in relazione alla competenza a gestire la “fase transitoria” dell’avvento della nuova disciplina, appare ora necessario procedere ad una (seppur sommaria) analisi del contenuto del complesso normativo al quale sarà chiamato a dare applicazione il “giudice togato”, sempre limitatamente a tale periodo di tempo.
Come più volte già evidenziato il Tribunale – chiamato a definire i procedimenti già pendenti alla data del 2/1/02 (e cioè quelli relativi alle fattispecie criminose commesse, eventualmente anche dopo la pubblicazione del D.Lvo. 274/00, ma le cui notizie di reato risultino già iscritte, alla data di entrata in vigore dello stesso, nel registro ex art. 335 c.p.p.) – sarà chiamato ad applicare (art. 63 co. 1) “le disposizioni del titolo II del (…) decreto legislativo, nonché in quanto applicabili, le disposizioni di cui agli artt. 33, 34, 35, 43 e 44”.
Orbene, cominciando dalle prime norme menzionate (quelle c.d. “sanzionatorie” enunciate dal titolo secondo del decreto), occorre precisare che in questa sede si intende procedere alla disamina soltanto di alcune di esse, non potendosi in particolare illustrare tutte le questioni che attengono all’applicazione delle sanzioni “alternative” (“obbligo di permanenza domiciliare” e “lavoro di pubblica utilità”) previste dal suddetto “titolo II” del D.Lvo. 274/00.
Pur evidenziata, infatti, l’importanza dell’art. 52 (che fissa le sanzioni da irrogare per i reati de quibus, ancorando la natura – e l’entità – delle stesse ad un parametro costituito dal trattamento sanzionatorio in origine previsto per la repressione di tali fattispecie criminose), e richiamata, altresì, l’attenzione dei “giudici togati” sul contenuto dell’art. 54 (in special modo laddove esso, nel disciplinare le modalità di applicazione della sanzione del “lavoro di pubblica utilità”, subordina – comma 1 – l’irrogazione della stessa alla condizione necessaria costituita dalla “richiesta dell’imputato”), l’attenzione di chi scrive si volge soprattutto al disposto degli artt. 58, 60 e 62 del presente decreto.
Temporaneamente accantonato l’esame della prima delle tre disposizioni richiamate – destinata, ad avviso di chi scrive, a rivestire un notevole rilievo con riferimento all’ipotesi in cui il “giudice togato”, nel c.d. “periodo transitorio”, sia investito della cognizione di taluno dei reati in esame e (simultaneamente) di altre fattispecie non rientranti nell’elenco ex art. 4 co. 1 e 2 (sussistendo, però, la possibilità di riconoscere, tra gli uni e le altre, il “vincolo della continuazione”) – merita di essere immediatamente segnalata la previsione dell’art. 60.
Siffatta disposizione, invero, potrebbe ingenerare un equivoco (originato dal fatto che essa, facendo parte del titolo secondo del D.Lvo. 274/00, dovrebbe trovare – teoricamente - automatica applicazione anche nel regime transitorio, atteso che per tali disposizioni non è prevista la condizione della verifica della “compatibilità” con il sistema), suscettibile tuttavia di essere dissipato da un’attenta esegesi del suo testo.
La norma in esame, infatti, esclude la possibilità di riconoscere il beneficio della sospensione condizionale della pena, ma sancisce l’operatività di tale divieto con riferimento, non già alla pronuncia di sentenza di condanna intervenuta in relazione ai reati ex art. 4 co. 1 e 2 del decreto in esame (nel qual caso, a norma dell’art. 63 co. 1, il divieto avrebbe potuto interessare anche i casi di provvedimento adottato all’esito di giudizio celebrato dal “giudice togato”), ma piuttosto alle “pene irrogate dal giudice di pace”.
L’impossibilità di disporre la sospensione condizionale appare, dunque, limitata al solo caso di pronuncia resa dal giudice pace, e non dal “giudice diverso” (ex art. 63 co. 1) che sia (eccezionalmente) investito di potestas iudicandi in relazione ai reati di competenza del primo.
Opera, invece, con riferimento (proprio) “ai reati di competenza del giudice di pace” – e pertanto da chiunque essi siano giudicati, compreso lo stesso “giudice togato”, e ciò sia che esso si pronunci nel c.d. “regime transitorio”, sia che provveda a norma dell’art. 6 co. 2 (ricorrendo quella sola ipotesi di connessione tra reati, e cioè quella del “concorso formale”, suscettibile di determinare lo “spostamento di competenza” in suo favore) – quel divieto di applicare “le sanzioni sostitutive previste dagli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981 n. 689” contemplato dall’art. 62 del D.Lvo. 274/00.
