Massimo Mannucci, Il nuovo regime sanzionatorio dei reati societari può determinare problemi di legittimità costituzionale delle pene previste dal codice penale per i reati di truffa?
La riforma della primavera di quest'anno che ha investito i reati societari - riscrivendone la natura giuridica ed il regime sanzionatorio, così da accorciare i tempi di prescrizione, mitigare le pene, depenalizzare alcune fattispecie e rendere procedibili a querela altre - ha prodotto l'effetto non trascurabile di far sembrare le pene previste per i reati di truffa spoporzionate rispetto ai beni interessi tutelati.
Pertanto, si delinea all'orizzonte una questione di legittimità costituzionale per lesione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione, stante un'apparente disparità di trattamento tra il più severo regime sanzionatorio previsto per i reati di truffa, rispetto a quello introdotto dal legislatore per i reati societari.
Invero, alla luce di tale innovazione normativa, la pena minima prevista per i reati di truffa semplice ed aggravata dal codice penale (artt. 640 e 640 bis) può apparire sperequata in eccesso, sottintendendo detta modifica un sensibile mutamento dei valori morali e giuridici, nonché della scala gerarchica in cui sono collocati.
La rilevante disomogeneità qualitativa e quantitativa del sistema sanzionatorio previsto per i reati di truffa rispetto a quello recentemente introdotto per i societari (artt. 2621, 2622, 2623 e 2624 cod. civ.) non sembra, infatti, trovare giustificazione nella maggiore sensibilità del bene giuridico tutelato.
Non v'è dubbio che i reati societari presentino una valenza plurioffensiva che difetta invece nella truffa, reato tradizionalmente concepito ad esclusiva tutela del patrimonio e, solo in via residuale, a tutela della libertà negoziale e della buona fede, come dimostra la sua procedibilità a querela per le fattispecie non aggravate.
Come si legge nella relazione al decreto legislativo del 2002, [1] la disposizione contravvenzionale del falso in bilancio (art. 2621 c.c.) è posta a salvaguardia di "quella fiducia che deve essere riposta da parte dei destinatari nella veridicità dei bilanci o delle comunicazioni della impresa organizzata in forma societaria" e quella di natura delittuosa (art. 2622 c.c.) "è posta a tutela esclusiva del patrimonio ed è costruita come reato di danno, riproponendo sotto forma di modalità comportamentali le condotte previste nell'ipotesi contravvenzionale e richiedendo, altresì, la causazione di un danno patrimoniale ai soci o ai creditori".
Per quanto riguarda, invece, la condotta punita da detta tipologia di reati, si può notare come il legislatore si sia preoccupato di descrivere in dettaglio comportamenti integranti artifizi e raggiri con connotazioni assai più marcate ed insidiose rispetto ai delitti di truffa previsti dal codice penale. [2]
Infine il legislatore, introducendo soglie di punibilità non previste per gli analoghi reati di truffa, ha ritenuto di riservare la sanzione penale solo a condotte particolarmente offensive dei beni interessi protetti.
Addirittura, come sottolineato da autorevoli commentatori, [3] dalla lettura delle norme "l'intervento penale risulta polarizzato sulla sola tutela del bene-finale patrimonio" rimanendo in secondo piano i beni strumentali individuabili nella corretta gestione sociale, nell'integrità del capitale sociale e soprattutto nella compiutezza e veridicità dell'informazione societaria.
Da tali considerazioni nasce l'impressione che il giudizio di fondatezza di un "vulnus" costituzionale in relazione al principio di uguaglianza sia pienamente ipotizzabile.
Inoltre sembrano addirittura configurabili altri profili di incostituzionalità, atteso che l'irrogazione di pene sproporzionate al grado di effettivo disvalore dei fatti in cui si concreta il reato di truffa, qualora siano di lieve entità e pertanto richiedano l'applicazione del minimo della pena, comprometterebbe la finalità rieducativa della sanzione penale prevista dalla Costituzione (art. 27).
In passato, la Corte Costituzionale ha invece avuto già occasione di esaminare problematiche analoghe a quelle sopra accennate.
Infatti, nel lungo percorso approdato alla dichiarazione di incostituzionalità (sentenza 25 luglio 1994 n. 341) della pena minima prevista per il reato di oltraggio a pubblico ufficiale (art. 341 c.p.), in quanto eccessiva rispetto a quella per l'ingiuria nei confronti del privato cittadino, la Corte ha di volta in volta chiarito che il principio di uguaglianza esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, così che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali, aggiungendo che l'esercizio del potere discrezionale del legislatore può essere censurato soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza.
Inoltre, sempre secondo la Consulta (sentenza n. 409 del 6 luglio 1989), il principio di proporzionalità nel diritto penale equivale a negare legittimità alle incriminazioni che, pur idonee al raggiungimento di finalità di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni ai diritti fondamentali dell'individuo ed alla società sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenibili da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi. La Corte ha infine maturato la convinzione che la finalità rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca una delle qualità essenziali e generali del suo contenuto ontologico, e l'accompagna da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue: tale finalità rieducativa implica pertanto un costante "principio di proporzione" tra qualità e quantità della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenze n. 313 del 26 giugno 1990 e n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993). In applicazione di questi principi sono state dichiarate incostituzionali, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalità rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparità di trattamento, o in violazioni del principio della finalità rieducativa della pena.
