Giampaolo Naronte, Alcune riflessioni sull’art. 35 del d.lgs. 74/2000 recante disposizioni sulla  competenza penale del giudice di pace

Essendo ormai prossima l’entrata in vigore del decreto legislativo 28 agosto 2000 n. 74, anche una pur sommaria lettura del testo normativo suggerisce più di uno spunto di riflessione.

Tra le numerose disposizioni che è facile prevedere costituiranno l’incipit per serrati dibattiti dottrinali ho focalizzato l’attenzione su una norma (l’art. 35) che, secondo il mio modesto avviso, attribuisce al giudice di pace un potere che sicuramente ravviverà la mai sopita questione relativa alla finalità della pena.

Infatti l’art. 35, concernente la estinzione del reato conseguente a condotte riparatorie, al secondo comma stabilisce che «il giudice di pace pronuncia la sentenza di estinzione del reato di cui al comma 1 solo se ritiene le attività risarcitorie e riparatorie idonee a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione».

Poiché nella recente letteratura penalistica le categorie della «meritevolezza di pena» e del «bisogno di pena» hanno indubbiamente riscosso un certo successo ( [1] ) ponendosi quali criteri di interpretazione, di verifica o di correzione dei sistemi penali positivi, l’art. 35 del d.lsg. 74/2000 ci permette di esaminare se il giudice di pace abbia uno strumentario normativo che gli permetta di stabilire quando l’attività risarcitoria o riparatoria dell’imputato sia inidonea a soddisfare le esigenze di riprovazione del reato e quelle di prevenzione.

Non sono mancati Autori che, cercando di verificare se ed in quale misura le categorie sopra indicate in questione fossero idonee nella costruzione del reato, hanno concluso che la meritevolezza ed il bisogno di pena si aggiungerebbero (si parla di un «quarto gradino») ai classici caratteri della illiceità, della colpevolezza e della tipicità della condotta costituente reato ( [2] ).

Nell’ottica di un legislatore moderno che, per contrastare un certo fenomeno criminoso che si ripete ormai in modo preoccupante, debba decidere se sia o meno il caso di intervenire con la previsione di una norma penale, i due concetti della meritevolezza  e del bisogno di pena appaiono indissolubilmente legati fra loro.     

Se tale legislatore è prudente ed accorto ci si dovrà attendere che la scelta sia effettuata solo se il comportamento merita la pena e se la pena stessa è proporzionata alla gravità del fatto ed al bene giuridico aggredito.    È infatti il valore della libertà personale (e degli altri diritti fondamentali dell’uomo) che le Costituzioni moderne tendono a tutelare, considerando meritevole di pena solo quel comportamento per prevenire il quale v’è un effettivo bisogno della pena stessa.

Considerando la meritevolezza ed il bisogno di pena come aspetti complementari della stessa vicenda, appare difficile condividere quelle impostazioni dottrinali che ravvisano nell’esigenza della pena una sorta di categoria ulteriore, un quid pluris dell’illecito ( [3] ):

a) una prima tesi prende le mosse dalla separazione fra antigiuridicità e colpevolezza, da un lato, e pena criminale dall’altro: partendo dalla premessa che può essere reato solo quel particolare illecito colpevole che appaia meritevole di pena, si ritiene che nella teoria generale del reato dovrà trovare un’autonoma collocazione il contenuto di disvalore etico-sociale che, da sole, la colpevolezza e l’antigiuridicità non riescono ad esprimere.  Questa tesi ha indubbiamente un fondo di verità quando afferma che l’illecito penale deve essere costituito da un qualcosa in più che legittimi una reazione statuale non prevista in altre branche dell’ordinamento, mentre appare opinabile l’idea di poter isolare, all’interno della norma penale, quell’elemento che trasforma l’illecito da “normale” (per cui il legislatore si accontenterebbe di comminare una sanzione extrapenale) a “penale”, poiché nella maggior parte dei casi tutto quello che è descritto nell’astratta fattispecie criminosa individua ciò che è vietato e implica le ragioni di questa opzione normativa a giudizio del legislatore ( [4] ).

b) Altro settore dottrinale ricava la necessità della costruzione di un “quarto gradino” - oltre all’antigiuridicità, alla tipicità ed alla colpevolezza - dal convincimento che il legislatore tenda a livellare i multiformi profili politico-criminali dei singoli reati facendo spesso dipendere la punibilità dalla qualificazione oggettiva o soggettiva dell’agente.  Da questo angolo prospettico affinché un fatto meritevole di pena diventi anche “bisognoso” di pena occorre che l’intervento sanzionatorio non arrechi alcuna conseguenza collaterale sproporzionatamente dannosa: in altre parole l’idoneità, la necessità e la proporzionalità sono i tre requisiti che giustificano l’applicazione della sanzione criminale.    A tale impostazione si è obiettato che la ricerca degli elementi descrittivi dell’azione e della personalità del reo non può risolversi in una categorizzazione autonoma di parte generale, essendo affatto pacifico se - sottratti tali elementi dall’antigiuridicità e dalla colpevolezza - residuino una antigiuridicità ed una colpevolezza realmente significative ( [5] ).

c) Appare forse preferibile la tesi secondo cui la meritevolezza di pena è un concetto fondamentale del diritto penale che pervade la sanzione criminale dal momento prelegislativo fino alla fase della sua commisurazione giudiziale.  In base a questa impostazione sono rinvenibili, accanto all’antigiuridicità ed alla colpevolezza, degli elementi “aggiuntivi” che provocano un incremento del disvalore del fatto (come le cause oggettive di punibilità) ed elementi che, al contrario, lo fanno decrescere (come le cause di non punibilità) ( [6] ).    

Il presente lavoro è occasionato anche dalla presa di coscienza di quel fenomeno che Padovani descrive efficacemente in termini di «disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio» ( [7] ); infatti il problema delle comminatorie edittali «dopo aver impegnato ed appassionato il dibattito illuministico, sembra scomparso dall’orizzonte teorico della cultura penalistica (...) a conferma del suo atteggiamento acriticamente contemplativo nei riguardi del diritto vigente» ( [8] ).     

Nel proseguo del lavoro si avrà modo di evidenziare come a rendere ardua una critica sulle comminatorie edittali concorre la stessa tecnica adottata dal codice Rocco, basata su una fantasmagoria di limiti estremamente mutevoli che rappresenta il riflesso di quello spirito casistico che pervade la parte speciale e che finisce col rendere ingovernabile, per lo stesso legislatore, il proluvio delle comminatorie differenziate.     Per questo motivo una particolare attenzione sarà dedicata all’interpretazione «costituzionalmente orientata» dei criteri contenuti nell’art. 133 cod. pen. it. offerta di recente dalla giurisprudenza e dalla dottrina.

2. Finalità e commisurazione della pena —  Il sistema penale italiano di commisurazione della pena si colloca in una posizione intermedia rispetto alla soluzione dominante in Europa fino al XVIII secolo, caratterizzata dai poteri illimitati assegnati al giudice in ordine alla scelta della qualità e quantità di pena, e l’opposta soluzione (invalsa dopo la rivoluzione francese) improntata al principio di legalità ed alla eliminazione di qualunque margine di discrezionalità nella fase della individualizzazione giudiziale della pena ( [9] ).

Istituti come la sospensione condizionale della pena, il perdono giudiziale o l’affidamento in prova al servizio sociale potrebbero essere considerati autonome sanzioni di modo che nella loro applicazione - in luogo di una pena detentiva o pecuniaria - si potrebbe ravvisare un margine di discrezionalità in capo all’organo giudicante.  

In tema di ripartizione dei compiti fra legislatore e giudice circa la misura della pena, il secondo è chiamato ad irrogare la sanzione in un’entità compresa fra un minimo ed un massimo prefissati ex lege nella singola norma incriminatrice oppure, in generale, in relazione a ciascuna specie di pena.

Con l’art. 133 cod. pen. it. i compilatori italiani operarono una scelta di tecnica legislativa destinata a trovare molte adesioni nel proseguo di questo secolo: infatti una norma analoga è rinvenibile nel codice penale tedesco (§ 46 StGB) ( [10] ), in quello svizzero del 1937 ed in quello austriaco del 1974 ( [11] ), nonché in quello spagnolo (sia del 1971 che del 1995) e persino negli  ordinamenti di tipo anglosassone - che tradizionalmente si astengono dal dettare qualsiasi direttiva per il giudice circa la misura della pena - sembra manifestarsi una certa tendenza verso interventi legislativi in materia ( [12] ).

Forse proprio la presenza d’una norma come il nostro art. 133 cod. pen. it. ha distolto la dottrina italiana dai problemi connessi alla commisurazione della pena che, al contrario, nei paesi privi di una disposizione di analogo tenore sono stati oggetto di un vivace dibattito.   Occorre tuttavia chiedersi se ciò è accaduto perché l’art. 133 ha fornito una soddisfacente risposta a tutti i quesiti giuridici che era chiamato a risolvere o se, al contrario, abbia solo generato un clamoroso equivoco, dando la parvenza di «giuridicizzare» una sfera che in realtà continua ad essere pervasa dal dominio dell’irrazionale.

Un primo motivo che potrebbe far propendere per la seconda delle due soluzioni sopra prospettate è dato dal fatto che l’art. 133 nulla dice a proposito della finalità della pena in vista della quale il giudice si deve orientare nel momento in cui commisura la sanzione. All’uopo non è certamente sufficiente un generico richiamo alla individualizzazione della sanzione penale, che pure rappresenta il primo obiettivo perseguito dal legislatore nel momento in cui rinuncia a stabilire delle pene fisse ed affida al giudice il compito di dare concreta attuazione alle astratte previsioni legislative ( [13] ).  

La maggior parte degli ordinamenti dell’Europa occidentale che conoscono una norma generale sulla commisurazione della pena tacciono sui fini ai quali essa dev’essere rivolta: poiché pur in assenza di espresse indicazioni sul punto, il legislatore può ugualmente far trasparire le proprie scelte attraverso l’elenco stesso dei criteri fattuali di «commisurazione» della pena, occorre soffermarsi sui parametri della «gravità del reato» e della «capacità a delinquere del reo» indicati dal nostro art. 133 per verificare se siano sufficienti a rivelare le finalità verso le quali è rivolta a sanzione criminale.

La dottrina italiana non ha certo riservato all’art. 133 cod. pen. it. un’attenzione pari a quella dedicata all’esegesi di altri articoli, nonostante voci autorevoli abbiano più volte sottolineato il ruolo centrale svolto da tale norma ( [14] ), rilevando come la decisione sull’an della pena sia un problema di applicazione del diritto, mentre tale carattere non viene riconosciuto alla decisione sul quantum, nella quale il giudice conserva una posizione che si potrebbe definire “sovrana”.

La dottrina si è spesso interrogata su altri aspetti afferenti alla norma in esame - quali il carattere tassativo o esemplificativo dell’elenco in essa contenuto - concludendo nel senso della sua «onnicomprensività in quanto richiamerebbe tutti gli elementi di valutazione ai quali logicamente, razionalmente ed umanamente è possibile ricorrere per orientare in concreto l’inflizione della pena» ( [15] ).

Se l’art. 133 non è riuscito a svolgere nel nostro sistema penale un ruolo pari alle aspettative, sarebbe ingiusto imputare in modo preponderante tale insuccesso alla scarsa attenzione di cui è stato oggetto da parte degli interpreti: il nodo interpretativo sul quale si sono più affannati gli studiosi del diritto penale è stata la nozione di capacità a delinquere, categoria sconosciuta fino al codice del 1930 e la cui equivocità è certamente da correlare alla scarsa fortuna che l’art. 133 ha avuto a livello di prassi giurisprudenziale.

A ben vedere anche il concetto di gravità del reato non è univoco, potendo venire in rilievo avendo di mira la riparazione del torto anche su un piano di prevenzione generale o, perfino, sotto un profilo di prevenzione speciale, in quanto il reato manifesta un’accentuata propensione criminosa nel soggetto agente ( [16] ).

