Enrico Amati, L’eccezionale (recente) sviluppo del diritto penale internazionale in tema di crimini di guerra ed il problema dell’adeguamento della legislazione interna.

1) Premessa.

I (numerosi) conflitti armati degli ultimi tempi hanno fatto si che la comunità internazionale riscoprisse una certa sensibilità nei confronti di una disciplina a lungo considerata una mera utopia: il diritto penale internazionale [1] . Dopo Norimberga, infatti, sono stati molteplici i tentativi di creare un Codice sui crimini contro la pace e la sicurezza dell’umanità, nonché di istituire una Corte penale internazionale permanente con piena autonomia giurisdizionale nella repressione dei c.d. delicta iuris gentium.

La recente istituzione dei Tribunali ad hoc per l’ex Iugoslavia (International Criminal Tribunal for Former Iugoslavia, ICTY) e per il Ruanda (International Criminal Tribunal for Rwanda, ICTR) oltre che, soprattutto, l’elaborazione del c.d. “Statuto di Roma” per la creazione di una Corte penale internazionale permanente (International Criminal Court, ICC; ”),  pone l’interprete di fronte al compito di razionalizzare e sistematizzare una materia che rappresenta ancora un “ibrido” fra il diritto penale ed il diritto internazionale.

In tale articolo si intende evidenziare (seppur in modo sommario) le problematiche legate specificamente alla repressione dei crimini di guerra, i quali costituiscono il “nucleo forte” dei crimini internazionali. In particolare, si vuole mettere in luce come la crescente penalizzazione del diritto internazionale non può, tuttavia, portare ad una sorta di “deresponsabilizzazione” del legislatore interno; il quale, al contrario, dovrà cercare di uniformare ad adeguare la propria legislazione a quella internazionale.

Peraltro, nel campo dei crimini di guerra, le norme interne e quelle internazionali danno vita ad un processo “simbiotico” per cui tendono ad integrarsi vicendevolmente. Ecco perché una trattazione inerente a tali fattispecie delittuose non può essere limitata all’aspetto puramente nazionale o puramente internazionalistico.

2)      Inquadramento dei crimini di guerra nell’ambito dei crimini internazionali.

In prima approssimazione si può affermare che i crimini di guerra sono costituiti da quelle violazioni del diritto di guerra (o del diritto internazionale umanitario) che comportano una responsabilità penale individuale. In situazioni di conflitto armato spesso i belligeranti commettono atti che sarebbero considerati crimini dal diritto penale “ordinario”, quali l’omicidio, il ferimento o l’acquisizione violenta di beni altrui. Ebbene, le cosiddette ‘leggi di guerra’ ammettono che in molti casi azioni che normalmente assumono rilevanza penale possano essere compiute con la garanzia dell’impunità [2] . Tuttavia, se da un lato ai combattenti si è riconosciuto il diritto di cercare di sconfiggere i nemici che tentino di sottomettere la loro nazione, dall’altro, si è sempre cercato di riconoscere che anche nelle situazioni più drammatiche taluni comportamenti devono essere comunque condannati [3] .

La categoria dei crimini di guerra, dunque, appartiene al genus ‘crimini internazionali’: tali sono quei crimini che sono sentiti come lesivi di valori universali che trascendono il sistema proprio di ogni singola comunità statale, e che è interesse di ogni Stato prevenire e reprimere indipendentemente dal luogo in cui sono stati commessi [4] .

Ma lo sviluppo della dimensione internazionale dei crimini di guerra ha avuto un notevole impulso anche a causa della necessità di soddisfare delle esigenze di tipo eminentemente pratico. Per tali tipologie criminose, infatti, si pone il problema dell’impunità di cui spesso godono i responsabili: poiché le violazioni di questo tipo vedono in genere il coinvolgimento a vario livello di apparati statali, i cui appartenenti dispongono degli strumenti necessari ad assicurarsi l’obiettivo di non essere puniti, è possibile (se non probabile) che il sistema interno di repressione sia posto nelle condizioni di non funzionare con efficacia.

3)      Il processo di “codificazione” del diritto bellico.

Le disposizioni inerenti ai crimini di guerra tendono a garantire la sopravvivenza di quei diritti fondamentali che costituiscono patrimonio comune dell’umanità. Si tratta, peraltro, di principi che hanno profonde radici storiche, tant’è vero che già nelle civiltà antiche (sia orientali che occidentali) si rinvengono tracce che testimoniano l’accoglimento di principi volti ad evitare abusi nella condotta della guerra e l’istituzione di processi per le violazioni commesse. Tuttavia, come già si è accennato, è soltanto negli ultimi anni che il diritto penale internazionale ha ottenuto piena  legittimazione, di modo che l’idea “utopica” di creare un sistema di norme penali a livello internazionale capaci di sanzionare crimini che ledono beni giuridici universali appare ormai una realtà.

Ed anche dal punto di vista della effettiva operatività di tali norme pare che siano stati fatti notevoli progressi (si pensi all’intensa attività dei tribunali internazionali ad hoc) in grado di ritenere ormai superate le pretese aporie del diritto penale internazionale: aporie che a lungo hanno giustificato e determinato l’”irrealtà” di un sistema punitivo internazionale [5] . In particolare, si sostiene che il diritto penale è un diritto statuale per eccellenza: innanzitutto perché a differenza di altri rami dell’ordinamento giudico esso non può fare a meno di un apparato statale in grado di applicare la sanzione; e poi perché il diritto penale ha, di regola, valore solamente nell’ambito territoriale dello Stato che lo ha promulgato. L’idea che un organismo internazionale si sostituisca sistematicamente ed autonomamente ai giudici nazionali per processare individui sospettati di aver commesso un crimine internazionale appare indubbiamente una “limitazione di sovranità” difficile da accettare.

Se, dunque, si ritorna alle prime reazioni della dottrina internazionalistica e penalistica in merito alla ‘nuova’ disciplina del diritto penale internazionale si può indubbiamente affermare che straordinari sono i progressi fatti negli ultimi anni.

Si pensi, esemplificativamente, alle affermazioni del Manzini, secondo il quale    “Il designare come delicta iuris gentium quei reati che sono repressi dalle leggi della maggioranza degli Stati equivale a rievocare il fantastico diritto naturale o a richiamare quelle nozioni artificiose che qualche criminologo moderno ha escogitate per affermare l’esistenza dei reati naturali. Se tutto ciò può avere una importanza filosofica o sociologica non ne mantiene alcuna di fronte al diritto penale: non esistono reati di diritto internazionale” [6] .

Del resto, lo stesso (complesso) processo di negoziazione che ha portato all’elaborazione dello Statuto di Roma,  ha indubbiamente rievocato e messo in evidenza le perplessità e le resistenze poste da alcuni ordinamenti particolarmente “gelosi” della loro autonomia nella possibilità di esercitare la giurisdizione penale

4)      Cenni sull’istituzione dei Tribunali internazionali ad hoc per l’ex Iugoslavia ed il Ruanda.

Il "Tribunale internazionale per il perseguimento delle persone responsabili di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario commesse nel territorio dell'ex Jugoslavia” dal 1991 viene istituito con risoluzione del Consiglio di Sicurezza n.827 del 25 maggio 1993 [7] . Successivamente, con un'analoga risoluzione del Consiglio di Sicurezza, la n. 955 dell'8 novembre 1994, è stato istituito il "Tribunale penale internazionale per il Ruanda" [8] .

Per ciò che riguarda la competenza ratione materiae, le competenze di entrambi i Tribunali sono limitate ai crimini di guerra, al genocidio ed ai crimini contro l’umanità, con esclusione quindi del crimine di aggressione la cui definizione avrebbe ritardato all’infinito la messa in opera di tali tribunali. In particolare, riguardo ai crimini di guerra la differenza più evidente tra i due tribunali riguarda il modo in cui rileva il diritto umanitario.