Per quanto concerne, infine, il contenuto dell’art. 58 (la terza delle disposizioni sulle quali lo scrivente ha inteso, in particolare, soffermare la propria attenzione), tale norma - oltre a sancire (comma 1) il principio secondo cui “per ogni effetto giuridico la pena dell’obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria” - detta alcune regole per compiere tale operazione di “ragguaglio”.
L’art. 62, o meglio quella disposizione ricavabile dal suo primo comma, appare difatti di estrema utilità in relazione all’ipotesi – destinata a prospettarsi come altamente probabile durante il “regime transitorio” – che il medesimo imputato sia tratto a giudizio (innanzi, evidentemente, al “giudice togato”) per taluno dei reati ex art. 4 co. 1 e 2 D.Lvo 274/00, ma anche per altra fattispecie criminosa estranea a tale elenco, in una relazione tale con il primo da assumere rilevanza a norma dell’art. 81 cpv. c.p.
Ricorrendo, invero, tale evenienza – ed in considerazione del fatto che i c.d. “reati di competenza del giudice di pace” devono essere assoggettati esclusivamente alle sanzioni “alternative” ex art. 52 D.Lvo. 274/00 (essendo per gli stessi espressamente esclusa la pena detentiva) – potrebbe porsi il problema (ove l’altro reato risulti punito con la pena della reclusione o dell’arresto, e si ponenga come quello “principale” ai fini ed agli effetti dell’applicazione del regime della c.d. “continuazione”), dell’impossibilità di riconoscere, in casi siffatti, l’operatività dell’istituto previsto dal summenzionato art. 81 cpv. c.p., attesa (altrimenti) l’applicazione ai reati “satellite” di pena contra legem.
Orbene, proprio l’operatività dell’art. 58 co. 1 (che consente “per ogni effetto” l’equiparazione delle pene della “permanenza domiciliare” e del “lavoro di pubblica utilità”, a quelle ab origine previste per i reati “di competenza del giudice di pace”) potrebbe consentire di fugare ogni dubbio sulla (persistente) possibilità di ritenere operativo il regime della “continuazione”, permettendo di considerare le “nuove” pene alternative come “frazione” della pena (detentiva) irrogata per il “reato principale”.
Non si manchi tuttavia di rilevare – si insiste nella disamina di tale problematica perché la stessa non rientra tra quelle (almeno espressamente) affrontate dal legislatore – come il medesimo risultato (e cioè l’applicazione dell’art. 81 cpv. c.p. in casi come quello ipotizzato) potrebbe essere, comunque, altrimenti attinto.
Si potrebbe, infatti, invocare quell’inciso (“ferma l’applicabilità dell’art. 2 comma terzo del codice penale”) che è contenuta nella “norma transitoria” dell’art. 64 del D.Lvo 274/00, e dunque, individuate quali “norme più favorevoli” (ex art. 2 co. III c.p.) le disposizioni codicistiche che fissavano, ab origine, il trattamento sanzionatorio previsto per i “reati di competenza del giudice di pace” (nei termini di pene pecuniarie o detentive “tradizionali”), ritenere le stesse ancora applicabili al caso di specie, con possibilità di superare ogni dubbio sull’operatività del disposto dell’art. 81 cpv. c.p.
Siffatta soluzione presenterebbe, oltretutto, il pregio di permettere l’applicazione dell’istituto della c.d. “continuazione” finanche nell’ipotesi in cui la pena (detentiva) del reato “principale” (cioè a dire quella che condiziona il trattamento sanzionatorio anche dei c.d. “reati satellite”) venga “sostituita” a norma dell’art. 53 L. 689/81, consentendo così, seppur solo in questi casi, di derogare al disposto dell’art. 62 del decreto legislativo in esame.
4. Esaurito il discorso, relativamente all’operatività delle norme contenute nel titolo secondo del presente decreto, per quanto concerne invece l’applicazione delle altre disposizioni richiamate dall’art. 63 co. 1, l’attenzione di chi scrive si volgerà esclusivamente alla disamina degli art. 34 e 35 del medesimo testo di legge.