Ancor più ampio appare lo scarto fra le interpretazioni proposte dalla dottrina in merito al concetto della capacità a delinquere: non essendo possibile prendere posizione a favore di una piuttosto che di un’altra teoria, ai nostri fini è sufficiente evidenziare che l’incertezza ermeneutica che sembra regnare sul versante dottrinale si è negativamente ripercossa sulla commisurazione della pena.   Secondo alcuni Autori ( [17] ) il giudizio sulla capacità a delinquere dev’essere formulato in relazione al tempus commissi delicti, risolvendosi nel nesso fra la personalità dell’agente e l’azione criminosa commessa, mentre per altri ( [18] ) si dovrebbe proiettare l’indagine nel futuro, trattandosi di stabilire l’attitudine del reo a commettere in futuro altri reati.  

All’interno di ciascuna linea di tendenza si sono poi sviluppate posizioni ulteriormente distinte: in seno al primo indirizzo non è pacifico se nella capacità a delinquere si possa scorgere un criterio di graduazione della colpevolezza che, abbracciando una serie di fattori esterni rispetto al fatto tipico, verrebbe ad aggiungersi all’intensità del dolo ed al grado della colpa indicati nella prima parte della norma.   Infatti una parte della dottrina sostiene che la capacità a delinquere non avrebbe nulla a che spartire con la colpevolezza la quale, comunque se ne forzi la nozione, non potrebbe mai essere ricondotta ad uno degli elementi elencati nell’art. 133 cod. pen it. ( [19] ).  

Mentre secondo alcuni Autori collocando la capacità a delinquere sul piano della colpevolezza si amplierebbe l’oggetto del rimprovero oltre i confini del fatto coinvolgendovi, in posizione autonoma, anche la personalità del reo ( [20] ), per altri si realizzerebbe «un affinamento in senso subiettivo del giudizio sulla fattispecie», salvo poi ritenere, anche in questa seconda prospettiva, che il fatto si debba considerare tanto più riprovevole quanto più malvagio sia l’individuo che l’ha commesso ( [21] ).    Non si può d’altra parte trascurare la possibilità ulteriore di utilizzare gli indici della capacità a delinquere in una prospettiva di affinamento del giudizio sul fatto.  Si potrebbe pensare ad una indagine sul ruolo che i fattori sociali e quelli della personalità hanno svolto nella genesi del reato, per concludere che il fatto è tanto più riprovevole quanto più facile sarebbe stato per il soggetto astenersi dal commettere il reato ( [22] ).  In questo modo, però, verrebbe ribaltata completamente la visuale di quella dottrina che proietta verso il futuro il giudizio sulla capacità a delinquere.

D’altra parte né dal testo dell’art. 133 cod. pen. it. e nemmeno dall’esame dei lavori preparatori è possibile evincere un’indicazione atta ad orientare l’interprete nella scelta fra la proiezione nel passato o nel futuro del giudizio sulla capacità a delinquere, visto che «le circostanze indicate nell’art. 133 hanno un contenuto generico e larghissimo e si riferiscono a tutta la personalità del delinquente: sono, insomma, i dati, i coefficienti di tale personalità, utilizzabili da qualunque verso importi stabilire un affermarsi ed un manifestarsi della personalità stessa» e che  «per conseguenza, essi possono servire sia al fine di determinare l’entità di un fatto commesso, sia al fine di stabilire la probabilità di un fatto futuro» ( [23] ).

Non mancano in dottrina tentativi di far leva sulla lettera della norma per propugnare una particolare nozione di capacità a delinquere: secondo Antolisei «concepire la capacità a delinquere come riferentesi al passato sarebbe in pieno contrasto con la lettera e lo spirito dell’art. 133 del codice» mentre a giudizio di Bricola «la seconda parte dell’art. 133 comprenderebbe elementi (come il carattere del reo) difficilmente conciliabili con una visione rigidamente retributiva della funzione della pena» ( [24] ). 

Volgendo lo sguardo ai lavori preparatori, se da un lato la relazione del progetto definitivo del codice penale definisce la capacità a delinquere come «l’attitudine dell’individuo alla violazione delle norme giuridiche penali», dall’altro la sostituzione del binomio «malvagità-pericolosità del colpevole» con la «capacità a delinquere» trova la sua giustificazione nel presupposto che «è stato soppresso l’accenno al criterio sussidiario della pericolosità per non lasciare dubbi che la (...) la pericolosità del reo, in tanto, nella applicazione della pena, può essere tenuta presente in quanto coincida con la capacità a delinquere» ( [25] ).

L’avvento della Costituzione e la conseguente accentuazione della prevenzione “speciale” positiva risocializzatrice, porta a chiedersi se l’art. 133 (rimasto immutato dal 1930 ad oggi) possa consentire, nella sua attuale formulazione, di risollevare le sorti di quella particolare e delicata fase del giudizio che è la commisurazione della pena: dell’art. 133 sono certo possibili «letture correttive» in senso costituzionale, ma va ugualmente detto che le migliori prospettive per una razionalizzazione della commisurazione sono legate ad una revisione legislativa, senza la quale appare assai improbabile che si riesca a superare l’inerzia di un costume giudiziale radicato da decenni ( [26] ).

Poiché in prospettiva di una riforma del nostro codice penale ci si dovrebbe muovere dalle indicazioni costituzionali del diritto penale del fatto e del principio della colpevolezza, già in tal senso l’art. 133 appare del tutto inadeguato. Infatti, pur potendosi in astratto condividere la posizione primaria assunta dal requisito della gravità del reato nell’ambito della norma sopra citata e pur apparendo congrui i riferimenti alle modalità dell’azione ed all’intensità dell’elemento soggettivo, manca tuttavia un’espressa menzione della colpevolezza in quanto tale - nella quale si compendia il rimprovero che l’ordinamento muove al soggetto agente - e l’accenno alla gravità del danno o del pericolo cagionato non contiene alcuna limitazione alle conseguenze «colpevoli» del reato, consentendo quindi di valutare a carico dell’autore anche conseguenze che, per tipo e quantità, non sono né dolose né colpose ( [27] ).

Anche se si volesse leggere la capacità a delinquere della seconda parte dell’art. 133 riferendola al passato, il rapporto con la colpevolezza del fatto non risulterebbe meno problematico: il carattere del reo, la sua condotta antecedente al reato nonché le condizioni di vita individuale e familiare, rischierebbero infatti di evocare una colpevolezza d’autore costituzionalmente inaccettabile.

Mentre è certo che il dato di base per la commisurazione della pena in senso stretto è la colpevolezza del fatto, è meno sicuro il ruolo che in tale operazione possono svolgere la prevenzione generale e quella speciale.    Non appare condivisibile l’impostazione seguita nel sistema tedesco ed austriaco, secondo la quale «con la colpevolezza del fatto viene (del tutto provvisoriamente) a determinarsi una pena proporzionale con una “escursione” (Spielraum) nella quale il limite inferiore segna una pena già adeguata alla colpevolezza ed il limite superiore una pena ancora adeguata, ed all’interno di questa escursione si dovrebbero considerare ed armonizzare la prevenzione generale e quella speciale» ( [28] ).    Infatti non convince già l’indifferenza di principio di una gamma anche estesa di pene, tutte egualmente («già» o «ancora») adeguate alla colpevolezza; ma anche a voler accettare questa impostazione, desta perplessità l’intervento della prevenzione generale e speciale nei termini suesposti, sia perché si giunge problematicamente a giustificare una pena anche più grave di quella che si postula «già» adeguata alla colpevolezza, sia perché la precarietà delle informazioni di cui dispone il giudice in merito alla prevenzione generale e speciale non gli consente di operare delle correzioni quantitative della pena ( [29] ).

3. I criteri fattuali dell’art. 133 alla luce della sentenza 313\1990 della Corte Costituzionale  —  Nel silenzio dell’art. 133 sui fini della pena ci eravamo proposti di verificare se fosse possibile risalire alle scelte del legislatore sul punto, analizzando la selezione dei criteri «fattuali» di commisurazione operata nella norma.  Il quadro delle soluzioni proposte dalla dottrina relativamente ad alcuni problemi ermeneutici occasionati dal tenore letterale dell’art. 133 non lascia intravedere una risposta positiva a tale interrogativo.

Alla gamma delle interpretazioni prospettate in tema di capacità a delinquere e di rapporti tra la prima e la seconda parte della norma, corrisponde infatti tutta una serie di ipotesi - divergenti l’una dall’altra - in ordine alle finalità della pena che dovrebbero guidare il giudice nel momento commisurativo.   

Se, infatti, si proietta la capacità a delinquere nel passato, tutta la commisurazione della pena viene a collocarsi in un’ottica “retributiva”, poiché si tratterebbe di individuare il giusto castigo non soltanto sulla base della gravità del reato, ma dando spazio in questa valutazione anche alla complessiva personalità del soggetto ( [30] ).   Intendere invece la capacità a delinquere come la possibilità (o la probabilità) di reati futuri, significa dare ingresso nella commisurazione della pena a considerazioni di prevenzione speciale, il che non rappresenta di certo un punto di arrivo, ma soltanto uno stadio intermedio nella problematica delle finalità della pena.   Tradizionalmente, infatti, si indicano nella intimidazione, nella risocializzazione e nella neutralizzazione le modalità attraverso le quali si può operare, al fine di prevenire la commissione di nuovi reati da parte dello stesso soggetto: è evidente che per chi si orienti in questa direzione nell’interpretazione dell’art. 133 si pone l’ulteriore problema dei rapporti fra le diverse forme di prevenzione speciale, senza che dalla norma si possa evincere alcun suggerimento in proposito ( [31] ).

La prospettiva della prevenzione speciale risulta l’unica legittima per chi riduca la gravità del reato ad un mero sintomo di pericolosità: secondo una dottrina risalente a Rocco, considerazioni di prevenzione speciale interverrebbero solo come correttivo marginale ad una pena fondamentalmente scelta in chiave di «giusta retribuzione», mentre questa soluzione è invisa a quella dottrina che contesta la tesi che privilegia la gravità del reato rispetto alla capacità a delinquere del reo, sostenendo che i due criteri rivestirebbero , in seno alla norma, la medesima importanza.. 

In quest’ottica la prevenzione speciale avrebbe un ruolo tutt’altro che marginale, dal momento che quando la pena più «giusta» non sia contemporaneamente anche quella più «adatta» a prevenire la ricaduta nel reato, sarebbe il giudice a decidere quali considerazioni debbano prevalere.     In altri termini l’art. 133 si collocherebbe nell’area della dottrina sincretistica che si limita a giustapporre le finalità delle pena, senza precisare le relazioni fra esse intercorrenti ( [32] ), non senza suscitare perplessità in coloro che si dimostrano attenti all’esigenza di porre un freno alla discrezionalità del giudice nel momento della commisurazione giudiziale della pena ( [33] ).

I margini di incertezza generati dall’art. 133 in ordine alle finalità della pena che il giudice deve considerare al momento della sua commisurazione sono addirittura amplificati quando ci accingiamo ad analizzare il ruolo che riveste la prevenzione generale: se, infatti, per la retribuzione e la prevenzione speciale, la diversità di vedute profilatasi fra gli interpreti affonda le proprie radici nell’obiettiva equivocità del dettato normativo, per quanto riguarda la prevenzione generale è la stessa lettera dell’art. 133 ad escludere la legittimità di una sua considerazione nella scelta giudiziale della pena.

Sembra che i protagonisti della commisurazione della pena nel nostro sistema continuino ad essere la tradizione, i fattori irrazionali e le scelte di politica criminale dei singoli giudici.   Un giudice consapevole di quanto la pubblica opinione sia sensibile alla maggiore o minore coerenza con cui la prassi uniforma alle successive decisioni sulla misura della pena, non potendo trarre dall’aderenza ad un preciso paradigma normativo una garanzia di «eguaglianza», sarà indotto a tener conto di come in passato sono stati puniti casi analoghi a quello su cui egli è chiamato a pronunciarsi.   Il termine di riferimento per tale operazione è rappresentato quasi esclusivamente dalle decisioni pronunciate nell’ambito della stessa circoscrizione; oltre alla cristallizzazione delle divergenze della giurisprudenza di circoscrizioni diverse, la valorizzazione dell’elemento tradizionale implica il pericolo di surrogare una coerenza che nasca dall’intrinseca razionalità delle singole decisioni con una coerenza fittizia, costruita dall’esterno, a prezzo di sfasature fra misura della pena e circostanze oggettive e soggettive del caso concreto ( [34] ).   Pur potendosi in astratto concordare con quel settore dottrinale secondo cui l’irrazionalità è un carattere ineludibile nella fase della commisurazione della pena, è indubbio che il legislatore italiano non ha circoscritto il «residuo irrazionale» e che l’interpretazione dell’obbligo di motivazione (ex art. 132 cod. pen. it.) fornita da alcuni settori della giurisprudenza si risolve troppo spesso in un elegante escamotage per assicurare un’impenetrabile copertura ad una inveterata prassi giudiziaria dominata da fattori di questo tipo ( [35] ).

