Filippo Maria Airaudo, Marco Tonti, Stupefacenti: la vexata quaestio dell'aggravante dell'ingente quantità. Profili di presunta incostituzionalità

La quotidiana esperienza giudiziaria di quanti si imbattono nelle fattispecie penali incriminatrici previste dal D.P.R. 309/90 non può non aver messo avvocati, pubblici ministeri e giudici a confronto con l’interpretazione e l’applicazione della circostanza specifica c.d. dell’ingente quantitativo, prevista dall’art. 80.

E’ indubbio che, fra tutte le aggravanti specifiche volute dal legislatore in materia, quella che comporta un aumento di pena dalla metà a due terzi […] se il fatto riguarda quantità ingenti di sostanze stupefacenti o psicotrope […] risulti la più indeterminata e sibillina; la meno garantista.

Da ricerche effettuate risulta che la questione sia stata esaminata nel 1989 (vigente il vecchio T.U. stupefacenti) dalla S.C. di Cassazione. A quasi tre lustri di distanza, quelle risposte non ci sono sembrate né convincenti, né attuali.

Con lo sforzo di superare quella sorta di acritica “rassegnazione” indotta dalla prassi, dall’abitudine e dall’intensità dei ritmi cui tutti gli operatori di giustizia si trovano oggi sottoposti, ci si è presi il tempo (recte: il lusso) di seguire un istinto, una intuizione o un dubbio nutrito da chissà quanti, per approfondire un poco con la speranza di offrire un contributo di una qualche utilità.

Le pagine che seguono trattano, quindi, del sospetto (serio) di illegittimità costituzionale dell’art. 80 co.2 D.P.R. 309/90 in relazione agli artt. 25 co. 2, 24 co. 2, 111 co. 6, 3 Cost. per indeterminatezza dell’elemento circostanziale del reato, per violazione del diritto di difesa, per carenza di motivazione e per disparità di trattamento rispetto a casi analoghi.

1.      Difetto di costituzionalità per violazione del principio di tassatività-determinatezza in contrasto con l’art. 25 co. 2 Cost.

-        Inconsistenza e genericità dei parametri integrativi di valutazione forniti dalla giurisprudenza

Come è noto, se il fatto di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90 riguarda quantità “ingenti” di sostanza stupefacente o psicotropa, la pena è aumentata dalla metà ai due terzi.

Il dato letterale (punto di partenza di qualsiasi sforzo interpretativo) è di per sé eloquente per rilevare fin da subito una buona dose di indeterminatezza della circostanza, laddove l’unico parametro che si presenta agli occhi dell’interprete è rappresentato dal quantitativo connotato da una aggettivazione tanto indecifrabile, quanto variamente interpretabile.

In termini assolutamente generali, già l’associare un elemento di per sé oggettivo (quantità) ad un parametro di valutazione evidentemente soggettivo in luogo di un altro omogeneo di natura parimenti oggettiva (quale, per regola, un’unità di misura) è operazione sfuggente ed incoerente. A ben vedere, in luogo dell’aggettivo “ingente” il legislatore avrebbe potuto usare qualunque altro termine (elevato, rilevante, molto grande e, perché no, immenso); il problema di tradurre sul piano pratico un discrimine giuridicamente rilevante si sarebbe posto comunque.

V’è chi in dottrina ha battezzato la circostanza di cui si discute nell’alveo delle “aggravanti indefinite”, espressione che pone in luce “l’assenza di una determinazione legale dell’oggetto della valutazione, di guisa che la fattispecie viene messa insieme di volta in volta dal giudice” (F.Bricola -Le aggravanti indefinite- Legalità e discrezionalità in tema di circostanze del reato, Riv. It. 1964 p. 1013 ss.). In altre parole, dinanzi a questa tipologia di aggravanti, l’intervento del Giudice nella determinazione della fattispecie legale diviene fondamentale.

Non pochi sono stati pure gli studiosi che si sono occupati della costituzionalità di simili aggravanti (Bettiol-Pettoello-Mantovani, Dir. Pen., p. 580; lo stesso Bricola, Mantovani, Dir. Pen., p. 380; Romano, Commentario al codice penale, v. I, pag. 601), ma con opinioni diverse e piuttosto risalenti nel tempo.