L'articolo 2 dello statuto dell’ICTY riguarda le infrazioni gravi delle convenzioni di Ginevra del ‘49 [9] : si tratta di comportamenti quali l'omicidio, la tortura, l'arruolamento coatto, ecc. commessi ai danni delle persone protette dalle Convenzioni stesse nell’ambito di un conflitto armato internazionale [10] . Una simile norma non si trova nello Statuto del tribunale di Arusha, poiché si assume che quello Ruandese sia stato un conflitto solamente interno.

L'art. 3 dello statuto del tribunale per l'ex Iugoslavia punisce, invece, le violazioni delle norme relative ai conflitti armati che non rientrano tra quelle identificate dall'articolo precedente. Il riferimento è essenzialmente al "diritto dell'Aja" [11] , ma la camera d'appello del tribunale, nel caso Tadic [12] , ha allargato il campo tradizionale del diritto consuetudinario di guerra, facendovi rientrare anche condotte che vanno al di là di quello che prescrivono certi trattati. Ma soprattutto, secondo l'interpretazione della camera d'appello, cade in questo caso la limitazione dell'applicabilità di queste norme ai soli conflitti internazionali. Le regole fondamentali di umanità si devono applicare, quindi, anche ai conflitti interni e a quelli misti, interni e internazionali come è stato il conflitto Iugoslavo.

Lo statuto del tribunale per il Ruanda dichiara, invece (all’art. 4), espressamente applicabile la norma dell'art. 3 comune alle quattro convenzioni di Ginevra che estende le regole umanitarie ai conflitti armati interni, nonché il II Protocollo del ’77 che specifica ulteriormente la categorie protette nei conflitti interni.

5)      Cenni sull’istituzione della Corte penale internazionale permanente.

Il c.d. “Statuto di Roma”, contenente le disposizioni concernenti l’istituzione ed il funzionamento di una Corte penale internazionale permanente, è stato  approvato il 17 luglio 1998 [13] a coronamento di un processo storico, volto a rendere effettiva una giustizia penale internazionale, piuttosto lento e travagliato [14] .

Già dalla fine degli anni quaranta, l'Assemblea Generale diede mandato alla Commissione sul Diritto Internazionale di esaminare la possibilità di istituire una Corte Penale Internazionale permanente. I primi progetti furono presentati nel 1951 e nel 1953; tali tentativi, tuttavia, non ebbero successo poiché l’Assemblea Generale, nel 1954, collegò il destino di tali progetti (come avvenne per il “Draft Code of Crimes against the Peace and Security of Mankind”) al problema relativo alla definizione dell’aggressione.

Successivamente, il clima politico internazionale prevalente negli anni '60, '70 e '80 rese difficile compiere dei progressi in tale direzione. È stato solo al termine di questo periodo che l'idea di creare una Corte penale internazionale permanente ha attirato una maggiore attenzione e che i suggerimenti avanzati da numerose delegazioni hanno fatto riemergere alla superficie il progetto per l'istituzione di un siffatto organo giurisdizionale.

Tuttavia, solamente il 3 aprile del 1998 il Comitato terminò i propri lavori e trasmise alla Conferenza il proprio Rapporto sull’attività svolta [15] contente, in allegato, il progetto di Statuto ed il progetto dell'atto conclusivo della Conferenza [16] . Tale testo è stato il fondamento dei lavori della Conferenza di Roma, che si è svolta dal 15 giugno al 17 luglio 1998, e che si è conclusa con la definitiva approvazione dello Statuto [17] .

Lo Statuto entrerà in vigore dopo il deposito, presso il Segretariato generale delle Nazioni Unite, della sessantesima ratifica [18] .

Come è stato sottolineato da un insigne giurista italiano, “lo Statuto di Roma vuole rappresentare la piena affermazione di un diritto punitivo della Comunità internazionale su tutti gli individui colpevoli dei più gravi crimini contro la pace e la sicurezza del genere umano: e cioè di quel diritto internazionale penale per lungo tempo negato sul piano di una sua validità nella teoria generale del diritto, e tuttavia ogni giorno più reclamato dal sentimento giuridico degli individui e dei popoli…” [19] .

Per la prima volta, inoltre, con lo Statuto della ICC si assiste ad una e vera e propria “codificazione” (anche) della Parte generale del diritto penale internazionale, fino a questo momento lasciata all’attività “creativa” della giurisprudenza dei Tribunale ad hoc. I giudici internazionali, infatti, si ritrovavano spesso a dover risolvere il difficile compito di “ricostruire” i principi fondamentali del diritto penale internazionale attraverso una ardua e (spesso) aleatoria ricognizione del diritto consuetudinario.

Con ciò tuttavia, non si può, a nostro avviso, sostenere che con lo Statuto di Roma siano stati risolti tutti i problemi del diritto penale internazionale. Restano, infatti, pur sempre delle grosse lacune soprattutto per quanto riguarda proprio i principi di Parte generale di tale materia. Inoltre, lo Statuto, seppur rappresenti un notevole progresso per il raggiungimento di una giustizia penale internazionale, presenta indubbiamente numerose ‘ombre’ [20] anche in relazione alla disciplina dei crimini di guerra.

Per quanto riguarda le competenze giurisdizionali della ICC, l’art. 5, intitolato appunto ‘Crimini di competenza della Corte’, sottolinea come ‘La competenza della Corte è limitata ai crimini più gravi, motivo di allarme per l’intera comunità internazionale’. Essi sono rappresentati da:

a)      genocidio;

b)      crimini contro l’umanità;

c)      crimini di guerra;

d)      crimine di aggressione [21] .

In particolare, in tema di crimini di guerra l’art. 8 estende la competenza della  Corte in materia sia ai conflitti internazionali che ai conflitti interni. Riguardo ai primi, tale articolo si riferisce alle gravi infrazioni delle Convenzioni di Ginevra del 1949 (par. 2, lett. a) sia ad altre gravi violazioni di leggi ed usi applicabili ai conflitti armati internazionali (par. 2, lett. b). Circa i conflitti armati non internazionali la Corte esercita la sua giurisdizione nei casi previsti dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni riguardante, appunto, i conflitti interni (par. 2, lett. c), sia con riguardo ad altre gravi violazioni di leggi ed usi applicabili ai conflitti armati di natura non internazionale (par. 2, lett. e).

6)      La “nuova dimensione” del diritto penale internazionale.

Finché la ICC non sarà effettivamente operativa, tuttavia, il diritto penale internazionale “vivente” dovrà essere ricostruito essenzialmente attraverso lo studio  delle Convenzioni internazionali in materia; in particolare, è evidente come un ruolo di primo piano sia rivestito dagli Statuti e dalla ormai copiosa giurisprudenza dei Tribunali internazionali ad hoc.

L’interpretazione delle norme degli Statuti dei Tribunali internazionali, tuttavia,  non è compito facile. Già dalle semplice lettura delle condotte vietate contenute negli articoli relativi ai crimini di guerra [22] , infatti, è facile rendersi conto come i canoni della legalità (ai quali la dottrina penalistica, almeno quella di civil law, è abituata) vengono in larga misura stravolti [23] .