Quanto premesso spiega perché siano assai scarse le pronunce giurisprudenziali in ordine ai singoli parametri contenuti nell’art. 133 e perché i giudici di merito preferiscano appuntarsi più sulla violazione dell’art. 132 cod. pen. it. «ingenerando un singolare squilibrio fra pronunce relative ai profili processuali e pronunce relative ai profili sostanziali della commisurazione della pena» ( [36] ).   Né è estranea a questo “disagio” la più volte evidenziata «equivocità» delle categorie della capacità a delinquere e della gravità del reato potendo leggersi entrambe, con risultati diametralmente opposti, in un’ottica retributiva o preventiva della sanzione penale.

Rebus sic stantibus è comprensibile che la decisione della Corte Costituzionale n. 313 del 1990 ( [37] ) fosse stata salutata dalla dottrina ( [38] ) come una vera e propria rivoluzione copernicana nell’interpretazione dell’art. 27 co. 3° Cost., anche se occorre chiedersi se in tale occasione i giudici abbiano inteso tracciare una teoria della pena o, piuttosto, una teoria della commisurazione della pena.   

Forse il motivo per cui l’art. 133 cod. pen. it. costituisce, da oltre trenta anni, il bersaglio privilegiato degli studiosi del diritto penale, va ricercato nel fatto che tale norma rappresenta la prova evidente di come la ricerca di un compromesso si risolva spesso in formule vaghe e insoddisfacenti ( [39] ).   

Frutto del compromesso degli anni 20’ tra idea retributiva ed idea dello scopo, riaffiorano nell’art. 133 le contrapposte tendenze ed i limiti di ciascuna impostazione: mentre il retribuzionista ravvisa nel riferimento alla capacità a delinquere una disposizione trascurabile, priva di rilevanza pratica ai fini dell’individuazione della pena, il positivista tende a fare dell’art. 133 il suo cavallo di battaglia ( [40] ).   Solo un’interpretazione dualistica, volta a sminuirne le intrinseche ambiguità, sembra poter frenare la paurosa caduta delle quotazioni dell’art. 133: secondo questa chiave di lettura l’art. 133 svolgerebbe una funzione «retrospettiva-retributiva» intesa come capacità morale a compiere il reato, e «prognostico-preventiva» volta ad accertare l’attitudine a commettere nuovi reati ( [41] ).

I perduranti sforzi di razionalizzare la commisurazione da parte della dottrina e della giurisprudenza sembrano frustrati da due fattori essenziali:  a) l’introduzione, col nuovo codice di procedura penale, di riti speciali dotati di autonomia commisurativa;  b) la polverizzazione del sistema sanzionatorio, dovuta alle poche coordinate riforme nel settore dell’esecuzione penale ed alla introduzione estemporanea di nuovi modelli sanzionatori extra codicem.

La più immediata conseguenza della «crisi del sistema sanzionatorio» è il crescente impulso ad una differenziazione interna ai singoli modelli sanzionatori, che «serva a delineare già sul piano della commisurazione la specificità della criteriologia - segnatamente finalistica - propria di ciascuna tipologia sanzionatoria» ( [42] ).   

In un quadro così segmentato, la sentenza costituzionale n. 313 del 1190 non si limitò a risolvere problemi di dettaglio ma intese anche prendere posizione quantomeno in merito alla teoria della commisurazione della pena.   Dichiarando l’incostituzionalità dell’art. 444 co. 2° cod. proc. pen. «nella parte in cui non prevede che, ai fini e nei limiti di cui all’art. 27 co. 3° Cost., il giudice possa valutare la congruità della pena indicata dalle parti», la sentenza segnò un punto di svolta nella tradizionale giurisprudenza della Corte.

È innanzitutto degna di nota l’articolata presa di posizione circa la funzione della pena statale: rompendo con un passato di accomodanti equilibrismi che le hanno permesso di non scegliere fra le teorie finalistiche della pena, nella sentenza n. 313 finalmente la Corte esprime un orientamento chiaro nell’impostazione, univoco nelle conseguenze e coraggioso per le opzioni politico-criminali che esprime.  A prima vista parrebbe che la Corte abbia voluto ripudiare il suo tradizionale orientamento che, affidando alla pena una funzione in primo luogo retributiva, poi anche preventiva e di difesa sociale, «riconosceva al fine rieducativo un ruolo meramente tendenziale, valutato come marginale o addirittura eventuale e, comunque, ridotto entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario» ( [43] ).   Nella nuova concezione proposta la finalità rieducativa diventa invece un momento ineludibile nel procedimento di commisurazione della pena: alcuni autori hanno manifestato i loro dubbi su questa tardiva presa di coscienza dei giudici «poiché l’enfatizzazione della funzione rieducativa della pena in tutte le sue fasi cade in un momento in cui le richieste di inasprimento generalizzato delle sanzioni si fanno un po’ dappertutto pressanti e nel nostro paese sono ormai ossessive, talvolta anche isteriche» ( [44] ).    Restano quindi nell’ombra - in questo contesto - i dibattiti trentennali sulla pena “utile” ed il dato di fatto che l’ideologia della rieducazione è in crisi da almeno quindi anni - non certo solo in Italia - soprattutto da un punto di vista empirico (d’altronde la rieducazione non è mai stata realmente in auge come scopo della pena, almeno dal tramonto della Scuola Positiva in poi) ( [45] ): l’ottica assunta dalla Corte appare quindi un po’ démodé (o troppo in anticipo sul futuro) ingenerando il sospetto che sotto il manto della prevenzione speciali si camuffi una preoccupazione prettamente generalpreventiva, vale a dire il timore che un patteggiamento sistematicamente appiattito verso il basso affievolisca la tenuta generalpreventiva dell’ordinamento nel suo complesso.

Del resto è risaputo che erano diffuse le riserve della magistratura giudicante verso una pena patteggiata dalle parti e svincolata dal controllo del giudice: questa decisione riporta la commisurazione della pena nella sfera del suo tradizionale “dominio”, facendo riferimento al parametro rappresentato dall’art. 27 co. 3° Cost., la cui interpretazione letterale dev’essere sembrata alla Corte l’unica strada percorribile per ripristinare il controllo esclusivo del giudice sulla misura delle pene.

Il commento a questa importante decisione dei giudici delle leggi ci offre lo spunto per approfondire i suggerimenti che essi hanno offerto negli anni passati al legislatore per evitare che l’art. 133 restasse lettera morta.   I prossimi paragrafi saranno quindi dedicati ad un approfondito esame dei principali orientamenti giurisprudenziali (sia costituzionale che di legittimità e di merito) in relazione all’art. 133 cod. pen. it., al termine del quale sarà abbastanza chiaro come solo di recente si sia riuscito a colmare il gap che in passato aveva caratterizzato i rapporti tra la teoria e la prassi giudiziaria in ordine alle finalità della pena che il giudice deve valutare nella fase della sua commisurazione.

Come anticipato, l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana ha obbligato la scienza penalistica italiana a confrontarsi con i precetti in essa contenuti, (ri)modellando i caratteri sia dell’illecito penale che della pena ( [46] ).  Si può affermare che è rimasta sullo sfondo la problematica relativa alla corrispondenza dei limiti edittali della sanzione penale ai parametri costituzionali, come è significativamente confermato dall’orientamento della Corte Costituzionale che per lungo tempo ha respinto le eccezioni sollevate dai giudici di merito che censuravano il rigore del quantum di pena prevista per questa o quella norma incriminatrice ( [47] ).  

I termini di tale quesito giuridico - a lungo ignorato sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza - sono così compendiabili: il legislatore ordinario, minacciando la sanzione per mezzo della quale intende tutelare determinati beni giuridici, non incontra alcun limite nel dosaggio della pena o, al contrario, è vincolato al rispetto dei precetti costituzionali?  E nel caso in cui si propenda per quest’ultima soluzione, in quale misura la Costituzione può vincolare il giudice nella fase della commisurazione della pena?

Si potrebbe affermare che la determinazione della misura della pena è una manifestazione, per antonomasia, di quelle scelte di «natura politica» che sono escluse dal controllo di legittimità dei giudici delle leggi.  A ciò si aggiunga che la materia penale è retta da un principio (quello della riserva di legge) che sembra esaltare e rafforzare il primato dell’organo parlamentare.

È innegabile che nel determinare la pena il legislatore spesso considera anche fattori che potremmo definire «irrazionali» - come l’allarme sociale che può suscitare l’aumento di una certa forma di criminalità o la commissione di reati particolarmente efferati - ma ciò non significa che il potere legislativo possa aggirare i vincoli che la Carta Costituzionale pone all’esercizio dello ius puniendi statale, ispirati ad esigenze di garanzia dagli arbìtri ed al rispetto della «personalità» umana.

Il controllo dei giudici delle leggi si può sicuramente estendere anche al quantum di pena minacciato ed anche se ciò deve avvenire con una certa pacatezza (per evitare pericolose sovrapposizioni di competenze) non appare del tutto giustificato il torpore che ha caratterizzato, in questa materia, l’orientamento seguito dalla Corte Costituzionale negli anni passati; solo di recente, infatti, si registrano timidi segni di risveglio, quasi sicuramente frutto dell’imponente mole di ordinanze che i giudici di merito hanno sottoposto al vaglio del massimo organo giurisdizionale.

3.1 Il primo parametro adoperato dai giudici delle leggi nella valutazione della congruità della pena al disvalore del fatto è quel canone di uguaglianza desumibile dall’art. 3 co. 1° Cost., che sta ad indicare il divieto per il legislatore ordinario di discriminazioni arbitrarie.  Da questo principio la dottrina e la giurisprudenza ricavano la necessaria «ragionevolezza» dell’attività legislativa, nel senso che occorre di volta in volta verificare se «il legislatore abbia ragionevolmente valutato diversità ed analogie tra le ipotesi da disciplinare e che, sempre in modo ragionevole, abbia scelto il trattamento normativo» ( [48] ).

La Corte ha più volte evidenziato quale sia la soglia che il legislatore penale non può varcare: la determinazione della quantità e qualità della pena rientra «nell’ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio può essere censurato sotto il profilo della legittimità costituzionale solo nei casi in cui non sia rispettato il canone della ragionevolezza», facendo ricorso a dosaggi sanzionatori che diano origine a «sperequazioni che assumono una tale gravità da risultare radicalmente ingiustificate» ( [49] ).

Gli autori ( [50] ) che si sono cimentati nel lavoro di «rilettura» del modus operandi del legislatore alla stregua dei principi contenuti nella carta fondamentale, hanno raggruppato le sentenze pronunciate dai giudici delle leggi in due gruppi: 

1) nel primo, e più cospicuo gruppo, rientrano le ipotesi in cui i giudici di merito avevano denunciato l’incostituzionalità di un medesimo trattamento sanzionatorio in relazione a fattispecie che si assumevano di gravità differente.  In realtà sono poco numerosi i casi in cui la Corte ha accolto le doglianze dei giudici remittenti, dal momento che il più delle volte ha ritenuto di poter «salvare» le diverse norme penali assumendo che esse riguardassero lo stesso bene giuridico o, comunque, fossero rivolte al perseguimento della medesima finalità da parte del legislatore ( [51] ). La Corte accolse i rilievi mossi dai giudici di merito per la prima volta nella sentenza n. 218 del 1974 (che pure riguardava una fattispecie contravvenzionale di modesta importanza): in quella occasione i giudici ribadirono il proprio consolidato orientamento circa l’insindacabilità della misura della pena salvo il limite della razionalità, ritenendo che nel caso de quo questo confine era stato oltrepassato «mancando ogni elemento logico che possa spiegare il fondamento giuridico e razionale di una normativa come quella dell’art. 8 penultimo comma del r.d. n. 1016 del 1939 - TU delle norme per la protezione della selvaggina e per l’esercizio della caccia - che punisce (...) in modo identico chi non sia assicurato e chi, pur essendo assicurato, non sia stato in grado di fornire la prova all’agente che gliene abbia fatto richiesta» ( [52] ).  Tra le decisioni della Corte Costituzionale che, al contrario, hanno «salvato» la costituzionalità della norme penali si segnalano quelle che hanno fatto leva sulla funzione della commisurazione della pena, assumendo che essa consenta al giudice di differenziare il diverso disvalore delle condotte elencate nella fattispecie - pur offensive di beni giuridici diversi - così da punire con una pena prossima al massimo edittale le più gravi, e con una vicina al minimo edittale quelle meno pericolose ( [53] ).  