Il problema è serio ed avvertito da tutti, se è vero che la giurisprudenza di merito e di legittimità si sono sforzate più volte di offrire un criterio interpretativo dotato di una qualche oggettività.

Così si è detto che quell’aggettivo ingente indica uno dei livelli più elevati nella scala degli aggettivi di quantità ed esprimerebbe, quindi, la necessità che questa (da considerarsi allo stato puro ed in base alle dosi in concreto estraibili) sia in grado di soddisfare un notevole numero di tossicodipendenti e per un periodo piuttosto lungo.

Come si vede, aggettivi su aggettivi che importerebbero uno sforzo interpretativo a mo' di catena di S. Antonio; il che non può convincere né far desistere dal ricercare qualcosa di meglio.

La realtà giudiziaria ha ormai insegnato un’esperienza tanto empirica quanto semplice; ciò che è ritenuto ingente dal Giudice Tizio può benissimo non essere altrettanto per il Giudice Caio; statistiche estrapolate dalla casistica di un certo distretto giudiziario molto spesso non collimano neppure con quelle di un distretto vicino. Sicché, allo stato dell’arte, può ben darsi che per quantitativi di sostanza analoghi per tipologia, purezza e quantità, si assista a trattamenti sanzionatori oltremodo dissimili e sperequati.

Si passi la provocazione ma, in ultima analisi, all’avvocato difensore altro non resta che confidare sul fatto che il Pubblico Ministero non contesti la sussistenza dell’aggravante in parola.

E’ nei fatti evidente che la fattispecie normativa in questione, per come formulata e concretamente applicata, assuma i connotati dell’assoluta genericità, laddove il criterio quantitativo utilizzato dal Legislatore non assume alcuna valenza discernente se non rapportato ad altri elementi di raffronto.

Cosicché, per esempio, la norma non opera alcuna distinzione in merito ai quantitativi da considerarsi ingenti a seconda delle diverse tipologie di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui si tratti, mentre è evidente come la ripartizione delle varie sostanze in diversi sistemi tabellari che ne rispecchiano una diversa potenzialità lesiva non possa non incidere sulla misurazione dei quantitativi che per ciascuna di esse possano giustificare l’applicazione di una pena aggravata.

Appare poi del tutto incongruo aver disciplinato la corrispondente fattispecie attenuata, il c.d. fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5°, in modo sicuramente più determinato rispetto all’aggravante in esame; tale attenuante prende in considerazione, oltre al dato quantitativo dello stupefacente, quello qualitativo ed inoltre le modalità e le circostanze della condotta, prevedendo fra l’altro pene diverse a seconda della collocazione tabellare delle sostanze.

Non è forse incoerente con i principi fondamentali dell’ordinamento che il Legislatore sia stato maggiormente scrupoloso nel dotare di conformità al principio di tassatività-determinatezza l’attenuante di cui all’art. 73 co. 5° - dinanzi alla cui applicazione non si pongono evidentemente esigenze garantistiche per l’imputato - rispetto all’aggravante di cui all’art. 80 co. 2° che, invece, comportando un aumento di pena rispetto al reato-base, è sensibile al principio del favor rei?

La giurisprudenza ha, negli anni, cercato di articolare una fitta rete di indici rilevatori dell’ingente quantitativo.

Se da una parte, si è ritenuto sufficiente riferirsi al solo criterio normativo del dato ponderale-quantitativo nei casi limite in cui vengano in gioco quantitativi grandissimi di sostanza stupefacente, d’altra parte, nella normalità delle ipotesi, si è costantemente ritenuto di dover integrare il contenuto della fattispecie de qua ricorrendo a parametri di valutazione esterni quali l’incidenza della qualità e della concentrazione della sostanza stupefacente sul mercato, localmente circoscritto, in rapporto all’offerta, all’assorbimento ed alla diffusione dello stupefacente (Cass. Sez.VI 16.10.97).

Tutto ciò anche alla luce della ratio della fattispecie aggravata che sta nella esigenza di tutelare la salute dei cittadini contro il pericolo di diffusione di ingenti quantità di stupefacenti sul mercato in misura idonea al consumo da parte di un numero molto elevato di tossicodipendenti ed alla saturazione di una apprezzabile area di spaccio (Cass. Sez. IV 22.05.97).

Il Supremo Consesso ha solitamente fatto riferimento al concetto di mercato, variamente definito e delimitato, nel tentativo di fornire un indice cui commisurare la locuzione di ingente quantitativo.