Tutti ciò è il frutto di una genesi particolare della norma di diritto penale internazionale: essa è infatti  il frutto di un ibrido fra normativa, giurisprudenza e dottrina. Come è stato giustamente osservato, infatti, “ancor prima dell’intreccio tra le tradizionali funzioni, è l’identità stessa delle componenti – o formanti – del diritto ad essere qui incerta e confusa: le decisioni giurisprudenziali da una parte sono esplicitamente creative di diritto, costrette a colmare lacune degli statuti imprecisi e/o reticenti e dall’altra costituiscono veri e propri testi di dottrina, correttamente confezionati secondo le regole del sapere scientifico. E’ indicativo che sia stato discusso in dottrina il problema del formale riconoscimento del ‘diritto di Norimberga’ come opera di dottrina” [24] .

Ed è proprio negli Statuti dei Tribunali ad hoc che tale particolare dinamica si manifesta in tutta la sua evidenza. Gli Statuti, infatti, non sono di per sé esaustivi: la loro estrema sinteticità è dovuta al fatto che è mancato un vero e proprio organo legislativo preposto alla loro elaborazione [25] ; ed inoltre essi sono nati in un periodo contingente, per cui non si è probabilmente posta la dovuta attenzione al rispetto del principio di legalità.

Tutto ciò ha fatto si che la giurisprudenza svolgesse (e svolga tuttora) un ruolo di primo piano nell’opera di supplenza della funzione legislativa, di modo che è solo attraverso le decisioni dei Tribunali che è possibile comprendere appieno l’ambito di operatività delle norme concernenti i crimini di guerra previste degli Statuti.

7)      Il ruolo “creativo” della giurisprudenza.

Fatte queste premesse, risulta chiaro come le disposizioni relative agli Statuti dei Tribunali Internazionali ad hoc vadano necessariamente integrate con le decisioni giurisprudenziali e con le elaborazioni dottrinali. Anzi, in proposito si è affermato che la giurisprudenza internazionale svolge un vero e proprio ruolo “costituente” [26] nella creazione dei principi del diritto penale internazionale.

Tuttavia, va anche sottolineato come la giurisprudenza dei singoli Stati continua (in relazione ai Tribunali ad hoc) e continuerà (in relazione alla ICC) a svolgere un ruolo determinante, proprio perché è dai singoli Stati che nascono quei “principi generali del diritto” assunti a fonte del diritto internazionale [27] .

Ma vi è di più: lo stesso Statuto dell’ICC nell’enunciare la  normativa applicabile dispone, all’art. 21, che la Corte applica, seppur in via meramente subordinata [28] , “i principi generali di diritto ricavati dalla Corte in base alla normativa interna dei sistemi giuridici del mondo, compresa, ove occorra, la normativa interna degli Stati che avrebbero avuto giurisdizione sul crimine, purché tali principi non siano in contrasto con il presente Statuto, con il diritto internazionale e con le norme ed i criteri internazionalmente riconosciuti” [29] .

Ecco che allora risulta evidente come tra le due discipline penalistiche (il diritto penale interno e quello internazionale) le esigenze di un dialogo siano fondamentali: così come il diritto internazionale influenza il diritto interno, anche il diritto interno influenza il diritto internazionale. Anzi, in materia criminale si può certamente affermare come il punto di partenza, ed anche l’appiglio concreto, del diritto internazionale penale sia costituito proprio dal diritto interno dei singoli stati. Sono infatti le singole legislazioni nazionali che contribuiscono alla formazione di quei principi generali del diritto penale più volte richiamati dai documenti internazionali. Invero, il diritto internazionale ci permette, in un certo senso, di “fotografare” l’evoluzione di questi principi in un dato momento storico.

In tal modo si crea una sorta di simbiosi fra i due rami del diritto penale: da un lato troviamo le singole legislazioni nazionali dalle quali vengono estrapolati i principi fondamentali del diritto internazionale penale; dall’altro gli stessi principi di diritto internazionale “ricadono” sui singoli ordinamenti imponendo ad essi obblighi di tutela o comunque contribuendo a plasmarli.

Proprio l’art. 21 dell’ICC, peraltro, valorizza l’opera di comparazione in senso stretto, che si diversifica, cioè, sia dallo studio del diritto straniero sia dalla integrazione tra diritto criminale internazionale e diritto interno [30] .

Infine, si tenga presente che l’ICC si porrà, in relazione ai singoli ordinamenti, in una posizione di complementarietà e di residualità. Ciò significa che la giurisdizione della Corte penale internazionale non deve sostituire la giurisdizione nazionale degli Stati contraenti e neppure vi è un rapporto di preminenza nei confronti della giustizia statale. L’ICC deve solamente integrare le istanze nazionali, attivandosi solo quando la giurisdizione nazionale, nell’ambito della propria competenza, o non vuole o non è in grado di accertare, perseguire o punire adeguatamente i crimini che rientrano (anche) nella giurisdizione della ICC. Sarà tuttavia la stessa Corte a valutare gli elementi di “unwillingness” o di “unability” e ad ammettere un procedimento davanti a sé [31] .

Inoltre, lo Statuto dell’ICC prevede, all’art.124, la possibilità per gli stati parte di dichiarare per sette anni dall’entrata in vigore dello Statuto nei loro confronti di non accettare la competenza della Corte in relazione ai crimini di guerra, qualora un simile reato sia stato commesso nel suo territorio o dai suoi cittadini (c.d. clausola di opting-out).

8) La necessità di dare piena attuazione al c.p.m.g.

La normativa italiana per il tempo di guerra (pur risalente al 1938-41), costituisce un complesso piuttosto esteso e dettagliato caratterizzato da una singolare modernità proprio in relazione alla tutela degli interessi protetti dal diritto umanitario bellico. Così, nel c.p.m.g., si rinviene un intero titolo (articoli da 165 a 230) in cui sono sanzionate la maggior parte delle infrazioni contemplate nelle successive convenzioni internazionali.

Sebbene (come meglio si vedrà nel paragrafo successivo) tale sistema repressivo necessiti indubbiamente di un “aggiornamento”, risulta tuttavia singolare come il legislatore, per tutte le numerose missioni militari finora svolte dalle forze armate italiane per il mantenimento della pace, abbia sempre escluso la possibilità di rendere pienamente operativo l’art. 9 del  c.p.m.g., secondo il quale “Sono soggetti alla legge penale militare di guerra, ancorché in tempo di pace, i corpi di spedizione all’estero per operazioni militari, dal momento in cui si inizia il passaggio dei confini dello Stato, e, se trattasi di spedizione oltremare, dal momento in cui s’inizia l’imbarco del corpo di spedizione”.

Ciò comporta l’inapplicabilità (per le operazioni militari a tutela della pace svolte dai nostri contingenti ai sensi del Cap. VII della Carta delle Nazioni Unite) delle leggi del c.p.m.g. e delle norme di diritto internazionale umanitario in essi contenute, nonché di tutte le norme di diritto bellico e delle disposizioni volte ad apprestare una maggiore tutela ai militari italiani impegnati.

Se da un lato, dunque, il nostro c.p.m.g. prevede come crimini di guerra la violenza di militari italiani contro privati nemici (art. 185 c.p.m.g.), il saccheggio, le razzie, le devastazioni commesse in territori occupati (artt. 186-188 c.p.m.g.), nonché i maltrattamenti contro infermi, feriti e naufraghi nemici (artt. 192 e 193 c.p.m.g.), le sevizie, i maltrattamenti, il vilipendio di prigionieri (artt. 209-211); dall’altro, tuttavia, tali norme rimangono in pratica del tutto ineffettive, con ciò privando beni fondamentali della necessaria tutela penalistica.

E’ evidente, invero, come il ricorso al diritto penale “ordinario” risulti del tutto insoddisfacente dal punto di vista della effettività repressiva. Molto spesso, infatti, alcuni reati comuni sono punibili solamente a seguito di querela della persona offesa; inoltre, nel caso  di reato comune commesso all’estero a danno di straniero, la punibilità dell’autore del crimine è sottoposta alla richiesta del Ministro della giustizia, sempre che l’eventuale richiesta di estradizione non sia stata concessa ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui il crimine è stato commesso [32] .