2) Il secondo gruppo di decisioni ha per oggetto i casi in cui la norma impugnata prevedeva una pena ritenuta dai giudici remittenti ingiustificatamente troppo elevata (nel minimo e nel massimo) rispetto a quella comminata da un’altra norma incriminatrice. Qui il termine di raffronto non era ricercato, come accade nel gruppo precedente, all’interno della norma stessa ma in una norma simile a quella censurata.  Di regola la Corte ha respinto le eccezioni «trovando» caso per caso un elemento di diversità fra le fattispecie messe a confronto in grado di giustificare da solo il differente trattamento sanzionatorio ( [54] ).

È criticabile, secondo parte della dottrina ( [55] ), questo ricorrente escamotage impiegato dalla Corte, in base al quale la diversificazione delle condotte deve emergere in sede giudiziale, grazie all’ampiezza dello spazio edittale.  Anche tralasciando il profilo del rispetto del principio di legalità qualora la cornice edittale sia strutturata in modo tale che la forbice tra il limite minimo e quello massimo sia troppo ampia, il problema consiste nel verificare se il giudice possa in concreto differenziare il diverso disvalore di condotte che, nella previsione astratta della legge, sono invece parificate ( [56] ).   Va peraltro segnalato che in alcune decisioni la Corte sembra aver abbassato la guardia, riducendo il canone della ragionevolezza al di sotto dello standard minimo, così salvando la norma penale sottoposta al suo esame ( [57] ).

Va sicuramente segnalata la decisione n. 26 del 1979 non solo perché per la prima volta dichiara l’illegittimità di un’ipotesi delittuosa, ma soprattutto per l’iter argomentativo seguito dai giudici.  Infatti essi hanno provveduto, discostandosi da una concezione meramente logico-formale del principio di uguaglianza, ad effettuare una «valutazione di merito in chiave costituzionale del rango dei beni penalmente protetti» sulla scia di quell’orientamento formatosi in campi diversi dal diritto penale, secondo il quale il sindacato della ragionevolezza dev’essere allargato, «richiedendo anche un bilanciamento ed una valutazione complessiva degli interessi contrapposti (...); in questo senso il controllo di ragionevolezza diventa anche controllo sulla giustizia delle leggi» ( [58] ).

La sentenza riguardava l’equiparazione quoad poenam da parte dell’art. 186 cod. pen. m. p., dell’omicidio tentato del superiore con la corrispondente ipotesi di omicidio consumato: i giudici effettuarono un controllo della misura della pena valutando il rango costituzionale degli interessi tutelali, id est verificando se il giudizio effettuato dal legislatore fosse conforme alla scala dei valori emergente dalla Costituzione.  In altri termini, secondo i giudici delle leggi il legislatore è libero di scegliere se tutelare o meno con la sanzione penale un certo bene, ma nella quantificazione della pena non può ribaltare la gerarchia di valori desumibile dalla legge fondamentale ( [59] ).   È chiaro che in tal modo il sindacato della Corte è più penetrante di quanto non accada impiegando il parametro della ragionevolezza come connotato logico-formale.

La via inaugurata con questa sentenza ha aperto la strada alla possibilità di sindacare il quantum della pena quando risulti eccessivamente sproporzionata rispetto al rango costituzionale di tutti i beni chiamati in causa dal fatto di reato ( [60] ).  Un simile controllo è stato di recente compiuto nella sentenza n. 341 del 1994 ( [61] ): i giudici, nel caso di specie, hanno censurato l’eccessiva severità del minimo edittale previsto dall’art. 341 cod. pen. it. «in quanto frutto di un bilanciamento ormai manifestamente irragionevole tra la tutela dell’onore e quella del prestigio del pubblico ufficiale (e del buon andamento della pubblica amministrazione) anche nei casi di minima entità, ed il bene giuridico della libertà personale del soggetto agente».  

Una delle valutazioni principali in forza delle quali la Corte è giunta a dichiarare l’illegittimità costituzionale del minimo edittale previsto per il reato di oltraggio è che tale fattispecie appariva il prodotto di una concezione sacrale dei rapporti tra pubblici uffici e cittadini, tipica dell’epoca storica in cui fu prevista e discendente da una matrice ideologica estranea alla Costituzione repubblicana.  Ciò significa che «la Corte sicuramente ha riconosciuto che il bene giuridico costituzionalmente orientato predispone direttive programmatiche di tutela potenzialmente vincolanti» ( [62] ).

3.2 Un’altra norma costituzionale che sicuramente influisce sulla fissazione legislativa dei limiti edittali è l’art. 25 co. 2° Cost., contenente l’enunciazione del principio di legalità in materia penale dal quale sorge - tra l’altro - in capo del legislatore l’obbligo di formulare con precisione (c.d. principio di determinatezza) sia il precetto che la relativa sanzione ( [63] ).   La Corte Costituzionale affermò che «l’ampiezza del divario fra il minimo ed il massimo della pena non deve eccedere il margine di elasticità necessario a consentire la individualizzazione della pena e non deve manifestamente risultare collegato alla variabilità delle fattispecie concrete e delle tipologie soggettive rapportabili alla fattispecie astratta»; diversamente, continua, «la predeterminazione legislativa della misura della pena diverrebbe soltanto apparente ed il potere conferito al giudice si trasformerebbe da potere discrezionale a mero arbitrio» ( [64] ).  In altre parole, la ratio garantista della norma costituzionale sopracitata impone la fissazione di limiti edittali che soddisfano il principio della riserva di legge «se ed in quando non comportino un’escursione così ampia fra minimo e massimo da tradursi in una completa delega al giudice della quantificazione della sanzione; sarebbe infatti il giudice - e non la legge - ad individuare caso per caso il reale disvalore della condotta punita.  All’organo giudicante è riconosciuto un potere discrezionale nella commisurazione della pena, ma tale potere\dovere dev’essere esercitato all’interno di una scelta normativa già compiuta dal legislatore, e resa esplicita mediante la fissazione di uno spazio edittale dal quale risulti poi la gravità astratta del fatto previsto come reato» ( [65] ).

Se è il giudice a stabilire il grado del disvalore da attribuire alle singole condotte, si confonde il livello normativo della quantificazione del disvalore del fatto (che spetta al legislatore) con quello della commisurazione della pena: viceversa è la norma di legge che deve indicare chiaramente il giudizio espresso dall’ordinamento in relazione al fatto e, dunque, l’ambito all’interno del quale può correttamente esplicarsi la discrezionalità del giudice ( [66] ).   L’indirizzo inaugurato con la sentenza del 1992 schiude, quindi, nuove prospettive al sindacato di costituzionalità del quantum di pena; il controllo non è più svolto alla stregua della sola comparazione dei livelli edittali di fattispecie omologhe o attraverso la verifica dei valori contenuti nella Costituzione, ma è già il principio di legalità che incide direttamente sulla previsione edittale, senza abbisognare di altri strumenti di comparazione.   Il principio di legalità, pur esigendo una precisione della scelta punitiva che si traduca nella fissazione di limiti edittali «distanziati» in modo sufficiente da concedere al giudice un giusto margine di discrezionalità che gli permetta di individualizzare la pena, non tollera limiti edittali così distanziati da aprire la porta al libero arbitrio dell’organo giudicante.

3.3 Il rispetto del principio di determinatezza non sarebbe comunque sufficiente a rendere conforme ai dettami costituzionali una qualunque sanzione penale, dal momento che è altresì richiesto che la pena sia orientata verso finalità di rieducazione del condannato (art. 27 co. 3° Cost.).   Il rispetto di questo terzo parametro richiede che vi sia una proporzione fra il disvalore del fatto e la quantità della sanzione già nella determinazione della comminatoria edittale, per non pregiudicare fin dall’inizio la finalità rieducativa.   

Che la norma costituzionale in parola possa in qualche modo vincolare il dosaggio della pena è una scoperta recente della Corte, frutto di una interessante evoluzione giurisprudenziale.  Quando i giudici di merito hanno sollevato le questioni di incostituzionalità per sanzioni che - essendo assai severe - erano ritenute diseducative, la Corte ha sistematicamente disatteso tali censure, ritenendo che «l’efficacia rieducativa dipende dal trattamento penitenziario e non dal tipo o dalla quantità di pena» che non poteva formare oggetto del sindacato di costituzionalità, trattandosi di materia riservata alla discrezionalità legislativa.

Verso la fine degli anni 80’ l’orientamento dei giudici delle leggi teso a circoscrivere la portata del terzo comma dell’art. 27 Cost. alla sola fase esecutiva venne rovesciato: sulla scia della «storica» sentenza n. 364 del 1988 ( [67] ) che - dichiarando parzialmente illegittimo l’art. 5 cod. pen. nella parte in cui non prevedeva la rilevanza dell’ignoranza scusabile della norma penale violata - aveva equiparato la responsabilità personale alla responsabilità colpevole, facendo (anche) leva sulla funzione rieducativa della pena, nel 1989 i giudici dichiararono l’illegittimità (per contrasto con l’art. 3 co. 1° Cost.) dell’art. 8 co. 2° della L. 772 del 1972 nella parte in cui puniva colui che rifiutava il servizio militare adducendo motivi di coscienza, con la reclusione da due a quattro anni. 

Questa pena era stata considerata dalla Corte illegittimamente sproporzionata rispetto a quella comminata per la similare fattispecie di mancanza alla chiamata alle armi (punita, ex art. 151 cod. pen. m. p., con la reclusione da sei mesi a due anni).

Per la prima volta i giudici delle leggi formularono compiutamente il principio della proporzione stabilendo che «debba essere negata la legittimità alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalità statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all’individuo ed ai suoi diritti fondamentali, sproporzionatamente maggiori rispetto ai vantaggi che la società ottiene dalla tutela dei beni offesi» ( [68] ).  Oltre ad orientare il legislatore nelle scelte di incriminazione, il principio di proporzione può essere impiegato, alla stregua dell’art. 27 co. 3° Cost., per affermare che è necessario un rapporto di misura tra la quantità di pena comminata dal legislatore ed il conseguimento della finalità rieducativa.   Se, da un lato, i caratteri afflittivi e retributivi della pena riflettono quelle condizioni minime senza le quali la pena cesserebbe di essere tale, dall’altro le esigenze di prevenzione generale e speciale sono valori che hanno fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità di rieducazione ( [69] ).

3.4 — L’ultimo parametro costituzionale che viene in rilievo a proposito del sindacato sulla quantità della pena è l’art. 27 co. 1° Cost., dal quale discende il principio nulla poena sine culpa.  Anche in questo caso il leading case fu rappresentato dalla sentenza n. 364 del 1988 nella quale si sancì l’integrale costituzionalizzazione del principio di colpevolezza nel diritto penale.

Ciò implica che «il fatto imputato, perché sia legittimamente punibile, deve includere almeno la colpa dell’agente in relazione agli elementi più significativi della fattispecie» ed è dunque indispensabile che «tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegabili all’agente (siano, cioè, investiti dal dolo o dalla colpa) ed è altresì indispensabile che tutti e ciascuno dei predetti elementi siano allo stesso agente rimproverabili, e cioè anche soggettivamente disapprovati» ( [70] ).   È inoltre di estrema importanza la correlazione individuata dalla Corte tra il primo ed il terzo comma dell’art. 27 Cost., poiché non avrebbe senso la rieducazione di chi, non essendo almeno in colpa (rispetto al fatto) non ha, certo, bisogno di essere rieducato.