In realtà, il ricorso al concetto di mercato locale di spaccio, costituendo esso stesso un elemento indefinito - innanzitutto perché difficilmente individuabile data la sua clandestinità, poi perché crea inevitabilmente una disparità di trattamento nei casi in cui il medesimo quantitativo di sostanza stupefacente venga spacciato in aree differenti del territorio nazionale - non ha affatto contribuito a dotare di oggettività l’aggravante in questione.

Difatti, in un suo recente intervento, la Corte di Cassazione a Sezioni Unite (n. 17 del 21.09.2000) ha messo in dubbio l’utilità delle costruzioni giurisprudenziali che ruotano attorno al concetto di mercato, in quanto “il commercio illecito degli stupefacenti, proprio perché illecito, vive nella clandestinità e sfugge, per sua stessa definizione, ad ogni indagine probatoria…..” e ancora “Nella sin ad ora prevalente giurisprudenza della Corte, infatti, tralaticiamente viene fatto richiamo a presunte esigenze di un fantomatico mercato, ovvero a capacità di assorbimento di una indefinibile massa di ipotetici consumatori distribuiti su ideali ambiti territoriali, cadendo, sempre e necessariamente nell’enunciazione di nozioni del tutto generiche, alla pratica applicazione sottratte ad ogni riscontro fattuale”. 

Con tale pronuncia, la Corte ha cercato di sgombrare il campo da tutte quelle sovrastrutture giurisprudenziali che, anziché dotare il dettato normativo di parametri valutativi di raffronto certi e ben individuati, non hanno fatto altro che ampliare la forbice discrezionale del giudice nel momento applicativo dell’aggravante. Si noti, però; lungi dall’avere contribuito a far chiarezza sul punto, l’intervento della S.C. a S.U. ha semmai rimesso a nudo la vexata quaestio in maniera dirompente; facendo sì giustizia sull’utilizzo di soprastrutture interpretative altamente soggettive e discriminatorie, ma cancellando d’un sol colpo un “diritto vivente” che, a torto o a ragione, era frutto di uno sforzo interpretativo vano ma apprezzabile. Questa è, almeno, l’opinione di chi scrive.

-        Aperture della giurisprudenza costituzionale in merito al riconoscimento del principio di tassatività-determinatezza in materia penale

La questione di legittimità costituzionale per difetto di determinatezza dell’aggravante de qua deve ritenersi fondata anche alla luce della evoluzione che vi è stata nella giurisprudenza costituzionale in ordine alla rilevanza del principio di tassatività nell’ordinamento penale.

Il principio di tassatività-determinatezza, quale esplicazione del più generale principio della riserva di legge, presiede alla formulazione delle norme in materia penale ed è posto a garanzia dell’imputato il quale ha il diritto di poter confidare sulla certezza della legge contro eventuali abusi del potere giudiziario.

Il suo fondamento costituzionale è unanimamente riconosciuto in dottrina e in giurisprudenza nell’art. 25 co.2 Cost., così come interpretato alla luce degli artt. 13, 112 e 24 co.2 Cost..

Nonostante ciò, la Corte cost. ha da sempre tenuto un atteggiamento piuttosto self-restraint quando è stata chiamata a pronunciarsi sull’illegittimità costituzionale di fattispecie incriminatrici contrastanti con tale principio. 

Nella maggior parte dei casi sottoposti alla sua attenzione, difatti, la corte ha respinto le eccezioni di incostituzionalità facendo leva sull’argomento del “diritto vivente”  identificato di volta in volta nell’orientamento costante o comunque dominante che la giurisprudenza segue nell’interpretazione di una determinata norma incriminatrice (si è parlato anche di una dialettica interpretativa la cui disomogeneità non superi la normale soglia fisiologica –sent. 21/90-).

Altre volte il Giudice delle Leggi, nell’estremo tentativo di rigettare i dubbi di indeterminatezza della fattispecie penale, è ricorso al criterio del significato linguistico, da intendersi come il senso da attribuirsi ai concetti espressi nella norma nella comune esperienza e nel comune sentire.