Tutto ciò non si verificherebbe dando piena attuazione al c.p.m.g. In primo luogo, infatti, sarebbe possibile individuare una fattispecie penale meglio rispondente alle specifiche esigenze repressive che si manifestano nel corso di un conflitto armato.

Quanto disposto dall’art. 9 c.p.m.g., peraltro, risulta (in virtù dell’art. 13 c.p.m.g.) applicabile anche ai militari avversari allorché si rendessero protagonisti attivi di violazioni alle leggi ed agli usi di guerra. Il menzionato art. 13, infatti, sancisce che “le disposizioni…relative ai reati contro le leggi e gli usi di guerra si applicano anche ai militari e ad ogni altra persona appartenente alle Forze armate nemiche, quando alcuno di tali reati sia a danno dello Stato italiano o di un cittadino italiano”.

La mancata applicazione del c.p.m.g. in caso di missioni militari all’estero, quindi, priva di protezione sia le vittime dei crimini commessi dai militari italiani, sia gli stessi appartenenti alle Forze armate italiane.

9)      Il rinnovato interesse per il diritto penale militare dei singoli ordinamenti.

Come si è evidenziato nel paragrafo precedente, la piena attuazione delle norme concernenti le “leggi e gli usi della guerra” contenute nel c.p.m.g., permetterebbe di superare alcuni “limiti” che il diritto penale “ordinario” (sostanziale e processuale) pone alla repressione di siffatte tipologie criminose.

Si è anche detto che sebbene la legislazione italiana in tema di crimini di guerra abbia, in un certo senso, anticipato le stesse Convenzioni di Ginevra del ’49 ed alcune fattispecie siano formulate in modo tale da garantire l’automatico adeguamento al diritto internazionale umanitario (attraverso la tecnica del ‘rinvio’ alla normativa internazionale), ciò non significa che non sia necessario un intervento legislativo per l’adeguamento del c.p.m.g. alle Convenzioni internazionali.

Già con riferimento alle Convenzioni di Ginevra ed ai Protocolli aggiuntivi, invero, la dottrina aveva avuto modo di mettere in luce le dissonanze fra la normativa interna e quella internazionale [33] .

L’esigenza dell’adeguamento della legislazione interna, peraltro, parrebbe confermata ed “amplificata” proprio dai recenti sviluppi del diritto penale internazionale. Gli Statuti e (soprattutto) la giurisprudenza dei Tribunali internazionali ad hoc, infatti, hanno posto in luce quelli che sono i temi “caldi” del diritto penale internazionale, ed hanno risvegliato un inaspettato interesse  per il diritto penale bellico a lungo considerato una branca del diritto penale priva di operatività [34] .

E’ anzi singolare come l’interesse per il diritto penale militare dei singoli ordinamenti sia stato stimolato proprio dall’eccezionale sviluppo del diritto penale internazionale il quale, in un certo senso, tacitamente impone ai singoli ordinamenti di uniformare i loro strumenti preventivo-repressivi in tema di crimini internazionali.

Del resto, il principio di complementarietà previsto dallo Statuto della ICC (come anche la c.d. clausola di ‘opting out’ prevista dall’art. 124 Statuto dell’ICC stessa) ed il principio della giurisdizione concorrente [35] previsto dagli Statuti dei Tribunali ad hoc non possono portare ad una sorta di ‘deresponsabilizzazione’ del legislatore nazionale.

Potrebbe infatti accadere che “il fatto per il quale agisce il tribunale internazionale non sia previsto come fattispecie punibile a livello di diritto nazionale, oppure che sia punibile ma sulla base di un’altra qualificazione, magari tratta dal diritto comune e non già in specifico adeguamento alle fattispecie contemplate dal diritto internazionale. Tutto questo può creare frizioni nelle varie fasi nelle quali la collaborazione è chiamata a esprimersi: nell’arresto dell’imputato, nel trasferimento dell’imputato, nell’acquisizione delle prove, nello svolgimento concreto del processo, nell’esecuzione della pena” [36] .

Si consideri, inoltre, che l’art. 10 dello Statuto ICTY, al pari dell’art. 9 Statuto ICTR, prevede come il soggetto che sia già stato giudicato da una Corte nazionale per atti costituenti violazione del diritto internazionale umanitario può essere di nuovo giudicato dal Tribunale Internazionale se il fatto è stato qualificato dalla Corte interna come reato comune [37] .

Una specifica legislazione di adattamento al diritto internazionale, inoltre, assume anche un preciso significato in riferimento proprio al necessario rispetto del principio nullum crimen nulla poena sine lege: i giudici dei Tribunali internazionali ad hoc, infatti,  fanno sovente riferimento alla consuetudine o ai principi di diritto riconosciuti dalle nazioni; ebbene, solamente uniformando il più possibile le singole legislazioni nazionali sarà possibile giungere ad una ricostruzione dei “principi generali” che non appaia meramente arbitraria od eccessivamente “sbilanciata” verso i canoni della common law piuttosto che della civil law.

E’ tuttavia solamente il 9 gennaio del 1998 che viene comunicato alla Presidenza del Senato il disegno di legge in tema di “Adeguamento alla normativa internazionale della legislazione penale militare italiana in tema di diritto umanitario bellico, in attuazione dei Protocolli aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra del 1949” [38] .

10)  L’ambito di operatività della riforma prevista dal disegno di legge del ‘98: l’esclusione dei conflitti armati non internazionali. Alcune considerazioni critiche.

Gli estensori del disegno di legge del ’98 hanno ritenuto opportuno limitare l’intervento di adeguamento del c.p.m.g. alle sole “infrazioni gravi” previste dalle Convenzioni di Ginevra del ’49 (che, si rammenta, prevedono obblighi di penalizzazione per il legislatore interno solamente in relazione ai conflitti internazionali) e dal I Protocollo aggiuntivo (anch’esso inerente ai conflitti internazionali).

Si sostiene, infatti, nella relazione al disegno di legge, come “Con riguardo  ai conflitti armati non internazionali (articolo 3, comune, delle Convenzioni di Ginevra e del II Protocollo aggiuntivo) sembra opportuno escludere specifici interventi: sia perché nelle citate norme internazionali non sono espressamente previste infrazioni gravi; sia perché – pur prescindendo dalla applicabilità della normativa penale comune – in determinati casi, anche in tempo di pace, può essere applicata la legislazione di guerra e, quindi, le particolari disposizioni di cui si tratta (ad esempio l’art. 10 del codice penale militare di guerra, nel caso di operazioni militari per motivi di ordine pubblico).”

Tale limitazione è probabilmente frutto del ragionamento, sempre espresso nella relazione, per cui “La estensione dell’obbligo internazionale di tutela, limitato alle infrazioni gravi – così come il principio generale che consente l’utilizzazione dello strumento penale solo come extrema ratio – escludono…di regola, la possibilità di penalizzare tutti gli altri molteplici precetti contenuti nelle convenzioni”; fra cui risulterebbe, appunto, l’art. 3, comune, delle Convenzioni di Ginevra.

Ora, appare singolare come un siffatto ragionamento sia stato formulato nel 1998, allorché ben noto doveva essere il quadro evolutivo del diritto internazionale umanitario. Ma vi è di più: l’Italia, infatti, è stato uno dei paesi che più si è impegnato per giungere all’approvazione dello Statuto dell’ICC (approvazione avvenuta, appunto, al termine della Conferenza diplomatica di Roma nel luglio del ’98).