In particolare si è affermato (sentenza n. 343 del 1993) che "la palese sproporzione del sacrificio della libertà personale" provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito produce una vanificazione del fine rieducativo della pena, che di quella libertà costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione.
Orbene, al fine di valutare la rispondenza delle previsioni contestate ai ricordati criteri di giudizio, e segnatamente al principio di proporzionalità, è possibile sostenere che la previsione di sei mesi di reclusione per l'art. 640 cp e di un anno di reclusione per l'art. 640 bis cp, oltre alla multa, come minimo edittale e quindi come pena inevitabile anche per le più modeste infrazioni, non appare consona alla tradizione liberale italiana né a quella europea.
Tale severità sembra, di colpo, alla luce della recente riforma, il prodotto di una ormai anacronistica concezione sacrale del patrimonio, tipica di un'epoca storica superata e discendente da matrici ideologiche non più aderenti ad una coscienza democratica che in ultima analisi privilegi i valori dell'essere rispetto a quelli dell'avere.
Il necessario e ragionevole bilanciamento di interessi che presiede alla determinazione della misura della pena non può non tener conto del recente mutato assetto normativo che ha investito la quantificazione della pena nei reati societari a condotta truffaldina e con dolo specifico di lucro. Già questa prima, più generale, considerazione induce dunque a ritenere che la severità del minimo edittale, previsto per la truffa, sia frutto di bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra la tutela del patrimonio, anche nei casi di minima entità, e la libertà personale del soggetto agente.
Ulteriore sintomo dell'affermarsi nella coscienza sociale della convinzione della palese incongruenza di tali previsioni sanzionatorie è dato dall'atteggiamento talvolta assunto dai giudici che, nell'applicare le norme incriminatici della truffa a condotte di tenue o minima offensività, hanno spesso avvertito il disagio, talvolta mal celato in sede di motivazione, di essere tenuti a dare risposte sanzionatorie manifestamente eccessive.
Tale disagio si aggraverà forse nel momento in cui il giudice dovrà mandare assolti o al più applicare pene di gran lunga meno afflittive ai "lorsignori" taroccatori di bilanci di piccole o grandi realtà societarie.
Di contro, la descritta plurioffensività dei reati societari renderebbe ragionevole una pena ben più grave di quella contemplata per la truffa, in relazione alle esigenze di protezione di interessi che superano quello individuale, investono un numero indeterminato di potenziali parti offese ed addirittura presidiano il buon andamento dell'economia.
Pertanto, almeno nei casi più lievi di truffa, i patrimoni pubblici e privati, scalfiti da condotte assai meno allarmanti e sofisticate di quelle descritte nei reati societari, appaiono colpiti in modo così irrisorio da non giustificare una pena di gran lunga più severa in rapporto a quelle previste per detti reati societari, spesso di natura contravvenzionale (pertanto prescrivibili in appena un triennio) e mai accompagnate da sanzioni pecuniarie.
Le nuove disposizioni penali in materia di società e di consorzi hanno, infatti, previsto che il conseguimento di un ingiusto profitto, perseguito attraverso l'offesa alla fede pubblica, agli interessi patrimoniali della società, dei singoli soci, dei creditori e dei terzi che entrano o potrebbero entrare in rapporto con la società, non debba più integrare una fattispecie delittuosa, con prescrizione decennale, punita con la pena da uno a cinque anni di reclusione e con la multa da due milioni a venti milioni di lire come prevedeva invece la vecchia formulazione dell' art. 2621 cod. civ..
Condotte suscettibili di integrare il tentativo delle fattispecie delittuose vengono adesso addirittura declassate al rango di contravvenzione, con quel che ne consegue in termini di pena e di prescrizione.
Tale riforma è ispirata ad una concezione meno oppressiva dei rapporti tra amministratori di società, soci e terzi ed accoglie pienamente le reiterate richieste di modifica legislativa dirette ad attenuare il trattamento sanzionatorio previsto nei reati societari.
Si può allora concludere che forse i dubbi di legittimità sollevati a proposito della eccessività del minimo della pena previsto per i reati di truffa, non appaiono del tutto manifestamente infondati con riferimento ai richiamati principi costituzionali.
Questo è in definitiva il perverso effetto di una riforma che, minimizzando il disvalore e l'allarme sociale prodotto dai reati societari di falso, ha fatto apparire irragionevolmente abnorme, senza che in effetti lo sia, la risposta repressiva dell'ordinamento di fronte a condotte meno significative.
Livorno, lì 16 novembre 2002
Massimo
Mannucci
Magistrato
(riproduzione riservata)
[1] Relazione Governativa al decreto legislativo 61/2002 in Guida al diritto n. 16, 2002. pag. 28 e ss.
[2] Evidenti analogie con il paradigma della truffa sono ravvisate anche da BRICCHETTI –PISTORELLI in Punibili solo le “notizie” verso il pubblico o i soci in Guida al diritto cit. p. 52.
[3] PALIERO, Nasce il sistema delle soglie quantitative: pronto l’argine alle incriminazioni, in Guida al diritto cit. p. 38.