Siffatte disposizioni – come anticipato – prevedono le c.d. “definizioni alternative del procedimento”, istituti inediti (almeno nella loro possibilità di applicazione generalizzata) per il nostro ordinamento, la cui operatività solleva numerosi problemi, suscitando sin d’ora negli interpreti persino dubbi di legittimità costituzionale.
Procedendo, invero, ad una disamina solo “per punti”, ed iniziando dall’istituto (art. 34) della “particolare tenuità del fatto”, occorre sin d’ora evidenziare che merita condivisione quell’opzione ermeneutica che pone in luce le differenze che investono la valutazione relativa alla “necessaria offensività” del reato, rispetto a quella da compiersi a norma della disposizione testé richiamata.
Mentre, infatti, la “necessaria offensività” – comunque la si intenda, e cioè come “in sé” del reato (e quindi secondo un criterio di valutazione che esclude ogni sua contrapposizione con la tipicità della fattispecie, apprezzandone dunque la rilevanza sub specie di strumento cardine per l’interpretazione “teleologica” delle fattispecie criminose), ovvero come suo elemento ulteriore (che si affianca alla tipicità, all’antigiuridicità ed alla colpevolezza, ma il cui autonomo rilievo dovrebbe apprezzarsi in forza del disposto dell’art. 49 co. II c.p.) – costituisce un elemento la cui mancanza comporta la liceità penale del fatto posto all’esame del giudicante, l’apprezzamento della “particolare tenuità” si pone come operazione da compiersi all’esito di una valutazione che abbia già (positivamente) esaurito lo scrutinio relativo alla ricorrenza della fattispecie criminosa contestata all’imputato.
Ne consegue, pertanto, che la valutazione della ricorrenza di questa figura (non a caso definita come causa di “improcedibilità” dell’azione penale) comporterà l’adozione di una pronuncia di proscioglimento (da compiersi - ad avviso di chi scrive - a norma dell’art. 529 c.p.p.) che lascerà inalterata la possibilità di considerare contra ius – in altra sede, e quindi per ogni effetto diverso dall’irrogazione di sanzione penale –il comportamento (già) oggetto di contestazione penale a carico dell’imputato.
Fatta questa doverosa premessa – e ribadita l’impossibilità di una disamina più particolareggiata dell’istituto (per non tradire quelle esigenze di sintesi che ispirano il presente contributo all’esame del D.Lvo 274/00) – occorre evidenziare come il profilo cruciale che condizionerà la concreta applicazione dell’istituto in esame sia quello relativo al rapporto che dovrà investire i singoli parametri destinati – ex lege – ad orientare l’autorità giudiziaria (e dunque, nel periodo transitorio, lo stesso “giudice togato”) nella valutazione prevista da tale norma.
In virtù, infatti, dell’art. 34 co. 1 del presente decreto “il fatto è di particolare tenuità” alla stregua di un giudizio che includa l’apprezzamento della “esiguità del danno o del pericolo” (per l’interesse tutelato dalla norma), nonché la “occasionalità” dello stesso, ed il “grado della colpevolezza”, dovendosi inoltre tenere conto pure del “pregiudizio che l’ulteriore corso del procedimento può recare alle esigenze di lavoro, di studio, di famiglia o di salute (…) dell’imputato”.
Ma – è questo il punto cruciale – siffatti elementi debbono essere tenuti in conto congiuntamente (di talché sarà di “particolare tenuità” soltanto il fatto che cagioni un danno o un pericolo esiguo, che presenti carattere occasionale, e sia espressivo di una contenuta colpevolezza, e la cui punizione appaia, oltretutto, ingiustificata in relazione alle esigenze personali del reo), oppure la valutazione della loro ricorrenza potrà compiersi secondo criteri che valorizzino – secondo le evenienze del caso concreto – taluno di tali profili a (parziale) scapito degli altri ?
Trattasi, invero, di interrogativo non solo decisivo, ma anche di difficile risposta, atteso che, se la propensione a ritenere necessaria la simultanea ricorrenza di tutti questi elementi (oltre ad apparire più conforme alla lettera della legge) evita il rischio di un eccessivo margine di discrezionalità nella valutazione del giudice, espone però l’istituto in esame al pericolo di un’applicazione eccessivamente circoscritta (specie ove si consideri – dato fin qui sottaciuto – che l’operatività di siffatta causa di improcedibilità presuppone, ex art. 34 co. 3, anche che “l’imputato e la persona offesa non si oppongano” a tale definizione alternativa del giudizio penale).