Ebbene, proprio gli estensori dello Statuto di Roma (dopo aver operato una ‘ricognizione’ del diritto penale internazionale vigente) hanno ritenuto opportuno estendere la competenza della Corte penale permanente anche ai conflitti armati non internazionali. E ciò si è fatto  partendo dal presupposto che, sebbene le violazioni previste dall’art. 3 comune alle Convenzioni di Ginevra non vengano qualificate come “infrazioni gravi”, esse tuttavia sono ormai pacificamente riconosciute come parte del diritto consuetudinario [39] .

Invero, già a partire dalla prima metà degli anni ’90 è venuto a compimento un processo che ha portato a riavvicinare la disciplina dei conflitti armati non internazionali a quella dei conflitti armati internazionali: si è osservato, infatti, come la distinzione fra conflitti internazionali ed interni abbia perso valore per quanto riguarda anzitutto i profili di protezione delle vittime; e, d’altra parte, si è verificata una graduale estensione ai conflitti interni di regole fondamentali dei conflitti internazionali relative ai limiti dei mezzi e dei metodi di guerra.

Il problema della penalizzazione di condotte che non configurano “infrazioni gravi” appare, dunque, ormai superato. Anche se, a nostro avviso, esso appare un “falso problema”. Per quanto riguarda il diritto interno, infatti, ci pare assolutamente fuori luogo sostenere (come invece sostiene il legislatore) che siccome l’obbligo internazionale di tutela è limitato alle “infrazioni gravi” il legislatore interno, in virtù del principio dell’extrema ratio, non può penalizzare gli altri precetti contenuti nelle Convenzioni.

Facendo un paragone con il diritto penale ‘ordinario’, sarebbe come affermare che siccome la Costituzione italiana pone un solo obbligo esplicito di incriminazione (contenuto al quarto comma  dell’art. 13), tutte le altre norme che tendono a ‘tutelare’, ‘proteggere’, ‘garantire’, determinati valori non posso essere oggetto di tutela penalistica [40] .

Parimenti, il fatto che l’art. 3 comune alle quattro Convenzioni non ponga un obbligo di tutela, non significa che il legislatore interno non possa decidere di sanzionare penalmente le condotte dallo stesso previste.

Si tenga inoltre presente come i diritti interni di alcuni Stati più attenti al problema dell’adeguamento della legislazione interna, hanno provveduto a prendere atto della rilevanza penale (anche) delle violazioni del diritto umanitario che si realizzano nei conflitti di carattere non internazionale: esempi recenti vengono dal Belgio [41] , con la legge delega del 16 giugno 1993 e dalla Spagna con il nuovo codice penale [42] adottato con la legge 23 novembre 1995, n. 10

11)  Conclusioni

Come si è avuto modo di sottolineare (seppur in modo sommario) nel corso del presente lavoro, l’intervento di modifica degli estensori del disegno di legge relativo all’adeguamento del c.p.m.g., è focalizzato sulle disposizioni contenute nelle Convenzioni di Ginevra e nel Primo Protocollo aggiuntivo. Si è tuttavia evidenziato come tali strumenti convenzionali costituiscano solamente la prima “tappa” (seppur, al momento, la più importante) in relazione allo sviluppo del diritto internazionale umanitario.

L’evoluzione più recente del diritto penale internazionale, infatti, è indubbiamente rappresentata dalle numerose pronunce emanate dai Tribunali internazionali ad hoc, nonché dalla recente elaborazione dello Statuto della ICC.

Di questa evoluzione, tuttavia, il legislatore italiano (pur avendo partecipato attivamente ai lavori che hanno portato all’elaborazione dello Statuto di Roma) sembra non avvedersi. Ecco che allora è auspicabile che una futura riforma del c.p.m.g. non trascuri la necessità dell’adeguamento a tali “nuovi” orientamenti del diritto penale internazionale.

Ciò comporta, inoltre,  che non è certamente preclusa la possibilità, per il legislatore italiano, di ‘integrare’ le fattispecie criminose contenute nel c.p.m.g. con altre norme incriminatrici capaci di esprimere nuove esigenze di tutela fortemente sentite dalla comunità internazionale. A tal riguardo, anzi, ben si potrà far riferimento allo stesso art. 8 dello “Statuto di Roma” contenente un dettagliato elenco di crimini di guerra molti dei quali non contemplati nel nostro codice.

La rinnovata sensibilità verso la disciplina internazional-penalistica, che con molte probabilità porterà alla nascita della Corte penale permanente, non deve infatti esonerare i singoli Stati dal compito di  adeguare e potenziare i loro strumenti interni di repressione. I riferimenti ai valori da proteggere, infatti, non mancano certamente. Già le singole costituzioni nazionali costituiscono un valido punto di riferimento; inoltre, le Convenzioni di Ginevra del 1949 costituiscono indubbiamente il più significativo baluardo a difesa dei diritti umani di fronte a tali orribili crimini. Tutto ciò dovrebbe costituire uno stimolo, per i singoli ordinamenti, ad uniformare il più possibile la loro legislazione in modo tale da non lasciare impuniti crimini che minano in radice la dignità e l’essenza stessa di ogni essere umano.

Quanto detto, tuttavia, non significa che l’adeguamento del diritto interno al diritto internazionale umanitario non debba avvenire “a tutti i costi”; in altre parole, occorre tener presente come le norme del diritto penale internazionale siano molto spesso prive di quel tecnicismo in grado di assicurare il rispetto dei principi fondamentali del diritto penale, primo fra tutti il principio di determinatezza. Il procedimento legislativo interno, il quale almeno tendenzialmente dovrebbe essere caratterizzato da una più attenta valutazione circa il rispetto dei principi del diritto penale consolidati (almeno con riferimento all’ordinamento italiano) nelle Carte costituzionali, molto spesso può essere in grado di garantire quella “ulteriore specificazione” alla norma penale in modo da renderla maggiormente tassativa. Ecco allora che, a nostro avviso, non sempre le norme elaborate a livello internazionale devono essere acriticamente recepite negli ordinamenti interni.

Enrico Amati - enramati@tin.it - gennaio 2001

(riproduzione riservata)


[1] Sebbene spesso venga utilizzata da alcuni autori la bipartizione tra diritto penale internazionale (inteso come ramo del diritto interno aperto agli aspetti internazionali) e diritto internazionale penale (inteso come vera e propria branca del diritto internazionale), riteniamo opportuno in questa sede (pur senza negare validità a tale bipartizione) ritenere le due terminologie fra di loro fungibili. Sulla bipartizione si veda: Mantovani, Diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova, 1992, p. 911 s.; Pisani, La “penetrazione” del diritto internazionale penale nel diritto penale italiano, in Ind. Pen., 1979, p. 5 s.; Caraccioli, Manuale di diritto penale. Parte generale, Cedam, Padova, 1998, p. 80-81.

[2] AMNESTY INTERNATIONAL, Nunca mas. Mai più al di sopra della legge, Ed. Cultura della Pace, Firenze, 1997, p. 90.

[3] Si parla, in tal caso di Jus in bello in contrapposizione con lo Jus ad bellum. Il primo è costituito da quelle “regole” che i contendenti devono rispettare nel corso di un conflitto armato; il secondo, invece, qualifica negativamente ogni tipo di aggressione alla sovranità di altri Stati. In tale ultimo caso, dunque, il diritto non si limita a reprimere determinate condotte poste in essere in tempo di guerra, ma tende a prevenire lo stesso insorgere del conflitto.

