Ernesto Cianciola, Giustizia e Perdono. Brevi note sul cosiddetto Pentitismo

 

Praemiare pertinet ad quemlibet,
punire non pertinet nisi ad ministrum legis.
S. Tommaso, Summa theologiae,I-II,q.92,art.11.

1.      Introduzione.

Quando si parla di pentitismo, a mio modo di vedere, il primo logos collegato è: perdono.

A qualcuno, infatti, potrebbero venir in mente, come termini correlati, quasi sottile gioco di parole, sciarada, colpa, peccato, penitenza oppure reato o qualcosa di simile.

Non nego che tale possibilità vi sia.

Il problema è che, storicamente, la parola pentitismo è stata messa in relazione, come si vedrà tra breve, a un preciso status di un particolare soggetto atto a ricevere un favor a determinate condizioni:

a.       di essere già colpevole;

b.      di avere, in particolare, commesso un crimine di una certa gravità;

c.       di volere collaborare con gli organi inquirenti facendo opera di confessione e delazione;

Appare, quindi, essere costitutiva del soggetto una situazione particolare, quasi che esista la condizione di (essere) pentito definibile come quel soggetto sul quale debba esercitarsi un perdono da parte di qualcuno (lo Stato).

Ecco perché, a mio parere, i due termini: pentito e perdono sono tra loro uniti in un rapporto che è quasi causale.

Nel suo aspetto diceologico, quando si parla di perdono non può che farsi riferimento alla evangelica espressione: “Iesus autem dicebat: Pater, dimitte illis; non enim sciunt quid faciunt“ [1] .

Orbene, da una prima e fugace lettura di tale brano, emergono quelli che appaiono essere i requisiti minimi per dare/ottenere, in generale, il perdono:

·                    Necessita che qualcuno lo richieda per altri;

·                    Un’autorità superiore che possa [2] concederlo;

·                    La non consapevolezza di quel che si è compiuto/fatto da parte di colui che lo invoca/ottiene [3] .

Ma a ben analizzare il contemporaneo e noto fenomeno del pentitismo [4] , non sembra possano qui ritrovarsi, ictu oculi, tutti gli elementi innanzi indicati che, sempre a mio parere, dovrebbero essere compresenti affinché possa parlarsi a pieno titolo di esercizio dell’azione cui irrogare il perdono [5] .

Ecco la ragione di questa breve riflessione.

Cercare di fare chiarezza su un problema che ha implicazioni morali, religiose e, ovviamente, giuridiche.

Al di là della soglia del diritto di ognuno di dire e di mentire in piena libertà.

E che soddisfi innanzitutto la nostra umana ragione [6] con e per quella razionalità intrinseca che, di fronte a un’azione, alla fine del compimento di un atto, ci fa pronunciare con infinito e naturale orgoglio: è giusto! [7]

In fondo: il fenomeno del pentitismo è giusto o no?

E, certamente, la risposta non dovrà essere eminentemente soggettiva: è giusto per Tizio o per Caio. Ma secondo una impostazione oggettiva: se il pentitismo in sé sia o meno un fatto giusto.

Ma il tutto può prescindere dal dato umano della relazione tra io e altro, tra il e tutto quello che lo circonda?

Il pentimento quale riflesso ha su un altro soggetto [8] diverso, si intende, dal…. perdonando?

Ha una incidenza sul soggetto che lo invoca? Ed è uguale per tutti e in tutti i casi?

Quale ruolo gioca la coscienza?

È necessario e in che cosa consiste il ravvedimento?

Esiste uno iato fattuale o uno apparente nel rapporto io/sé [9] del pentendo e di coloro che devono rimettere il peccato?

Non si dimentichi che il fenomeno, contingente e attuale, nasce sotto la stella della stagione dell’emergenza [10] o anni di piombo al fine di consentire a un potere (quello giudiziario) di assicurare all’intero sistema la necessaria stabilità a tutela dell’ordine e della sicurezza collettiva [11] . E di fatto consistente nel favorire chi si fosse pur macchiato di crimini gravissimi, attraverso un’opera di collaborazione, con una diminuzione delle pene [12] e una attenuazione del giudizio di colpevolezza [13] .