Problemi parzialmente diversi pone, invece, l’“estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie” (art. 35 D.Lvo. 274/00), applicabile dal giudice allorché accerti che “prima dell’udienza di comparizione” (ovvero – commi 3, 4 e 5 – a conclusione di un periodo di tre mesi durante il quale il processo può, a tale scopo, essere sospeso) l’imputato dimostri “di aver proceduto (…) alla riparazione del danno cagionato dal reato, mediante le restituzioni o il risarcimento, e di aver eliminato le conseguenze dannose o pericolose del reato”.
Premesso che in questo caso - attesa l’avvenuta “neutralizzazione” delle conseguenze del reato - è sufficiente che l’imputato e la persona offesa siano semplicemente “sentiti”, non essendo quindi richiesto il loro consenso, a condizionare l’operatività dell’istituto de quo è l’integralità del risarcimento (ovvero della restituzione), conformemente alla sua natura di causa estintiva del reato.
Non del tutto comprensibile appare, invece, il riferimento alla “eliminazione delle conseguenze dannose o pericolose del reato” (il cui apprezzamento peraltro presuppone, verosimilmente, una valutazione affine a quella prevista dall’art. 162 bis co. 3 c.p. per l’oblazione c.d. “discrezionale”) se riferita ad alcune fattispecie criminose (si pensi, a titolo esemplificativo, a quelle previste dall’art. 186 co. 2 e 6 D.Lvo 286/92, ovvero a quella contemplata dall’art. 726 c.p.) che appaiono difficilmente suscettibili di provocare “conseguenze” (almeno in senso “naturalistico”).
Si consideri, infine, che l’adempimento dell’obbligo risarcitorio (ovvero restitutorio), e con esso l’avvenuta eliminazione delle conseguenze del reato, non implica l’automatica operatività della presente causa estintiva del reato, essendo necessario che le predette attività risarcitorie e riparatorie siano ritenute – secondo la valutazione della competente autorità giudiziaria - “idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione”.
Orbene, proprio in relazione a tale tematica si pone – ad avviso di chi scrive - una delle questioni ermeneutiche più delicate sollevate dalla nuova disciplina, atteso che, se il richiamo alle esigenze preventive appare conforme ad una delle (tradizionali) funzioni riconosciute alla sanzione penale, poco comprensibile si presenta (oltre che scarsamente in linea con quel “finalismo rieducativo” che costituisce l’obiettivo – ancorché “tendenziale” – al quale, addirittura per previsione costituzionale, è diretta l’irrogazione della pena, qualunque ne sia la natura) il riferimento alle esigenze di “riprovazione del reato”.
La sola interpretazione possibile è, pertanto, quella di iscrivere il rilievo attribuito a tali esigenze nella prospettiva di una (parziale) reviviscenza di quella funzione “satisfattoria”, ritenuta (si veda sul punto la relazione al codice “Rocco”) “anch’essa, in un certo senso, di prevenzione generale, perché la soddisfazione che il sentimento pubblico riceve dall’applicazione della pena evita le vendette e le rappresaglie”, ciò che tuttavia lascia apparire la prospettiva della “riprovazione” quale manifestazione di quella (rinnovata) inclinazione a valorizzare alcuni orientamenti “retribuzionistici” (o meglio “neoretribuzionistici”) manifestatisi nel dibattito penalistico degli ultimi anni.
5. Esaurita – nel rispetto dei limiti che chi scrive si era imposto – la disamina della sfera di operatività della nuova disciplina, in relazione a quel periodo transitorio la cui gestione risulta affidata al “giudice togato”, passando ad esaminare l’ipotesi della competenza “per connessione”, deve constatarsi come la stessa risulti essere stata circoscritta al solo caso – art. 6 co. 2 D.Lvo. 274/00 – di concorso formale di reati.
Il “giudice togato” procede (recte: procederà) solo nell’ipotesi in cui l’imputato sia tratto in giudizio per aver commesso – con una sola azione o omissione – taluno dei reati devoluti alla competenza del giudice di pace, ed altro (o altri) non rientranti nella previsione dell’art. 4 del medesimo decreto legislativo.