[4] Il concetto di ‘crimine internazionale’ da noi utilizzato fa esclusivo riferimento ai crimini che danno luogo ad una responsabilità penale individuale con esclusione, quindi, di quei crimini che danno luogo ad una responsabilità internazionale dello Stato; cfr. MARCHESI, La Corte penale internazionale: ruolo della Corte e ruolo degli Stati, in AA.VV., Crimini internazionali tra diritto e giustizia. Dai Tribunali Internazionali alle Commissioni verità e Riconciliazione, (a cura di Illuminati, Stortoni, Virgilio), Giappichelli, Torino, 2000, p. 27.

[5] Diana, Il realismo di un’utopia (recensione a: M. Cherif Bassiouni, “A draft international criminal code”, Netherlands, Sijthoff and Noordhoff, 1980), in Rass. giust. militare, 1982, p. 122.

[6] Manzini, Trattato di Diritto Penale Italiano, vol. I, Torino, 1933, p. 137

[7] Il testo dello Statuto in italiano è pubblicato in Gazz. Uff. del 19.12.93, Serie generale, pag. 65 s., e in appendice a AA.VV., Crimini internazionali, cit., p. 233 s.; il testo in inglese e la giurisprudenza sono consultabili presso il sito internet ufficiale dell’ICTY all’indirizzo: www.un.org/icty/basic.htm.

[8] Il Testo dello Statuto è consultabile in www.ictr.org Ampia è la letteratura sui due Tribunali internazionali. Si veda, in particolare, Bassiouni, Indagine sui crimini di guerra nell’ex Iugoslavia. L’operato della commissione degli esperti del Consiglio di Sicurezza e il suo rapporto finale, Giuffrè, Milano, 1997, p. 17 s.; BASSIOUNI-MANIKAS, The Law of the International Criminal Tribunal for the Former Iugoslavia, Irvington, New York, 1996, p. 1 s.; Bernardini, Il Tribunale penale internazionale per la (ex) Iugoslavia: considerazioni giuridiche, in I diritti dell’uomo: cronache e battaglie, p. 15 s.; Carella, Il Tribunale penale internazionale per la ex-Iugoslavia, in Interventi delle Nazioni Unite e Diritto internazionale, a cura di Picone, Cedam, Padova, 1995, p. 1 s.; Cassese, Il Tribunale penale internazionale dell’ONU per i crimini nel Ruanda, in dir. Pen. e proc., 1995, p. 294 s.; ID, The International Tribuanl for the Former Iugoslavia and the Imlementation of International Humanitarian Law, in Condorelli-La Rosa-Scherer, Les Nations Unies et droit international humanitarire, p. 229 s.; Jones, The practice of the International Criminal Tribunal for the Former Iugoslavia and Rwanda, Trans. Publ., New York, 1998, p. 1 s.; Meron, The Case for War Crimes in Iugoslavia and the Development of International Law, in Foreign Affairs, 1993, p. 122 s.; Mori, Sul tribunale internazionale per la ex Iugoslavia e su altre giurisdizioni criminali internazionali, in Scritti Barile, 1995, p. 355 s.; Morris-Scharf, An Insider’s Guide to the ICTY, New York, 1995, p. 1 s.; Nunziata, Il Tribunale internazionale per i crimini nell’ex Iugoslavia. Un modello per una generale giurisdizione internazionale penale, in Giust. Pen., 1995, III, c. 232 s.; Vassalli, Il Tribunale internazionale per i crimini commessi nei territori dell’ex Iugoslavia, in Leg. pen., 1994, p. 335 s. e in ID., La giustizia penale internazionale, Giuffrè, Milano, 1995, p. 149 s.; ID., Il “Tribunale penale internazionale” per la (ex) Jugoslavia: considerazioni giuridiche, in I diritti dell’uomo, 1993, p. 15 s.; Vitucci, Il Tribunale ad hoc per la ex Iugoslavia e il consenso degli Stati, Milano, 1998, p. 1 s.; Weckel, L’institution d’un Tribunal international pour la répression des crimes de droit humanitaire en Yugoslavie, in Annuaire francais de droit international, p. 232 s.; Zappalà, Due anni di funzionamento del Tribunale internazionale per l’ex Iugoslavia: tra bilanci e prospettive, in Leg. pen., 1996, p. 641 s.; Lescure-Trintignac, International justice for Former Iugoslavia. The working of the International Tribunal of the Hague, Kluwer Law Int., London/Boston, 1996, p. 1 s.

[9] Le quattro Convenzioni di Ginevra del ’49, unitamente ai due Protocolli aggiuntivi del ’77, costituiscono le principali fonti convenzionali del diritto bellico. In particolare, le quattro Convenzioni riguardano: la prima, il miglioramento delle condizioni dei feriti e dei malati delle forze armate in campo; la seconda, il miglioramento delle condizioni dei feriti, dei malati e dei naufraghi delle forze armate sul mare; la terza, il trattamento dei prigionieri di guerra; la quarta, la  protezione delle persone civili in tempo di guerra. Il Protocolli aggiuntivi, invece, si riferiscono il primo alla protezione delle vittime di conflitti armati internazionale, il secondo alla protezione delle vittime di conflitti armati interni. Il testo ed il commentario alle Convenzioni di Ginevra ed ai Protocolli aggiuntivi è reperibile al sito del Comitato internazionale della Croce Rossa: www.icrc.org

[10] Dal punto di vista penalistico è importante sottolineare come le Convenzioni medesime prevedano l’obbligo, per i singoli Stati, di punire le “gravi infrazioni” delle Convenzioni stesse. Vengono definite “gravi infrazioni” le maggiori violazioni del diritto umanitario internazionale che possono essere punite da qualsiasi Stato in base al principio della punibilità universale. La maggior parte delle violazioni delle Convenzioni di Ginevra e dei Protocolli Aggiuntivi non sono considerate “gravi infrazioni”: molte sono comunque considerate crimini di guerra, anche se gli Stati non hanno l’obbligo di estradare o processare i colpevoli come per le infrazioni gravi (si tratta, in questo caso, delle c.d. “violazioni gravi”). Occorre inoltre sottolineare come l’obbligo di intervento penale si riferisca solamente ai crimini commessi nel quadro di in conflitto internazionale, mentre nessun obbligo di intervento è previsto per le gravi violazioni commesse nell’ambito di un conflitto interno (art. 3 comune alle quattro Convenzioni e II Protocollo Aggiuntivo).

[11] Il c.d. “diritto dell’Aja” (comprendente alcune delle Convenzioni stipulate all’Aja nel 1907 in tema di leggi e costumi di guerra, nonché varie altre Convenzioni che proibiscono l’uso di certi tipi di armi) conterrebbe le regole di combattimento e disciplinerebbe i diritti ed i doveri dei neutrali. Esso sarebbe contrapposto al c.d. “diritto di Ginevra” (meglio conosciuto come diritto umanitario dei conflitti armati), il quale avrebbe per oggetto la protezione della popolazione civile e delle persone in potere del nemico. Tale dicotomia, tuttavia, risulta oggi attenuata: infatti, il Protocollo Addizionale del ’77 contiene regole che interessano entrambi i settori di diritto menzionati; inoltre, la stessa Corte internazionale di giustizia, nel parere sulla liceità delle armi nucleari del 1996, ha affermato che le due branche si sono fuse in un unico sistema di diritto (Cfr. ICJ, Reports, 1996, par. 75; Ronzitti, Diritto internazionale dei conflitti armati, Giappichelli, Torino, 1998, cit, p. 18 e 103).