Di recente però la Corte ha compiuto in alcuni casi un vero e proprio revirement ad iniziare dalla fondamentale sentenza che ha dichiarato l’incostituzionalità del reato di plagio (sent. n.96/81) ritenendo l’indeterminatezza della sua formulazione per l’impossibilità di un riscontro empirico del concetto espresso nella locuzione “totale stato di soggezione”; già in precedenza poi la corte si era espressa ritenendo l’indeterminatezza del concetto di proclività a delinquere nelle misure di prevenzione (sent. n.177/80). Sullo stesso piano si pongono anche le successive pronunce in materia di frode fiscale (sent. n.247/89) e di prevenzione anti-incendi (sent. n. 282/90).

E’ anche alla luce di questa evoluzione giurisprudenziale che, a parere di chi scrive, va indagata la aggravante di cui all’art. 80 co. 2 DPR 309/90 in ordine alla conformità o meno della sua formulazione normativa al principio costituzionale di tassatività-determinatezza.

Il fatto poi che si discuta della illegittimità costituzionale di una circostanza aggravante –elemento accidentale del reato- piuttosto che di una fattispecie principale di reato non è ostativo al riconoscimento di una identica pregnanza nel caso di specie al principio di tassatività: innanzitutto perché si tratta di una circostanza aggravatrice della pena che necessita dunque, al pari di una norma incriminatrice, di essere applicata nel rispetto delle garanzie dell’imputato, inoltre perché è circostanza ad effetto speciale (art. 63 co. 3 c.p.) con un aumento di pena che va dalla metà ai due terzi rispetto alla pena base.

Che anzi, sovviene pensare che proprio ad un così “speciale” inasprimento del trattamento sanzionatorio dovrebbe (rectius: avrebbe dovuto) semmai corrispondere, in termini di equazione, una proporzionale e maggiore determinatezza dei parametri valutativi che concorrono all’applicazione in concreto della circostanza aggravante in parola.   

Il principio di tassatività è posto a presidio di fondamentali valori di civiltà giuridica primo dei quali la certezza della legge incriminatrice in un ottica di garanzia per l’imputato. Tale RATIO impone la medesima operatività al principio in questione sia dinanzi ad una norma incriminatrice, sia dinanzi ad una norma circostanziale che oltretutto aggrava in misura notevole la pena base assurgendo quasi a fattispecie autonoma di reato.

La medesima questione di illegittimità costituzionale sotto il profili della indeterminatezza della fattispecie non si pone evidentemente in tema di circostanze attenuanti del reato laddove la ratio garantistica che presiede alla loro formulazione apre il varco alla piena discrezionalità del giudice nel momento valutativo della loro esistenza. 

Ulteriormente si dirà che, anche a voler accogliere le tesi che negano l’esistenza di una riserva assoluta di legge in materia di circostanze del reato, non si dovrebbe per ciò solo ritenere ivi inoperante il principio di tassatività. L’unica differenza si avrebbe per il fatto che il rispetto della tassatività della fattispecie dovrebbe scaturire oltre che dal dettato normativo anche dai parametri integrativi forniti dalla giurisprudenza.

In altre parole, a fornire di tassatività una circostanza del reato contribuirebbero in pari misura sia gli elementi legalistico-normativi sia gli ulteriori elementi frutto della elaborazione giurisprudenziale.

Ma nella fattispecie di cui si discute, come si è già sottolineato in precedenza ed è utile ribadire, non è dato ravvedere una uniformità di vedute in giurisprudenza che abbia nel tempo portato ad elaborare dei parametri di riferimento uniformi e di facile individuazione.

2.      Difetto di costituzionalità per violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 co. 2 Cost e per carenza di motivazione ex art. 111 co. 6 Cost.

Appurato dunque il contrasto dell’aggravante de qua con il principio di tassatività che presiede alla formulazione delle norme in materia penale, così come costituzionalizzato dall’art. 25 co. 2 Cost., non resta che rilevare gli ulteriori profili di illegittimità costituzionale scaturenti dalla medesima indeterminatezza.

Infatti, l’indeterminatezza della fattispecie circostanziale si risolve anche nell’aperta violazione del diritto di difesa garantito in sede costituzionale dall’art. 24 co.2 Cost. e nell’ulteriore violazione dell’obbligo motivazionale del giudice di cui all’art. 111 co. 6 Cost..

L’indeterminatezza della fattispecie contestata non consente all’imputato di comprendere appieno la contestazione che gli viene mossa e quindi di approntare la miglior difesa possibile.