Per quanto rileva ai nostri fini è importante che la colpevolezza sia stata posta come limite al potere di intervento statuale in ordine alle conseguenze del rimprovero nei confronti del reo, in quanto l’intensità della reazione punitiva «dev’essere contenuta nella misura del rimprovero colpevole, oltrepassando la quale il fondamento della sanzione non sarebbe più ‘personale’ ma legato a considerazioni del tutto estranee al reo, come pretese di intimidazione generale» ( [71] ).

Il riferimento all’art. 27 co. 1° Cost. sta anche a significare l’illegittimità di quelle previsioni edittali che già in astratto superano il limite della (misura della) colpevolezza: anche in questo caso si tratta di un giudizio di proporzione tra il trattamento sanzionatorio e la gravità del fatto nei limiti segnati dalla colpevolezza.  La sanzione eccessiva perde di credibilità nello stadio della minaccia, poiché «l’aspirazione a guidare i meccanismi umani esige, come minimo, che il destinatario della minaccia possa riconoscere ed evitare la commissione dei fatti che la pena tendeva ad impedire» ( [72] ).  Del resto, anche sotto il profilo della politica criminale, un livellamento delle sanzioni verso l’alto, superiore al grado di colpevolezza, disorienta le coscienze dei destinatari delle norme, che non saprebbero più apprezzare il reale disvalore di fatti puniti con pene omogenee, e dunque verrebbe indebolito il significato di orientamento dell’agire umano su cui fa leva il diritto penale ( [73] ). 

Va inoltre considerato il fatto che nel delineare la cornice edittale il legislatore deve anche tener conto del grado di colpevolezza dell’autore: a parità di bene giuridico, la determinazione del quantum della pena varierà (in senso decrescente) a seconda che il fatto sia commesso con dolo o con colpa ( [74] ).   Non si tratta di una finalità retributiva ma bensì di quella esigenza di giustizia distributiva della potestà punitiva statale in rapporto alle fattispecie criminose, reclamata anche dalla finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene ed alle misure di sicurezza.

Concludiamo questa prima parte con alcune brevi considerazioni in ordine al ruolo del controllo della Corte Costituzionale nella dosimetria della pena.  Le numerosissime eccezioni di incostituzionalità sollevate dai giudici di merito sono un chiaro sintomo dell’eccessivo rigore sanzionatorio che serpeggia nel codice Rocco.  La Corte ha sempre esitato ad esercitare in questo campo i propri poteri, forse anche a ragione, non volendo rischiare di interferire con le (insindacabili) scelte politiche compiute dal legislatore.

D’altra parte le sollecitazioni provenienti dai giudici e dalla dottrina, che da anni denunciano queste carenze, non sono state raccolte dal legislatore che, al contrario, oscilla pericolosamente fra gli opposti poli del rigorismo e dell’indulgenzialismo, quasi «costringendo» il giudice a svolgere - suo malgrado - l’indebito ruolo del supplente.

Nonostante gli sforzi di ortopedia interpretativa per smussare gli spigoli più acuti del sistema, la Corte Costituzionale non può comunque supplire all’inerzia del legislatore.  È quindi auspicabile una (tempestiva) riforma dell’intero codice penale che provveda ad un’analitica descrizione dei reati e delle relative pene, perché solo allora si potrà veramente sapere se siano stati (o meno) rispettati i principi costituzionali ( [75] ).

4. L'art. 133 cod. pen. nella giurisprudenza di merito e di legittimità  — Prima addentrarsi nell’analisi dei rapporti tra teoria e prassi giudiziaria, occorre sintetizzare in quattro punti le acquisizioni fondamentali della dottrina italiana in ordine alla teoria della commisurazione della pena: a) la discrezionalità del giudice nella commisurazione della pena ha natura giuridicamente vincolata, come si evince non solo dalla presenza di limiti esterni (rappresentati dalla cornice edittale fissata dalla legge per ciascun reato) ma anche di limiti interni (quelli indicati nell’art. 133 cod. pen.) e dall’obbligo di motivazione sancito dall’art. 132 co. 1° cod. pen. it.   b) Dal precedente assunto discende il seguente corollario: la fattispecie legale va intesa «come una scala continua di sottofattispecie, nella quale è compito del giudice collocare il caso concreto, per poi identificare la pena corrispondente all’interno della cornice edittale» ( [76] ).  c) Nella valutazione della concreta fattispecie, il giudice non si può affidare esclusivamente ai criteri (fattuali) elencati nell’art. 133 cod. pen. it., ma deve integrarli con uno o più criteri finalistici.  Questa esigenza riflette la ambiguità di alcuni parametri fattuali dell’art. 133, che si prestano a diversi significati a seconda della finalità che si intende perseguire al momento della commisurazione della pena.  È d’altronde acclarato che «non esiste una pena adeguata ad un caso concreto come tale, in assoluto, ma piuttosto una pena adeguata ad un determinato scopo: la retribuzione, la prevenzione generale o quella speciale possono indurre ad applicare pene molto diverse tra loro anche se riferite alla medesima fattispecie concreta» ( [77] ).    Una soluzione appagante potrebbe venire solo dal legislatore, ma poiché sul punto l’art. 133 tace, spetta all’interprete ricostruire le funzioni della pena nel momento commisurativo, prestando particolare attenzione ai principi costituzionali. d) Si ritiene infine che l’obbligo sancito dall’art. 132 sia rispettato solo se la motivazione sia redatta in modo tale da far emergere l’iter logico seguito dal giudice, dunque individuando i criteri fattuali che hanno contribuito ad orientarne le scelte e le finalità assegnate alla pena.

4.1  Le oscillazioni della Cassazione ed il ‘new deal’ inaugurato dalla I sezione — Per saggiare il grado di permeabilità della prassi alle indicazioni fornite dalla dottrina, il primo punto prospettico è offerto dalla giurisprudenza dei giudici di legittimità in ordine agli artt. 132-133 cod. pen. it.   È interessante notare che in relazione a ciascuno dei quattro punti sopra evidenziati la Cassazione ha spesso fornito indicazioni che contraddicono gli auspici della dottrina.

In ordine ai poteri discrezionali del giudice nella commisurazione della pena, la Cassazione afferma ripetutamente che «l’irrogazione della pena nella sua concretezza costituisce, più che un processo logico, il risultato di una intuizione, conseguente ad una valutazione globale dei fatti e della personalità del reo, incensurabile in Cassazione se congruamente motivata» ( [78] ), ponendosi in antitesi col principio di «discrezionalità giuridicamente vincolata» affermato dalla dottrina e «riducendo tra l’altro la motivazione ad un inutile orpello» ( [79] ).

Un contrasto netto, anche se non conclamato, fra dottrina e giurisprudenza è sorto in relazione al significato da attribuire al concetto di fattispecie legale ed alla corrispondente cornice edittale.    Non v’è infatti traccia, nelle sentenze della Cassazione, di censure nei confronti della tendenza dei giudici di merito a muoversi in sede di commisurazione della pena non dal medio, ma bensì dal minimo edittale ( [80] ).

Per quanto riguarda l’individuazione dei criteri finalistici assegnati alla pena che dovrebbero guidare la scelta dell’organo giudicante, la Cassazione assume un atteggiamento che potremmo definire di «indifferenza», dal momento che solo in alcune isolate (e risalenti) pronunce si parla espressamente della «pena come retribuzione» e «si individua la sua finalità precipua nella rieducazione sociale del condannato» ( [81] ), non intravvedendosi un modello giurisprudenziale che metta ordine fra le finalità della pena (simile alla Spielraumtheorie affermatasi in Germania).

La più vistosa discrasia fra la dottrina e la prassi giurisprudenziale si registra in ordine ai caratteri della motivazione che deve fornire il giudice, essendo numerose le sentenze dei giudici di legittimità a favore di motivazioni non specifiche, «cioè ridotte a apodittiche qualificazioni della pena come equa, congrua o adeguata, ovvero all’affermazione, altrettanto insignificante, secondo la quale il giudice ha valutato tutti gli elementi di cui all’art. 133 cod. pen.» ( [82] ). 

Lo sconcerto maggiore per l’interprete non nasce tuttavia da questo atteggiamento di chiusura della Cassazione ma, a mio avviso, dalla coesistenza di orientamenti contrastanti in ordine a ciascun punto sopra evidenziato.  Infatti sulla natura dei poteri discrezionali del giudice la Corte, dopo aver accolto in una decisione del 1986 il concetto di «discrezionalità vincolata» ( [83] ), l’anno successivo ritorna sul tema negando che «la discrezionalità rappresenti la espressione di folgorazioni intuitive, troppo affini a pulsioni psichiche sottratte, per loro natura, ad ogni regolamentazione normativa e d’indiscutibile natura irrazionale» e proponendone una nozione di «pura, essenziale operazione intellettuale, disciplinata dai canoni della logica e della razionalità, i soli praticabili nei comportamenti applicativi delle prescrizioni normative» ( [84] ).

Anche la tendenza dei giudici di merito ad assumere il minimo edittale quale punto di partenza ed addirittura quale normale approdo nella commisurazione della pena, non trova un avvallo costante nella giurisprudenza della Cassazione, dal momento che in alcune recenti decisioni si afferma che «quando la pena è comminata fra un minimo ed un massimo, il giudice deve attenersi, in linea di principio, ad una misura media» ( [85] ).

Senza dubbio il principale difetto dell’art. 133 è concordemente ravvisato nella mancanza di indicazioni in ordine ai criteri che dovrebbero guidare il giudice nella fase della commisurazione della pena: va tuttavia segnalato un filone - che ha ormai assunto una certa consistenza - secondo il quale «la rieducazione del reo deve essere annoverata fra i fini della pena nel momento commisurativo» ( [86] ).    È incoraggiante che i progressi più significativi verso l’elaborazione di un compiuto modello di criteri finalistici si registrino già a livello di giurisprudenza costituzionale: si consideri, ad es., la già citata sentenza n. 313 del 26 giugno 1990 (che ha dichiarato la parziale illegittimità dell’art. 444 co. 2° cod. proc. pen.) nella quale «la Corte Costituzionale ha condotto un’approfondita riflessione sul problema dei fini della pena, prendendo le mosse dal ripudio della concezione ‘polifunzionale’ che in passato rappresentava un vero e proprio caposaldo della giurisprudenza»:  affermando con vigore che «il fine rieducativo non investe solo la fase esecutiva, ma anche il momento legale e quello giudiziale della sanzione» la Corte approda infatti «ad una teoria della pena incentrata sulla rieducazione che non assegna alcuno spazio all’idea retributiva e relega la prevenzione generale ad un ruolo soltanto accessorio, e sottolinea l’essenziale collegamento col principio di proporzione (fra la qualità e quantità della pena, da un lato, e l’offesa, dall’altro), con ciò sbarrando la strada alle suggestioni che, sulla base di mal intese istanze di prevenzione speciale, potrebbero essere esercitate da pene eccedenti la misura della colpevolezza» ( [87] ).     La Corte prende le distanze in modo netto dalla precedente elaborazione concettuale non per negare che la pena possa contemporaneamente assolvere finalità diverse, ma piuttosto per rivendicare un preciso rapporto di rango fra tali finalità.

Quanto ai caratteri afflittivi e retributivi si tratta, secondo la Corte, «di profili che riflettono quelle condizioni minime senza le quali la pena cesserebbe di essere tale»; della prevenzione generale e della difesa sociale - intendendosi con quest’ultima formula la “soddisfazione di bisogni collettivi di stabilità e di sicurezza” - si afferma che «si tratta bensì di valori che hanno un fondamento costituzionale, ma non tale da autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa (...). È dunque nell’art. 27 co. 3° Cost. parte seconda che va individuato il fine, se non esclusivo, certamente primario della pena, che deve operare nella fase legale, giudiziale ed esecutiva» ( [88] ).

Tornando alla giurisprudenza di legittimità, è nel campo dell’obbligo di motivazione sancito dall’art. 132 cod. pen. it. che sono state compiute negli ultimi anni le scelte più innovative.    Un particolare risalto ebbe una decisione del 1987 nella quale si denunciò «la concreta abrogazione dell’art. 132 cod. pen. per desuetudine e, di conseguenza, dell’art. 133»; di qui le censure mosse sia nei confronti delle formule stereotipate ricorrenti nella giurisprudenza di merito, «inidonee ad individuare i criteri di valutazione della gravità del reato e della capacità a delinquere dell’imputato (...) come referenti del processo logico seguito dal giudice per la determinazione della pena», sia nei confronti della tecnica di motivazione implicita che «misconosce l’autonomia ontologica del procedimento da espletare per la determinazione individualizzata della pena» ( [89] ).