La scelta di contenere al minimo il c.d. “simultaneus processus” innanzi al “giudice togato”, rispetto alle possibilità offerte dall’art. 12 c.p.p. (soprattutto se si considera il suo testo vigente all’epoca della pubblicazione del presente decreto, trattandosi di quello anteriore alle modifiche apportate – in senso “riduttivo” alle possibilità della connessione - dalla L. 63/01), segue la chiara volontà di valorizzare la competenza del giudice di pace, e ciò – verosimilmente - anche in funzione di “deflazione” dei carichi di lavoro delle altre autorità giudiziarie con funzioni di giudice di primo grado (e segnatamente dell’ufficio del Tribunale).
È, del resto, espressione tangibile di tale volontà l’importante previsione contenuta nell’art. 48 del decreto in esame, la quale - derogando al disposto dell’art. 23 co. 2 c.p.p. (e cioè la norma che consente al c.d. “giudice superiore” di dichiarare la propria “incompetenza per eccesso” solo fino al momento in cui, in giudizio, non siano stati espletati gli adempimenti ex art. 491 c.p.p.) – prevede la possibilità, per ogni autorità giudiziaria, di dichiarare con sentenza, “in ogni stato e grado”, che il reato devoluto (erroneamente) al suo esame “appartiene alla competenza del giudice di pace”.
Siffatta previsione normativa, rigorosamente applicata, dovrebbe portare a ritenere che, finanche nell’ipotesi di modificazione dell’imputazione (ex art. 516 c.p.p.) o di diversa qualificazione del fatto ritenuta in sentenza (ai sensi dell’art. 521 c.p.p.), debba derogarsi al principio della perpetuatio iurisdictionis (cioè quello che consente la pronuncia nel merito al giudice privo, ma appunto “per eccesso”, di potestas decidendi rispetto ad una determinata fattispecie), imponendo anche in tali casi al giudice incompetente la pronuncia di sentenza “declinatoria” in favore del giudice di pace.
Resta infine inteso che – come, del resto, anche per le regiudicande penali devolute al “giudice togato” nella fase transitoria di applicazione di tale ius superveniens – lo svolgimento del giudizio continuerà a seguire (quanto alle sue regole processuali) le disposizioni previste dal codice di rito, non applicandosi – in virtù del più volte segnalato mancato richiamo (da parte dell’art. 63 co. 1) delle disposizioni del titolo primo del decreto in esame – le norme “processuali” del D.Lvo. 274/00 (ciò che comporta, tra l’atro, la perdurante possibilità di accesso per l’imputato ai “riti alternativi”).
6. Solo un accenno, infine, si dedica in questa sede – conformemente alla scelta di privilegiare l’analisi di quelle disposizione alle quali il “giudice togato” sarà chiamato a dare immediata applicazione - alle funzioni di giudice d’appello che il medesimo sarà chiamato a svolgere rispetto alle pronunce del giudice di pace.
In questa prospettiva lo scrivente si limita a sottolineare la (per certi versi singolare) previsione dell’art. 39 che, nel devolvere tale funzioni al Tribunale in composizione “monocratica”, detta una disciplina del giudizio d’appello che opera una sorta di “commistione” tra le regole previste dall’art. 604 (commi 1 e 2), e dall’art. 603 co. 4 c.p.p.
Quel che si vuole, in altri termini, evidenziare è che alle ipotesi di “rinvio al primo giudice” (già) tradizionalmente contemplate dal codice di rito penale (quelle, appunto, dei commi 1 e 2 dell’art. 604, e relative alle nullità del giudizio di primo grado), la normativa in esame ha inteso equiparare quell’evenienza (la verifica in ordine alla declaratoria di contumacia dell’imputato) costituente, fin qui, solo motivo per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale innanzi al giudice d’appello.
Tale scelta appare – ad avviso di scrive - un’eloquente manifestazione tanto della sfiducia che il legislatore pare nutrire in ordine all’effettiva capacità del giudice di pace di “governare” correttamente lo svolgimento degli incombenti ex art. 484 c.p.p., quanto, nel contempo, della sua (realistica) presa d’atto – che contrasta con una certa enfasi retorica presente in alcuni commenti dottrinari dedicati alla presente riforma (in special modo laddove si sottolinea la libertà di forme che dovrebbe contraddistinguere tale inedito modello processuale) - della necessità di non frustrare (attraverso la previsione della “rinnovazione” dell’istruzione dibattimentale innanzi al giudice d’appello) quelle esigenze di “deflazione” dei tribunali che paiono costituire – in ultima analisi - il leit motiv della nuova disciplina.
- dott. Stefano G. Guizzi - Giudice del Tribunale di Chiavari - gennaio 2002
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