[12] Si veda, in particolare, Tadic jurisdiction decision on the defence motion for iterlocutory appeal on jurisdiction, Appeal Chamber , 2 ottobre, 1995, IT-94-1-AR72. La decisione è consultabile al sito ufficiale dell’ICTY: www.un.org/icty/judgement.htm

[13] A differenza di quanto è avvenuto per i due Tribunali ad hoc, per l’istituzione dell’ICC si è scelto lo strumento dell’accordo multilarale (A/CONF. 183/9 del 17 luglio 1989). Documenti aggiornati relativi alla ICC sono reperibili presso i siti: www.un.org/icc e www.iccnow.org; Lo Statuto della ICC è consultabile in italiano (si tratta di una traduzione non ufficiale) al sito:  www.giustizia.it/cassazione/accordi/ratifica232_99.html, Ampia è la letteratura inerente alla ICC. Si veda, in particolare: Jescheck, La Corte Penale Internazionale. Precedenti, lavori preparatori, statuto, in Ind. pen., 2000, p. 297 s.; Patruno, I passati tentativi di istituire una Corte Penale Internazionale, in Cass. pen., 2000, p. 781 s.; Ambos-Guerrero, El Estatudo de Roma de la Corte Penal International, Bogotà, 1999, 1 s.; Cassese, “The Statute of the International Criminal Court: some preliminary reflections”, in European Journal of int. law, 1999, p.  144 s.; Reale, Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale, in AA.VV., Lo Statuto, cit., p. 34 s., Vassalli, “Statuto di Roma”, Note sull’istituzione di una Corte penale internazionale, in Riv. studi politici int., 1999, p. 1 s.; Arsanjani, The Rome Statute of the International Criminal Court, in American Journal of Intern. law, 1999, p. 22 s.; Zimmermann, Die Schaffung eines standingen Internazionalen Strafgerischshofes. Perspektiven und Probleme vor des Staatenkonferenz in Rom, in Zeitscrift fur auslandisches offentliches Rechts und Volkerrecht, 1998, p. 68 s.; Condorelli, La Court Pénale internationale: Un  pas de géant (pourvu qu’il soit accomli…), in Rev. gen. de droit int. public, 1999, p. 7 s.; Carrillo-Salcedo, La Cour Pénale internationale: l’humanité trouve une place dans le droit international, ivi, p. 23 s.; Sur, Vers une Cour Pénale internationale: la Convention de Rom entre les ONG et le Conseil de Sécurité, ivi, p. 29 s.; Weckel, La Cour Pénale internationale – Présentation générale, ivi, 1998, p. 983 s.; Lattanzi, Competence de la Cour Pénale internationale et consentement des Etats, ivi, 1999, p. 425 s.; Zwanenburg, The Statute for an International criminal Court and the United States: Peace Without Justice?, in Leiden Journal of International Law, 1999, p. 1s.; ID., The Statute for an International criminal Court and the United States: Peacekeepers under fire?, in European Journal of International Law, 1999, p. 124 s.; Wedgwood, The International Criminal Court: An American view, ivi, p. 93 s.; Hafner-Boon-Rubesame-Huston, A Response to the American View as Presented by Ruth Wedgwood, ivi, p. 108 s.; Venturini, Da Roma l’ok a una giustizia universale contro i delitti che offendono l’umanità, in Guida dir., 1998, n. 30, p. 13; Chiavario, Contro orrori di guerra e violenze sistematiche agli Stati creano una Corte penale permanente, ivi, p. 11 s.; ID., Le nuove Corti Penali internazionali: primi appunti in tema di esecuzione delle condanne, in Cass. pen., 1999, p. 1010 s.; Mori, Prime riflessioni sui rapporti tra la Corte penale internazionale e Organizzazione delle Nazioni Unite, in Comun. int., 1999, p. 29 s.; Gargiulo, Il controverso rapporto tra Corte penale internazionale e Consiglio di sicurezza per la repressione dei crimini di diritto internazionale, ivi, p. 428 s.; Donat Cattin, Lo Statuto di Roma della Corte Penale interanzionale: riflessioni a margine della Conferenza Diplomatica dell’ONU, ivi, 1998, p. 703 s.; Ferrari Da Passano, I Tribunali internazionali per i diritti umani, in Civiltà catt., 1999, III, p. 403 s.; Pastore, Sui fondamenti etico-giuridici della Corte penale internazionale, in Diritto e Società, 2000, p. 83 s.; Pocar, Creazione della Corte penale internazionale, in Rel.int., 47, 1998, p. 149 s.; Triffterer (ed.), Commentary on the Roome Statute, 1999, Nomos Verlagsgesellshaft, Baden-Baden, 1999, passim; Politi, The Rome Statute of the ICC: Rays of Light and Some Shadows, dattiloscritto presentato alla Conferenza internazionale “The Rome Statute of the International Criminal Court: A Challenge to Impunity”, Trento, 13-15 maggio, 1999; AA.VV., Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, vol. I, a cura di Lattanzi-Shabas, Il Sirente, Teramo, 2000; TISCI (ed.), La Corte penale internazionale, Napoli, 1999; LEE (ed.), The International Criminal Court.The Making of the Rome Statute, The Hague, London, Boston, 1999; AA.VV., The International Criminal Court: Observations and Issues before the 1997-98 Preparatory Committee; and Administrative and Financial Implications, Join Project of: International Association of Penal Law – International Human Rights Law Institute, De Paul University – International Institute of Higher Studies in Criminal Sciences – International Law Association, American Branch, Committee on ICC, Erès, Toulouse, 1997.

[14] Sul processo storico che ha portato all’istituzione della ICC si veda, in particolare: Patruno, I passati tentativi, cit., p. 781 s.

[15] Report of the Preparatory Committee on the Establishment of an International Criminal Court, Introduction and Draft Organization of Work, UN Doc. A/Conf. 183/2, 1998, consultabile sul sito www.un.org/law/icc/docs.htm

[16] Report of the Preparatory Committee on the Establishment of an International Criminal Court, Draft Statute for the International Criminal Court and Draft Final Act of the Diplomatic Conference on the Establishment for an International Criminal Court, UN Doc. A/Conf. 183/2 Add. 1, del 14 aprile 1998, consultabile al sito internet indicato nella nota precedente. Tale Progetto riunisce per la prima volta in un unico atto materie finora separate: il diritto penale internazionale sostaziale, l’ordinamento interno della Corte e le principali regola di procedura.

[17] Sullo svolgimento dei lavori alla Conferenza di Roma, si veda Bassiouni Negotiating the Treaty of Rome on the Establishment of an International Criminal Court, dattiloscritto presentato al Seminar for young penalists presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali (ISISC), Siracusa, 12-15 settembre 1999, p. 1 s.; parti dell’articolo sono contenute in Bassiouni, Historical Survey: 1919-1998, in The Statute of the International Criminal Court: a documentary history, M. Cherif Bassiouni ed., 1999, pag. 1 s.

[18] Alla data del 31 dicembre 2000 lo Statuto risultava ratificato 27 stati. Vedi,  www.un.org/law/icc/statute/status.htm

[19] Vassalli, Statuto di Roma, cit., p. 10.

[20] La terminologia fa riferimento al lavoro di Politi, The Rome Statute, cit., p. 1.

[21] In relazione a tale crimine, tuttavia, il par. 2 dell’art. 5 stabilisce che “La Corte eserciterà il prorpio potere giurisdizionale sul crimine di aggressione successivamente all’adozione in conformità agli articoli 121 e 123, della disposizione che definirà tale crimine e stabilirà le condizioni alle quali la Corte potrà esercitare il proprio potere giurisdizionale su tale crimine. Tale norma dovrà essere compatibile con le disposizioni in materia della Carta delle Nazioni Unite”.

[22] Si tratta degli artt. 2 e 3 dello Statuto ICTY; dell’art. 4 dello Statuto dell’ICTR e dell’art. 8 dell’ICC.