Chiarito che il disposto dell’art. 132 co. 1° seconda parte rappresenta una specificazione del precetto costituzionale in base al quale tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati (art. 111 Cost.) e che la motivazione «deve intendersi come lo strumento predisposto dalla legge per il controllo democratico di un potere di cui è titolare il popolo», la Corte individua nella generalità, nella indisponibilità e nella completezza le caratteristiche dell’obbligo di motivazione.  Così argomentando non solo i giudici di legittimità ribaltano le proprie opzioni tradizionali sull’art. 132 cod. pen. it. ma, nel contempo, aderiscono integralmente alle tesi elaborate dalla dottrina più attenta a queste problematiche.  Non siamo al cospetto di una decisione isolata ma del nucleo di un filone che comincia a delinearsi nella giurisprudenza della prima sezione: in una decisione del 1989 si legge infatti che il collegamento tra l’art. 132 ed il 133 «evidenzia il conferimento al giudice di un potere discrezionale (...) il cui uso intanto è corretto e legittimo in quanto “garantito” da una motivazione dalla quale risulti che i parametri elencati nell’art. 133 sono stati sostanzialmente ed in concreto presi in esame e valutati, quale che sia la misura della pena inflitta.  Gli indici contenuti nell’art. 133 sono pertanto elusi allorquando il giudice, valutando la responsabilità di molteplici imputati e per reati anche diversi per alcuni di essi e diversamente circostanziati, per tutti indistintamente si limita al generico riferimento “alle circostanze di cui all’art. 133” ed alla “particolare gravità dei reati” e della personalità degli imputati» ( [90] ). 

4.2  La divisione per “fasce di criminalità” delle decisioni dei giudici di merito — Analizzando l’orientamento ermeneutico seguito dalla giurisprudenza di merito emerge un approccio al problema della commisurazione della pena differenziato per fasce di criminalità, distinguendo la “grande” criminalità da quella “di massa”.   In relazione al primo fenomeno si possono prendere le mosse da due decisioni che, all’epoca dei fatti, suscitarono molto scalpore: il delitto Ramelli ed il disastro di Stava.

Il primo caso, deciso dalla Corte di Assise di Milano con sentenza del 16 maggio 1987, aveva ad oggetto un omicidio qualificato come preterintenzionale ai sensi dell’art. 584 cod. pen it. ( [91] ).   Una serie di criteri fattuali (quali le modalità dell’azione, l’intensità del dolo, il grado di cultura degli imputati e l’inoffensività della vittima) fu addotta dalla Corte nella sintetica -  ma affatto carente - motivazione a sostegno della scelta di muovere dal massimo edittale della pena.   Nella sentenza di secondo grado (pronunciata dalla Corte di Assise e di Appello di Milano il 2 marzo 1989) il fatto fu riqualificato come omicidio volontario e si assunse come pena base il minimo edittale.  In questo frangente l’attenzione dei giudici si spostò dai criteri fattuali considerati in primo grado ai criteri finalistici dei quali è intrisa la motivazione: si sottolinea infatti che «l’inserimento degli imputati nella vita sociale del Paese è stato completo; ciò comporta che nella determinazione della pena si tenga conto solo della insopprimibile funzione punitiva della stessa, poiché l’altrettanto primaria funzione rieducativa non ha ragione di esistere, in quanto nessuno degli imputati ne appare abbisognevole» ( [92] ).

La sentenza relativa al disastro di Stava (tribunale di Trento, 8 luglio 1988) dichiarò gli imputati colpevoli dei delitti di omicidio colposo plurimo e di disastro colposo in concorso formale fra loro e i giudici assunsero quale reato-base l’art. 589 cod. pen. it.  Nella motivazione v’è un ampio quadro dei criteri fattuali, alcuni dei quali - la gravità del danno e l’allarme sociale provocato - sono solo accennati, mentre altri - come il grado della colpa e la capacità a delinquere - costituirono oggetto di un’approfondita disamina.   Il tribunale non tralasciò l’analisi dei criteri finalistici, dal momento che «dichiara la priorità della prevenzione generale e della rieducazione, a detrimento dunque del criterio retributivo» al punto che «il recupero sociale degli imputati appare raggiungibile senza dover pervenire ad una commisurazione della pena nei massimi livelli ipotizzabili» ( [93] ).    Stupisce lo iato concettuale fra la coerenza e la completezza della motivazione sulla misura della pena ed il dispositivo della sentenza: un panorama di criteri fattuali almeno in parte favorevoli agli imputati ed una scelta a favore della loro rieducazione, faticano a conciliarsi con la soluzione sanzionatoria prescelta al momento della commisurazione della pena in senso stretto (infatti i giudici, anche in secondo grado, assunsero come pena base il limite edittale massimo dell’art. 589).

È forse plausibile ipotizzare che questa aporia sia il frutto della particolare attenzione che i fatti oggetto del giudizio suscitarono nell’opinione pubblica, in risposta «a quella domanda di punizione promanante dal corpo sociale che la Corte di appello tentò invano di esorcizzare».  Ciò consente di spiegare perché i giudici abbiano riposto una cura inusuale nella stesura della motivazione «quasi a voler fotografare l’iter logico che ha condotto alla fissazione della pena, per rendere ragione all’opinione pubblica della impraticabilità di soluzioni ancor più rigorose» ( [94] ).

Sulla scia di queste decisioni si può affermare che sembra esistere un filone attento alla commisurazione della pena in aderenza con l’orientamento che, in sede di legittimità, è stato inaugurato di recente dalla I sezione: nel caso Stava, ad esempio, furono valutati non solo i criteri fattuali dell’art. 133 cod. pen. it. ma anche quelli finalistici, ponendo spesso l’accento sulla finalità rieducativa della pena, anche se non si può escludere che nel commisurare la pena i giudici siano stati influenzati dalla risonanza sociale dell’episodio sottoposto al loro giudizio.

Per quanto riguarda invece il fenomeno della criminalità “di massa” si assiste ad una tendenza verso la standardizzazione della misura della pena, che si manifesta in modo assai netto in materia di furti nei grandi magazzini e di furti delle autoradio: in relazione a queste ipotesi la giurisprudenza individua - entro la cornice edittale del delitto di furto - cornici di pena assai più ristrette, delineando nella prassi vere e proprie “pene-tariffa”.   Ciò emerge sia dalla diretta osservazione di un campione di sentenze pronunciate dal pretore di Milano fra il 1980 ed il 1989, che dalla ricerca svolta da un gruppo di magistrati ed avente ad oggetto i giudizi direttissimi celebrati nel corso di un bimestre del 1985 ( [95] ).

Forse il profondo divario che si delinea fra la prassi e la teoria della commisurazione della pena in ampie fasce di “piccola” criminalità trova le sue più significative cause nell’immobilismo del legislatore e nel carattere di “massa” di alcune figure di reato, che sospinge con forza verso la ricerca di tecniche semplificate di quantificazione.  

In conclusione, per quanto riguarda la funzione della pena in seno all’art. 133 cod. pen. it., sembra si possa affermare che mentre la giurisprudenza di legittimità sembra ormai aver superato il tradizionale atteggiamento di contrapposizione frontale con la dottrina, a livello di giurisprudenza di merito gli artt. 132-133 cod. pen. it. risultano ancora frequentemente elusi «cedendo piuttosto il passo a tecniche di commisurazione standardizzate ovvero ad intuizioni equitative del tutto incontrollabili» ( [96] ).

5. Cenni sul sistema sanzionatorio nella relazione della Commissione Grosso — In relazione al sistema sanzionatorio attualmente vigente, la Commissione ministeriale per la riforma del codice penale, istituita con decreto del 1 ottobre 1998 e presieduta dal Prof. C.F. Grosso, è stata unanime nel ritenere l’assoluta urgenza di una profonda revisione del sistema attualmente in vigore, caratterizzato da una «insostenibile situazione di incertezza e di ‘imprevedibilità’ della sanzione concretamente scontata dal condannato, dovute alla eccessivo potere discrezionale concesso al giudice penale in sede di determinazione in concreto della pena, alla mancanza di criteri guida affidabili in ordine a tale determinazione, al sovrapporsi disordinato di interventi normativi di diritto penale sostanziale, penitenziario e processuale penale in materia di irrogazione ed esecuzione delle pene, al gioco spesso irrazionale e contraddittorio di istituti premiali, di facili perdonismi, di istituti di prevenzione speciale disciplinati con non sufficiente rigore nei presupposti della loro applicazione» ( [97] ).

Sulla base di questa prima considerazione, i membri della Commissione hanno concordato che fra gli obiettivi base di una riforma del sistema delle pene dovrebbero essere considerati «la configurazione di un quadro normativo organico che attui una semplificazione ed una razionalizzazione della legislazione vigente», la conseguente delineazione di un sistema di sanzioni penali «caratterizzato dai requisiti della certezza e prevedibilità dei risultati» e che circoscriva, quanto più possibile, gli scarti tra «quanto avviene al momento della irrogazione della pena e ciò che si verifica al momento della sua esecuzione».

Il presupposto primario per ottenere questo risultato è individuato nel forte ridimensionamento del potere discrezionale del giudice, che «muova da una indicazione di carattere generale che imponga, nella revisione della parte speciale, la adozione di cornici edittali assai più contenute di quelle attuali» (nello stesso senso si era già pronunciato chiaramente lo schema di legge-delega Pagliaro), per arrivare a «significative riduzioni dei margini di discrezionalità giudiziale in istituti quali il concorso delle circostanze eterogenee, il concorso formale di reati e la continuazione nel reato».

Per quanto riguarda la pena detentiva, la Commissione ritiene che la riforma del codice penale dovrebbe orientarsi lungo alcune direzioni fondamentali, mantenendo ferma la centralità della pena detentiva come risposta sanzionatoria per i reati di rilievo, misurata comunque secondo parametri di minore gravità rispetto ai livelli di previsione vigente.

A fianco alla pena detentiva, viene poi previsto un articolato complesso di pene diverse dalla detenzione in carcere, intese quali pene principali, che debbono essere configurate in luogo (o in alternativa) a quella detentiva dalla singola norma penale incriminatrice per i reati con riferimento ai quali esigenze di politica criminale «consentono, o addirittura consigliano, la rinuncia alla pena detentiva, quanto meno in prima battuta».

Si ritiene inoltre importante evitare che la pena sia preda troppo agevole di istituti vanificatori applicati con automatismi e senza particolari condizioni (si pensi alla attuale disciplina della sospensione condizionale della pena).

In ordine alla pena della reclusione, la Commissione ministeriale ritiene che occorra una revisione delle cornici edittali in grado di eliminare l’eccessivo potere discrezionale del giudice nella determinazione concreta della pena: in particolare, nella determinazione dei minimi e dei massimi edittali individuabili nei confronti di ciascun reato, si dovrebbero d’altronde introdurre criteri di razionalizzazione, quali «la previsione di ‘classi’ di reati con cornici edittali standardizzate, ovvero indicazioni di massima in ordine al rapporto che deve intercorrere tra il minimo ed il massimo della pena».

Per quanto riguarda, invece, la pena pecuniaria, la Commissione rileva, in primo luogo, la sua attuale pressocchè totale inefficacia: infatti quando essa è sospesa condizionalmente, non esercita alcuna funzione preventiva, mentre fuori dai casi di oblazione emerge che la multa e l’ammenda risultano in larghissima parte non eseguite. 

Muovendo da tali considerazioni, si ritiene che si possa procedere ad un primo gruppo di proposte di riforma aventi come obiettivo il mantenimento della pena pecuniaria ma escludere, in via di principio, l’applicazione congiunta con la pena detentiva (come già era stato proposto nel Progetto Pagliaro).

Si propone inoltre di assegnare alla pena pecuniaria dei limiti edittali non irrisori e, soprattutto, di escluderla dalla sfera di applicazione della sospensione condizionale della pena, ammettendo nel contempo che essa possa essere prevista come alternativa rispetto alla pena detentiva, nella prospettiva di un allargamento dell’oblazione ai delitti puniti con la pena pecuniaria alternativa.