Garantendo [14] , in fondo, che gli altri, i cittadini, avrebbero gradito e tollerato quest’atto di benevolenza, di clemenza, per il superiore fine della attuazione pratica della giustizia [15] .

Un perdono [16] , un atto di grande colpo di spugna [17] , per proteggere la comunità da altri soggetti che hanno/avrebbero commesso crimini più gravi. E per far ciò, apparirebbe quasi necessario perdonare (soltanto un po’) colui che collabora con gli organi inquirenti facendo, però, espressa richiesta di tanto con un atto, un gesto di reprimenda consistente nella confessione di un reato commesso quasi pentendosi di quanto compiuto. Questi sarebbero i requisiti minimi che dovrebbero pre-esistere al momento della concessione del beneficio invocato.

Certo che conversione, pentimento, confessione, ravvedimento, perdono sono “termini forti” che non si attagliano in modo perfetto agli attori della commedia tutta umana che si recita nelle stanze della giustizia.

E, forse, s’è fatta una grande confusione di concetti al solo fine di giustificare un’azione tutto sommato banale e corrente consistente (solamente e di fatto) nel mitigare le sanzioni che andrebbero inflitte alla condizione che il soggetto al quale dovrebbero, per l’appunto, essere applicate, aiuti effettivamente l’autorità che indaga al fine di assicurare al potere altri soggetti rei di reati più o meno connessi, più o meno gravi; ma comunque colpevoli [18] .

Si sarebbe quindi attribuita troppa enfasi all’esercizio di un potere politico; quasi una giustificazione di ordine morale che nella specie non esiste.

In verità non si può prescindere dal premettere ad ogni analisi, e in principal modo alla presente, che sebbene oggetto di riflessione sia l’uomo, pur tuttavia i punti di osservazione mutano e, conseguentemente, quasi oggetto di studio di psicoanalisi, l’essere umano si diversifica e cangia in modi e momenti a volte paralleli a volte contrapposti a volte sovrapposti.

Si pensi alla diversità tra il piano etico, quello sociale, quello individuale, quello religioso e quello giuridico. Pur essendo comune, appunto, l’in sé considerato (l’uomo), questi appare, ai fini della responsabilità, in modo differente sì che il suo agire avrà ripercussioni e conseguenze di tipo diverso. Si pensi a un omicidio colposo che rimane un crimine per la coscienza dell’individuo, per la giustizia degli uomini diventa un episodio abbastanza semplice e facilmente… risarcibile, per la morale sarebbe comunque riprovevole, eccetera [19] .

Occorre quindi limitare il campo di indagine pur tentando di analizzare un minimo di fonti intese in senso lato. Gli spunti di questo breve studio sono:

·        Cosa debba intendersi per perdono;

·        Chi possa o debba perdonare;

·        Chi possa/debba essere perdonato;

·        Quando, come e perché;

·        Se vi sia perdono in presenza di qualche utilitas;

È evidente che l’analisi non potrà essere ultimativa né satisfativa. Tenterà di pervenire a una qualche verità minima che soddisfi sempre la razionalità che, essendo umana, è naturalmente limitata.

Avremo, così, l’attenuante del tentativo…..!

2.      La misura del perdono.

Preliminare è capire cosa debba intendersi per perdono.

Inevitabile il riferimento a quello cristiano [20] , posto che appare come il modello, per evidente matrice culturale, al quale si sarebbe riferito il legislatore [21] .

“… il dono e il per-dono, entrambi fortemente radicati di sensibilità di ognuno. Dono e perdono sono gratificanti per chi li dà e chi li riceve, sono espressione di generosità gratuita che non si attende corrispondenza; tuttavia possono tingersi di calcolato utilitarismo o di superbo senso di superiorità: si pensi al motto dannunziano “io ho quel che ho donato”.” [22]

Nel brano riportato c’è il senso del presente saggio.

Capire quando ci si trovi di fronte a un grande gesto di clemenza e quando, invece, si voglia spacciare per atto morale ciò che sia meramente egoistico e di convenienza [23] .

Il perdono è essenzialmente gratuito.

La sua struttura profonda non consente che vi sia la corresponsione, da parte di chi lo riceve, di una qualche cosa che ne rappresenti, ne integri una sorta di contraccambio. E, dall’altra parte, non esiste la pretesa a un determinato comportamento del perdonando.