Il diritto di difesa è posto a fondamentale presidio delle garanzie dell’imputato, il quale non può essere costretto a subire un giudizio penale, con l’eventualità di subire una condanna, se non venga posto adeguatamente nella condizione di avere una perfetta cognizione dell’accusa che gli viene mossa (elementi accidentali compresi).

Allo stesso modo, il difetto di determinatezza della fattispecie penale, nel caso in cui si addivenga ad un pronunciamento di condanna, si ripercuote inevitabilmente sulla motivazione della sentenza, rendendola carente e lacunosa in quanto non consente di apprezzare appieno il percorso logico-argomentativo seguito dal giudice nell’applicazione della norma penale, mancando del tutto dei parametri legislativi di riferimento cui rapportare e raffrontare le sue deduzioni.

Se è vero infatti che in materia processual-penalistica vige il principio del libero convincimento del giudice nella valutazione delle risultanze probatorie, è altrettanto vero che tale libero convincimento non può mai tradursi in un giudizio arbitrario totalmente svincolato da parametri normativi di riferimento.

Questo è il rischio in cui incorre il giudice a quo nel giudizio relativo all’applicabilità della circostanza aggravante dell’ingente quantitativo, dal momento in cui il concetto di mercato e gli altri parametri di riferimento a questo connessi si rivelano del tutto privi di qualsiasi riscontro empirico certo.

Una motivazione carente nei suoi passaggi fondamentali non può d’altra parte non pregiudicare ulteriormente il diritto di difesa dell’imputato sotto il profilo della impossibilità di azionare al meglio i rimedi impugnatori predisposti dal codice di rito.

3.      Difetto di costituzionalità per disparità di trattamento rispetto a casi analoghi in violazione dell’art. 3 Cost.

La difficoltà che alberga in giurisprudenza nell’attribuire una valenza empirica oggettiva al concetto di ingente quantitativo si riscontra nelle pronunce dei giudici di ogni distretto del territorio nazionale oltre che all’interno del Supremo Consesso.

Il raffronto fra il dato quantitativo della sostanza – nel suo principio attivo- e l’ampiezza del mercato locale di spaccio al fine di verificarne l’incidenza sotto il profilo della sua eventuale saturazione, non può che condurre ad accertamenti fondati su un alto grado di discrezionalità e di divergenza valutativa fra giudice e giudice, anche nell’ambito della stessa circoscrizione.

In altre parole, lo stesso quantitativo puro di sostanza stupefacente può essere posto a fondamento di pronunce esattamente opposte sulla sussistenza dell’aggravante de qua a seconda del convincimento che il giudice si formi sull’incidenza dell’immissione della sostanza nel mercato locale.

Così in giurisprudenza si è affermata la sussistenza dell’aggravante relativamente a gr. 175 di eroina pura (Cass. Sez. VI 01.02.1990, Uzoagu), a gr. 213,77 di eroina pura (Cass. Sez. I 19.01.1984, Sweenv Kim); viceversa è stata esclusa per gr. 236 di eroina pura e gr. 18 di cocaina pura (Cass. Sez. VI 22.01.1993, Armenio), per gr. 341 e 874 di eroina pura (Cass. Sez. VI 20.10.1992, Carrabs).

E’ dunque palese come i criteri integrativi di accertamento utilizzati fin d’ora dalla giurisprudenza si pongano in netto contrasto con i principi fondamentali di certezza del diritto e di uniformità di trattamento di situazioni analoghe.

In altre parole, non è accettabile che lo stesso soggetto che spacci il medesimo quantitativo di sostanza stupefacente in località appartenenti a differenti circoscrizioni giudiziarie corra il rischio di subire due trattamenti penali differenziati in dipendenza del diverso ambito locale di spaccio.

Il paradosso di una tale situazione non fa altro che sottolineare ancora una volta, semmai ce ne fosse il bisogno, la situazione di impotenza dinanzi alla quale si trova il giudice al momento di attribuire dei connotati di oggettività ad una fattispecie che rimane fondamentalmente indeterminata e indeterminabile, con conseguenti ed inevitabili ripercussioni sotto vari profili di legittimità costituzionale.    

avv. Filippo Maria Airaudo, dott. Marco Tonti - Foro di Rimini- giugno 2003

(riproduzione riservata)

[torna alla primapagina]