La Commissione ha inoltre discusso sull’opportunità di utilizzare il meccanismo dei tassi giornalieri previsto dal progetto Pagliaro: anche se alcuni commissari si sono dichiarati favorevoli all’introduzione di questo sistema, utilmente sperimentato in altre legislazioni europee, la maggioranza dei componenti della Commissione, pur ritenendo che in astratto si tratti di un modello ineccepibile, ha espresso forti perplessità sulla opportunità di inserirlo nel contesto italiano, stante le peculiari caratteristiche del nostro sistema fiscale, che non è in grado di assicurare certezza sui redditi.

In ordine alla commisurazione della pena, si è rilevato che la disciplina vigente, caratterizzata da un’opzione teorica apparentemente ispirata ad un modello di discrezionalità vincolata, in realtà si risolve in una situazione concreta contraddistinta da una discrezionalità incondizionata del giudice, che finisce per eludere le più elementari esigenze di legalità e di certezza del diritto.  Le cause di questa situazione sono state individuate da un lato nella stessa legislazione penale che, «nell’art. 133 cod. pen., enuncia criteri di carattere omnicomprensivo, e pertanto già di per sé poco orientativi, non indica chiavi di lettua finalistiche degli stessi, consentendo quindi possibili utilizzazioni di segno diverso, prevede dei limiti edittali di pena troppo ampi, consentendo margini eccessivi di discrezionalità già con riferimento alla determinazione della pena in concreto per i singoli reati».

Dall’altro lato è stata denunciata la instaurazione di una prassi giurisprudenziale nella quale l’obbligo di motivazione viene largamente eluso, per cui i criteri seguiti concretamente dal giudice non sono, di regola, leggibili.

In relazione ai criteri cui ancorare l’utilizzazione del potere discrezionale entro confini assai più circoscritti (che dovrebbero scaturire dalle summenzionate modifiche legislative) la Commissione, pur concordando con la necessità di superare la disciplina dell’art. 133 cod. pen. it. sia con riferimento alle indicazioni di cui al primo comma, sia con quelle di cui al secondo comma, nella discussione plenaria «ha rivelato un certo scetticismo in ordine alla possibilità di suggerire criteri in grado di orientare con assoluta univocità il giudice», ritenendo comunque possibile elaborare delle formulazioni che «recependo le indicazioni desumibili dalla più moderna dottrina penalistica e dalla scelte operate da alcuni recenti codici europei (tedesco, austriaco, portoghese, spagnolo, italiano), per la determinazione in concreto della pena fanno riferimento al primato del principio di colpevolezza per il fatto commesso ed alla considerazione, agli effetti di una possibile attenuazione della responsabilità penale individuata tenendo conto della colpevolezza per il fatto» con l’ulteriore precisazione che «dev’essere esclusa la considerazione della prevenzione generale, che può porsi sicuramente come criterio generale di configurazione delle fattispecie di reato e delle relative pene astratte, ma non come legittimo criterio di commisurazione della pena».



( [1] ) Si veda, ex ceteris, il saggio di G. Fiandaca, Il «bene giuridico» come problema teorico e come criterio di politica criminale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale., 1982, p. 42.

( [2] ) M. Romano, «Meritevolezza di pena», «bisogno di pena» e teoria del reato, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1992, p. 39 ss.

( [3] ) Ibidem, p. 41.

( [4] ) K. Volk, Entkriminalieserung durch Strafwürdigkeitskriterien jenseit des Delitktssaufbaus, in ZStW, 1985, p. 877.   Sulla funzione valutativa del diritto penale si veda F. Antolisei, Manuale di iritto penale. Parte generale, Milano, 1987, p. 41.

( [5] ) In senso critico vedi K. Volk, op. cit., p. 886 e M. Romano, op. cit., p. 43.

( [6] ) H. Schmidhäuser, Zur Systematuk der Verbrechenslehre, in Gedächtnisschrift für Radbruch, 1968, p. 279.

( [7] ) Cfr. T. Padovani, La disintegrazione attuale del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1992, p. 419 ss.

( [8] ) Cfr. L. Ferrajoli, Diritto e ragione - Teoria del garantismo penale, Bari, 1989, p. 396.

( [9] ) Vedi G. Bettiol, Diritto penale. Parte generale, Padova, 1982, p. 746.

( [10] ) Il § 46 StGB recita «La colpevolezza dell’autore è il fondamento della commisurazione della pena. Sono da considerare gli effetti che è possibile attendersi dalla pena per la futura vita sociale dell’autore».  Per approfondimenti sui criteri di commisurazione della pena nel diritto penale tedesco si rinvia a G. Fornasari, I principi del diritto penale tedesco, Padova, 1994, p. 499, in Casi, fonti e studi per il diritto penale, raccolti da S. Vinciguerra

( [11] ) L’art. 63 del codice penale svizzero dispone che «Il giudice commisura la pena secondo la colpevolezza dell’agente, tenendo conto dei motivi, dei precedenti e della situazione personale del colpevole», mentre il § 32 del codice austriaco stabilisce quanto segue: «Fondamento della commisurazione della pena è la colpevolezza dell’agente \ Nella commisurazione il giudice deve soppesare gli elementi aggravanti ed attenuanti, in quanto non siano già stati considerati nella comminatoria legale. Si deve innanzitutto considerare in quale misura il fatto debba ricondursi ad un atteggiamento di rifiuto o di indifferenza da parte dell’agente rispetto ai valori giuridicamente protetti, ed in quale misura invece a circostanze esteriori o motivi per i quali lo stesso fatto potrebbe essere anche compiuto da un soggetto che aderisca ai valori tutelati dall’ordinamento \ In generale la pena deve commisurarsi tanto più rigorosamente quanto maggiore è il danno o il pericolo che l’agente ha colpevolmente cagionato; quanto più obblighi ha violato col suo operato; quanto più accuratamente ha ponderato il proprio fatto, quanto più scrupolosamente lo ha preparato, oppure quanto più spregiudicatamente lo ha realizzato e quanto meno è stato possibile premunirsi contro il fatto».   Le norme citate sono tratte da E. Dolcini, La commisurazione della pena, Padova, 1979, p. 30.

( [12] ) In effetti l’ampia varietà dei tipi di pena unita alla notevole discrezionalità attribuita al giudice nella loro scelta e commisurazione sono i due aspetti di maggior diversità del sistema inglese rispetto a quello continentale.  Si tratta, per il primo, del punto di arrivo di una lunga evoluzione storica che ha subito la common law dalle esigenze di garanzie che derivavano dal principio di legalità.   Tranne che per alcuni reati molto gravi (come il murder, l’alto tradimento e l’incendio di navi o di arsenali di Sua Maestà) la cui pena è stabilita direttamente dalla legge, in linea di principio non viene fissato in modo vincolante il tipo di pena da applicare, ed anche nella commisurazione della stessa la discrezionalità dell’organo giudicante è assai estesa.  Per approfondimenti vedi S. Vinciguerra, Introduzione allo studio del diritto penale inglese. I principi, Padova, 1992, p. 321 ss.   

( [13] ) F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale, Milano, 1965, p. 80.

( [14] ) Efficacemente A. Malinverni -  Motivi, voce in Enciclopedia del Diritto, vol. XXVII, Milano, 1977, p. 293 - disse, riferendosi all’art. 133 cod. pen. it., che si trattava «di un colosso dai piedi di argilla».

( [15] ) Cfr. F. Bricola, La discrezionalità, cit., p. 76 e p. 99.

( [16] ) Vedi E. Dolcini, La commisurazione, cit., p. 42.

( [17] ) G. Bellavista, Il potere discrezionale del giudice nell’applicazione della pena, Milano, 1939, p. 196 ss.

( [18] ) F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1996, p. 521.

( [19] ) Così B. Petrocelli, Principi di diritto penale, Napoli, 1964, p. 127.

( [20] ) P. Nuvolone, La capacità a delinquere nel sistema del diritto penale, Piacenza, 1942, p. 588.

( [21] ) G. Bettiol, Diritto penale, cit., p. 320 ss.

( [22] ) E. Morselli, Il significato della capacità a delinquere per l’applicazione della pena, p. 1363 ss.

( [23] ) B. Petrocelli, Principi di diritto penale, p. 126.

( [24] ) F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte generale, cit., p. 523 ss. e 585; F. Bricola, La discrezionalità nel diritto penale, cit., p. 83.

( [25] ) Cfr. Relazione del Guardiasigilli al progetto definitivo di un nuovo codice penale, in Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, V, parte I,  Roma, 1929, p. 190.

( [26] ) In tal senso vedi M. Romano, G. Grasso, Commentario sistematico del codice penale, Milano, 1990, p. 290.  Secondo tali Autori la spiegazione di questo costume è rinvenibile in alcuni fattori del sistema vigente, come la sempre minor corrispondenza del codice e della legislazione penale complementare alla tavola dei valori costituzionali, o come l’elevatezza dei limiti edittali che induce il magistrato, almeno tendenzialmente, ad attestare la sua scelta sui livelli minimi di pena, nonché il distacco, anch’esso eccessivo, tra il limite edittale minimo e quello massimo.

( [27] ) E. Dolcini, La commisurazione, cit., p. 18.

( [28] ) M. Romano, G. Grasso, Commentario sistematico, cit., p. 292.

( [29] ) Ibidem, p. 293. Questi Autori, in vista d’una modifica dell’art. 133 cod. pen. it., sostengono che si potrebbero considerare due modelli alternativi di commisurazione della pena: il primo nega qualsiasi rilievo alla prevenzione generale ed assegna un ampio spazio a quella speciale, affermando che «la pena pari alla colpevolezza si applica solo in quanto appaia necessariua a ricondurre l’autore ad  una vita nella società conforme alla legge penale».   Il secondo modello, invece, preclude ogni spazio sia alla prevenzione generale che speciale, facendo dipendere il quantum di pena unicamente dalla colpevolezza, relegando le istanze preventive alla fase della commisurazione della pena in senso lato.

( [30] ) Cfr. A. Malinverni, Capacità a delinquere, cit., p. 120.

( [31] ) Cfr. G. Vassalli, Funzioni ed insufficienze della pena, cit, p. 322 ss.

( [32] ) Sulle finalità della pena vedi soprattutto E. Dolcini, Appunti sul limite della colpevolezza nella commisurazione della pena, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1975, p. 1161 ss.

( [33] ) E. Dolcini, La commisurazione, cit., p. 52.   Si registra un ulteriore orientamento - espresso da F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 628 ss. - incline ad individuare una duplice funzione della capacità a delinquere: da un lato quella di graduazione della colpevolezza (sul presupposto che tanto è più riprovevole il fatto, quanto maggiore è l’attribuibilità morale del fatto allo stesso autore) e dall’altro una funzione prognostica diretta ad accertare la potenzialità criminosa del soggetto in termini di prevenzione speciale,

( [34] ) Ibidem, p. 57.

( [35] ) G. Insolera, La politica criminale nei discorsi dei Procuratori Generali, in La questione criminale, 1975, p. 289.   

( [36] ) F. Bricola, W. Zagrebelsky, Giurisprudenza sistematica di diritto penale, vol. III, Torino, 1984, p. 1056.

( [37] ) I giudici delle leggi, rivoluzionando i propri consolidati orientamenti in tema di funzioni costituzionali della pena, affermarono che «la necessità costituzionale che la pena debba tendere a rieducare (...) indica proprio una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico e l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue».  La decisione è riportata in Cassazione Penale., 1990, II, p. 221.

( [38] ) Cfr. E. Dolcini, Razionalità nella commisurazione della pena, cit., p. 810 ss.

( [39] ) Vedi G. Fiandaca, E. Musco, Diritto penale. Parte generale, cit., p. 588.

( [40] ) Cfr. L. Monaco, C. E. Paliero, Variazioni in tema di «crisi della sanzione»: la diaspora del sistema commisurativo, in Rivista di Diritto e Procedura Penale, 1994, I, p. 421.

( [41] ) F. Mantovani, Diritto penale, cit., p. 656.

( [42] ) Cfr. L. Monaco, C. E. Paliero, op. cit., p. 430.

( [43] ) Ibidem, p. 436.

( [44] ) Cfr. D. Pulitanò, Politica criminale, voce in Enciclopedia del Diritto, XXXIVm 1985, p. 100.

( [45] ) Così A. Dell’Andro, Il dibattito delle scuole penalistiche, in Primo corso di perfezionamento per uditori giudiziari, I, 1958, p. 566.