[23] Il discorso è in parte diverso per quanto riguarda l’ICC, dato che ai sensi dell’art. 9 gli elementi dei crimini dovranno essere specificati dall’Assemblea degli Stati parte. Il testo definitivamente approvato dalla International Law Commission il 30 giugno 2000 è consultabile in www.un.org/law/icc/statute/elements/elemfra.htm

[24] Cfr. Virgilio, Verso i principi, cit., p. 46; si venda anche Lombois, Droit pénal international, II, Dalloz, 1979, p. 151.

[25] Non si dimentichi che gli Statuti dei due Tribunali ad hoc sono nati attraverso una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Anche il processo di negoziazione che ha portato all’adozione dello Statuto di Roma, tuttavia, non è esente da critiche. Come è stato efficacemente messo in luce dal Bassiouni (in Le fonti e il contenuto del diritto penale internazionale, Giuffrè, Milano, 1998, p. 5), infatti, la metodologia e le tecniche utilizzate nell’elaborazione dei trattati multilaterali è profondamente diversa da un vero e proprio procedimento legislativo e molto spesso gli estensori non hanno particolari conoscenze nel campo penalistico. Tutto ciò si è indubbiamente riflesso sia sulla strutturazione dell’art. 8, relativo all’elencazione dei crimini di guerra, sia in relazione alla disciplina della Parte generale.

[26] Sulla funzione “costituente” della giurisprudenza nella creazione dei principi del diritto penale internazionale si veda: Fronza, I crimini di diritto internazionale nella giurisprudenza: il caso Akayesu, in AA.VV., Crimini internazionali, cit., p. 73.

[27] Sul ruolo della comparazione come metodo di costruzione della dogmatica si  veda Donini, Metodo democratico e metodo scientifico nel rapporto fra diritto penale e politica, relazione tenuta al convegno di Toledo “Critica y justification del derecho penal”, 12-16 aprile 2000. In generale, sulla natura e sul ruolo della comparazione si vedano: Gorla, voce “Diritto comparato e straniero”, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1989, p. 1 s.; Pradel, Droit penale comparé, Dalloz, Paris, 1995 p. 1 s.; Jeschek, Sviluppo, compiti e metodi della comparazione di diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1965, p. 281 s.; Bernardi, Les principes de droit international et leur contribution à l’harmonisation des systém punitifs nationaux, in Rev. de Science criminelle et de droit pénal comparé, 1994, p. 255 s.; David, voce, “Unificazione internazionale del diritto”, in Enc. giur. Treccani, Roma, 1994, p. 1 s.

[28] Ovverosia in subordine, in primo luogo, alle norme dello Statuto e del Regolamento di procedura e di prova; in secondo luogo, ai trattati applicabili ed ai principi ed alle regole di diritto internazionale, ivi compresi i principi consolidati del diritto dei conflitti armati. Vedi art 21, Statuto ICC.

[29] Sul punto: Virgilio, Verso i principi, in AA.VV., Crimini internazionali, cit. p. 50

[30] Vigilio, Verso i principi, in AA.VV., Crimini internazionali, cit., p. 67

[31] Il principio di complementarietà e ricavabile dal Par. 10 del Preambolo, ai sensi del quale “la Corte penale internazionale istituita ai sensi del presente Statuto è complementare alle giurisdizioni penali nazionali”; esso è inoltre ricavabile dagli artt. 1, 17, 18 e 20.

[32] Cfr. DINI, Operazioni militari internazionali e militari italiani, in Questione giustizia, 1999, p. 864.

[33] Cfr. MAZZI, “Leggi e usi di guerra (reati contro)”, in Enc. giur. Treccani, vol XVIII, Roma, 1990,, p. 1 s.; GROSSO, Prospettive di riforma dei codici penali militari, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 735 s,; FUMO, Il sistema penale militare bellico alla luce delle Convenzioni di Ginevra del 1949 e della Carta Costituzionale, in Arch. pen., 1985, p. 541 s.;

[34] Sull’esigenza di adeguamento della legislazione interna in relazione agli Statuti dei Tribunali ad hoc, si veda TALAMANCA, Obblighi degli Stati e leggi interne di attuazione, in AA.VV., Verso un Tribunale permanente internazionale sui crimini contro l’umanità. Precedenti storici e prospettive di istituzione (a cura di Ungari-Malintoppi), Euroma, Roma, 1998, p. 111 s.

[35] Ciò significa che sia il tribunale internazionale sia i tribunali interni hanno giurisdizione rispetto ai crimini indicati dagli statuti dei tribunali ad hoc; si tratta in effetti di condotte che sono previste come reato in qualunque codice penale, di pace o di guerra. Tuttavia, il tribunale internazionale gode di una primazia rispetto ai giudici interni: in altre parole, il tribunale può, per qualsiasi procedimento, chiedere che il caso trattato da un giudice di uno stato sia deferito alla propria competenza.

Sul carattere complementare della ICC rispetto alle giurisdizioni statali, si veda Marchesi, La Corte penale internazionale, in AA.VV., Crimini internazionali, cit., p. 31 s.; Lattanzi, Compétence de la Court pénal internationelle et consentent des Etas, in Revue general de droit international public, 1999, p. 426 s.; ID, The complementary character of the jurisdiction of the Court with respect to national jurisdictions, in AA.VV., The International Criminal Court. Comments on the Draft Statute (a cura di F. Lattanzi), Ed. Scientifica, Napoli, 1998, p. 1 s.

[36] Cfr. BENVENUTI, Il ritardo della legislazione italiana nell’adeguamento al diritto internazionale umanitario, con particolare riferimento alla disciplina dei conflitti armati non internazionali, in AA.VV., Crimini di guerra e competenza delle giurisdizioni nazionali, Giuffrè, Milano, 1998, p. 122.

[37] Cfr. art. 10, lett a), Statuto ICTY; art. 9, lett. a), Statuto ICTR. Una disposizione simile era prevista dall’art. 42 del progetto di Corte permanente internazionale; l’attuale art. 20 (Ne bis in idem), invece, ha eliminato siffatta ipotesi.

[38] Il Progetto, consultabile in www.senato.it/leg/13/BGT/Testi/Ddlpres/00003176.htm ed in appendice a AA.VV., Crimini di guerra, cit., p. 308 s., giace tuttora in Parlamento.

[39] Sul punto si veda: VENTURINI, War crimes, in AA.VV., Essays on the Rome Statute of the International Criminal Court, vol I, (a cura di Lattanzi-Schabas), Il Sirente, Teramo, 2000, , p. 177.

[40] Sugli obblighi costituzionali espressi ed “impliciti” di incriminazione, si veda: MAZZACUVA, Modello costituzionale di reato. Le “definizioni” del reato e la struttura dell’illecito penale, in AA.VV., Introduzione al sistema penale (a cura di Insolera-Mazzacuva-Pavarini-Zanotti), Giappichelli, Torino, 1997, p. 75 s.; MARINUCCI-DOLCINI, Corso di diritto penale, Giuffrè, Milano, 1999, p. 343 s.

[41] Si veda DAVID, La loi belge sur les crimes de guerre, in Rev. belge de droit int., 1995, p. 668 s.

[42] In particolare si veda la Parte XXIV (Delitti contro la comunità internazionale), Capo III (Delitti contro le persone e i beni protetti in caso di conflitto armato); in dottrina: RODRIGUEZ VILLASANTE Y PRIETO, Protecciòn penal de las victimas de la guerra en el còdigo penal español de 1995, in Réunion d’experts sur la répression nationale des violations du droit international humanitaire (23-25 sptembre, 1997), a cura del Comitato internazionale della Croce Rossa.; BENVENUTI, Il ritardo, in AA.VV., Crimini di guerra, cit., p. 115.

[torna alla primapagina]