( [46] ) Tra i primi studiosi che hanno delineato il «volto costituzionale» del sistema penale F. Bricola, Teoria generale del reato, voce in Novissimo Digesto Italiano, vol. XIX, 1973, p. 8 ss.

( [47] ) Vedi la sentenza n. 218 del 1974 pubblicata in Giurisprudenza Costituzionale, 1974, II, p. 11 nonché la n. 341 del 1994, in Il foro italiano, 1994, I, c. 2585, con nota di G. Fiandaca.

( [48] ) Cfr. S. Corbetta, La cornice edittale della pena ed il sindacato di legittimità costituzionale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1, 1997, p. 135.

( [49] ) Vedi sentenza n. 26 del 1979, in Giurisprudenza Costituzionale, 1979, I, p. 288.

( [50] ) Cfr. S. Corbetta, op. cit., p. 139.

( [51] ) Per es. nella sentenza n. 1 del 1982, in Il foro italiano, 1982, I, c. 357, con nota di G. Fiandaca, la Corte dichiarò inammissibile la questione di incostituzionalità degli artt. 5 lett. g) e 6 della L. 283 del 1962 nella parte in cui non differenziano le pene comminate per il reato di aggiunta di additivi chimici autorizzati nella preparazione degli alimenti (ma senza l’osservanza delle norme prescritte per il loro impiego) e quello di aggiunta di additivi non autorizzati.  I giudici delle leggi infatti ritennero che in tali disposizioni intese alla tutela del medesimo bene, che si vuole realizzare ad una soglia determinata, vengono presi in considerazione comportamenti diversi ma tutti estrinsecantisi nell’inosservanza delle prescrizioni poste dal legislatore a quel fine.

( [52] ) Sentenza n. 218 del 1974, in Giurisprudenza Costituzionale, 1974, II, p. 11.

( [53] ) Si prenda ad esempio la sentenza n. 285 del 1991 - in Cassazione Penale, 1992, p. 23 ss. con nota di Manzione - che ha dichiarato infondata la questione di illegittimità costituzionale dell’art. 2 co. 2° della L. 36 del 1990 sotto il profilo della irragionevolezza dell’uguale trattamento sanzionatorio del porto di un’arma comune da sparo e quello di un’arma giocattolo priva dell’apposito segno di riconoscimento (il «tappo rosso») in quanto «la norma accomuna nel medesimo trattamento fatti la cui essenziale diversità è innegabile (...).  Infatti mentre l’incriminazione del porto di arma da sparo soddisfa l’esigenza di prevenire il pericolo del compimento di atti offensivi della vita e dell’integrità fisica delle persone, quella delle armi giocattolo confondibili con le prime mira piuttosto a prevenire il pericolo di atti diretti ad intimidire ma inidonei a ledere, sicché il loro disvalore e la loro offensività è sicuramente ridotta».

( [54] ) Ad es. nella decisione n. 22 del 1971, in Giurisprudenza Costituzionale., 1971, p. 135 con nota di Rodotà, la Corte escluse la possibilità di raffrontare il trattamento punitivo del furto e quello della lesione personale, affermando che la diversa efficacia rieducativa della pena non può essere «presa in considerazione rispetto a singoli reati o gruppi di reati».

( [55] ) Cfr. S. Corbetta, op. cit., p. 144.

( [56] ) P. Casavola, La giustizia costituzionale nel 1992, in Il foro italiano, 1993, V, c. 323.

( [57] ) Vedi A. Pizzorusso, Le norme sulla misura delle pene ed il controllo di ragionevolezza, in Giurisprudenza Italiana,  1971, IV, c. 192.

( [58] ) L. Paladin, Corte Costituzionale e principio generale di eguaglianza, in Scritti sulla giustizia costituzionale in onore di V. Crisafulli, I, 1985, p. 609.

( [59] ) Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, Costituzione e politica dei beni giuridici, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1994, p. 333.

( [60] ) È questa la tesi seguita da F. Bricola, op. cit., p. 19.  L’illustre A. sosteneva che «la sproporzione tra misura della sanzione penale e valore del bene tutelato dipende, oltre che da un giudizio quasi inevitabile di raffronto con altri beni costituzionalmente rilevanti e tutelati da altre norme penali, altresì e principalmente dal rapporto di gerarchia (e dalla entità di esso) intercorrente tra bene tutelato e libertà personale sacrificata dalla sanzione penale e quindi non solo da un giudizio estrinseco alla norma penale ma anche un giudizio interno ad essa».

( [61] ) Così Corte Costituzionale, 25 luglio 1994, n. 341, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1996, 3, p. 783.

( [62] ) M. Vecchi, Disvalore dell’oltraggio e comminatoria edittale della pena, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale., 1996, 3, p. 795.

( [63] ) E. Dolcini, Note sui profili costituzionali della commisurazione della penai, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale., 1974, p. 338.

( [64] ) Sentenza n. 299 del 1992, relativa all’art. 122 cod. pen. mil. pace, del quale i giudici delle leggi censurarono l’eccessiva ampiezza della cornice edittale;  questa decisione è riportata da S. Corbetta, op. cit., p. 149.

( [65] ) Ibidem, p. 150.

( [66] ) Così Maizzi, Limiti edittali e principio di legalità: a proposito dell’illegittimità costituzionale dell’art. 122 del codice penale militare di pace, in Giurisprudenza Costituzionale, 1992, p. 4434.

( [67] ) Cfr. G. Fiandaca, Principio di colpevolezza ed ignoranza scusabile della legge penale; «prima lettura» della sentenza 364 del 1988, in Il foro italiano, 1988, I, c. 1385.

( [68] ) Corte Cost., sentenza n. 409 del 1989, in Giurisprudenza Costituzionale, 1989, p. 1906.

( [69] ) In tal senso si è espressa la Corte Costituzionale nella sentenza n. 313 del 1990 in S. Corbetta, op. cit., p. 157.

( [70] ) Cfr. Corte Cost., sentenza n. 364 del 1988, cit.

( [71] ) Vedi D. Pulitanò, Il principio di colpevolezza ed il progetto di riforma penale, in Jus,  1974, p. 521.

( [72] ) S. Corbetta, op. cit., p. 159.

( [73] ) D. Pulitanò, op. cit., p. 523.

( [74] ) G. Marinucci, Non c’è dolo senza colpa. Morte della «imputazione oggettiva dell’evento» e trasfigurazione della colpevolezza?, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1991, p. 26 ss.

( [75] ) Cfr. G. Marinucci, E. Dolcini, Note sul metodo della codificazione penale, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1992, p. 385 ss. sottolineano «l’esigenza che l’opera di codificazione penale sia condotta muovendo da un progetto articolato con la stessa analiticità del futuro codice».   In questa solco sembra porsi anche il disegno di legge presentato dal prof. R. Riz, anche se per ora è limitato alla sola parte generale.

( [76] ) Vedi E. Dolcini, La commisurazione della pena tra teoria e prassi, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale., 1991, p. 56.

( [77] ) Ibidem, p. 56.

( [78] ) Vedi Cass., 9 ottobre 1984, in Rivista  Penale., 1985, p. 440 ss.

( [79] ) E. Dolcini, op. ult. cit., p. 58.

( [80] ) Così Cass. 1 marzo 1985, in Rivista Penale., 1985, p. 35.

( [81] ) In ordine al primo punto vedi Cass., 13 luglio 1966, in Massimario Cassazione Penale, 1966, p. 952; per quanto riguarda la seconda affermazione si veda Cass., 17 ottobre 1950, in Archivio penale, 1951, II, p. 282.

( [82] ) In senso critico vedi Cass., 8 aprile 1986, in Rivista Penale, 1987, p. 134 (il corsivo è nel testo).

( [83] ) Cass., 14 aprile 1986, in Rivista Penale, 1987, p. 502.

( [84] ) Vedi Cass., 14 gennaio 1987, in Rivista  Penale, 1987, p. 631.

( [85] ) Cass., 1 marzo 1985, in Rivista Penale, 1986, p. 335.

( [86] ) Cass., 11 luglio 1985, in Rivista Penale, 1986, p. 737.

( [87] ) E. Dolcini, Razionalità nella commisurazione della pena: un obiettivo ancora attuale?, in Rivista Italiana di Diritto e Procedura Penale, 1990, II, p. 797.

( [88] ) Ibidem, p. 811.   Secondo l’Autore «la sentenza n. 313 del 1990 apre nuove prospettive per l’intera tematica della commisurazione della pena: tale il significato dell’inequivoco riconoscimento che la funzione della pena rappresenta, per così dire, la stella polare della commisurazione» ed è ancor più importante che la Corte si spinga oltre, fornendo indicazioni di merito che si possono così sintetizzare: «primato della prevenzione speciale sotto il limite segnato dal principio di proporzione; ruolo accessorio da riconoscersi alla prevenzione generale, anche in questo caso entro la cornice edittale delimitata, verso l’alto, dalla pena corrispondente alla colpevolezza e verso il basso dal minimo edittale».

( [89] ) Cass., 14 gennaio 1987, sez. I, in Rivista Penale, 1987, p. 631 ss.

( [90] ) Cass., 29 aprile 1989, in Rivista Penale, 1990, p. 181.   Per completezza si consideri che il panorama giurisprudenziale è completato da decisioni - come Cass., 14 novembre 1988, sez. II, in Rivista Penale, 1989, p. 862 - che non sembrano disponibili ad alcun ripensamento, ribadendo che l’obbligo di motivazione «deve considerarsi adempiuto allorché il giudice di merito dichiari di ritenere adeguata la misura della pena prescelta, ciò implicando una valutazione globale di tutti gli elementi indicati nell’art. 133 cod. pen.» e, d’altra parte, non sono nemmeno rare pronunce che, in tema di motivazione, oscillano fra il vecchio ed il nuovo orientamento.  Ad es. Cass., 27 aprile 1989, sez. III - in Rivista Penale, 1990, p. 181 - da un lato fa carico al giudice di «indicare esplicitamente e dettagliatamente i motivi della sua decisione, con specifico riferimento alle modalità del fatto, alla gravità del danno o del pericolo e ad ogni altra circostanza relativa alla capacità a delinquere del reo», ma dall’altro circoscrive la portata di tale principio alla sola ipotesi «in cui il giudice reputi di irrogare una pena molto elevata e prossima al limite edittale massimo».

( [91] ) Il caso riguardava l’uccisione di un giovane, poco meno che diciottenne, inviso alle formazioni politiche della sinistra extra-parlamentare per la sua militanza nel fronte della gioventù.  Nel marzo 1975 Ramelli venne aggredito da un gruppo di studenti della facoltà di medicina che lo colpirono violentemente al capo con strumenti contundenti; ricoverato per un trauma cranico con fuoriuscita di sostanza cerebrale, morì dopo due settimane di coma.

( [92] ) La decisione di secondo grado - che ravvisava gli estremi dell’omicidio volontario commesso con dolo eventuale - venne confermata dalla I sez. della Cassazione (è importante rilevare che si trattava della prima sezione, visto che da essa prese l’avvio il nuovo orientamento ermeneutico in ordine all’art. 133 cod. pen. it. che focalizzava l’attenzione sulle finalità della pena) il 23 gennaio 1990, citata in Cassazione Penale., 1991, p. 1376.    Per ulteriori approfondimenti vedi P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto penale, Padova, 1995, p. 21 ss.

( [93] ) Cfr. E. Dolcini, op. ult. cit., p. 65.

( [94] ) Ibidem, p. 66.

( [95] ) Aa. Vv., La giustizia lampo, in Questione Giustizia, 1986, p. 371 ss.   Per esempio il furto nei grandi magazzini  e quello a bordo di auto erano puniti con pene medie pari, rispettivamente, da venticinque giorni ad un mese e quindici giorni di reclusione: la contiguità fra la pena media e la pena più frequente consente di formulare l’ipotesi di una pena-tariffa di creazione prasseologica.

( [96] ) Cfr. E. Dolcini, op. cit., p. 74.

( [97] ) Cfr. Il sistema delle pene nella relazione della Commissione Grosso, in Questione Giustizia, 1999, 5, pag.882 ss.ti.

 

- Giampaolo NARONTE - Avvocato del Foro di Genova - febbraio 2001

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