Perdonante e perdonando [24] , allora, sono su di un piano d’assoluta pariteticità ed eguaglianza, differenziati soltanto rispetto a un ipotetico osservatore.

Quello che può verificarsi è che il perdono può essere richiesto ovvero concesso. La differenza [25] risiede solo in un intuibile ordine di prospettiva. Ma non incide sulla sua efficacia o implica differenti valutazioni da parte dei soggetti del perdono (attivo che lo dà e passivo che lo riceve) o del perdono in se stesso considerato [26] .

Il motivo è semplice: a monte del perdono, infatti, biblicamente siede la carità.

E carità/gratuità sono termini tra loro non differenziabili né scindibili [27] .

Nel gesto caritativo [28] del perdono la pretesa è un in sé ingiustificato e ingiustificabile.

Ne discende da tanto che, affinché vi sia un effettivo perdono, il perdonante nulla deve concedere di più al perdonando e il perdonato, una volta ottenutolo, non debba sentirsi in dovere di ringraziare con gesti, fatti o parole il perdonante.

Il che implica che il perdono debba essere concesso [29] senza nulla chiedere e/o richiedere e, ovviamente, debba essere richiesto senza doverselo necessariamente veder concesso e, quindi, aspettarselo e senza offrire nulla in cambio.

Questa è una posizione di assoluta pariteticità dalla quale bisogna necessariamente partire per comprendere se ciò che costituisce atto di perdono possa o meno realizzarsi. Altrimenti si cadrebbe nel contesto del motto dannunziano di cui sopra o, per dirla in altro modo, nell’egocentrismo più esasperato.

Infatti in un primo caso ci troveremmo nell’esercizio calcolato e mirato di un potere (concedo il perdono a chi mi conviene, come, quando e quanto io lo voglio) e nel secondo di un gesto invocato per non subire una giusta condanna [30] .

3.      Il senso e il prezzo del perdono.

Il perdono, infatti, viene concesso/richiesto per eliminare una colpa [31] .

Solamente chi abbia commesso qualcosa può beneficiare di un perdono.

Ma forse, qui, si tratta più di liberarsi da un senso di colpa che non da una colpa vera e propria.

Pur rivestendo il problema un aspetto coscienziale, si tratterebbe al più di un’operazione di rimozione piuttosto che di remissione.

In questa ottica, quindi, apparirebbe superfluo il riferimento al brano evangelico riportato all’inizio.

È indubbio che vi sia un equivoco non soltanto terminologico sul problema del pentitismo [32] .

Come giustamente notava Adolfo Longhitano (a proposito del valore della penitenza in relazione al pentitismo dei pentiti e dissociati), “dietro un linguaggio apparentemente uguale, esiste un mondo in cui le analogie e le diversità sono molto più frequenti delle identità” [33] .

La “figura del collaborante, al pari di quella del confidente di polizia qualificato come essere abietto ma indispensabile [34] è oggi di indubbia utilità per le indagini degli organi inquirenti tutti.

E ciò a prescindere anche dai ruoli che si giocano sul palcoscenico della giustizia formale.

Basti por mente al rapporto che si viene a instaurare tra un pentito e il suo difensore [35] .

In ogni procedimento, in modo riduttivo ma essenziale, l’avvocato è l’intercessore tra un soggetto e la giustizia rappresentata dal magistrato.

Nel caso dei pentiti, invece, la difesa avrebbe ben poco da dire o chiedere!

L’intervento legislativo, si è detto, è da considerarsi più nell’ottica della premialità che in quella della sanzione. In ciò ingenerando un equivoco.

A tal proposito ritengo eccessivo il riferirsi alla categoria del premio; in fondo pur sempre di sanzione si tratta.

La ricompensa è sempre vista dall’ordinamento come un riconoscimento (negativo) a una azione vietata. Parlare di premio è riferirsi, quasi rifugiarsi in una categoria tipica della morale e non del diritto inteso, appunto, come ordinamento [36] e, quindi, come interconnessione normativa finalizzata al raggiungimento della regolamentazione (controllo della vita) sociale.

Forse sarebbe più appropriato parlare del funzionalismo giuridico come idea madre della legislazione sul pentitismo [37] .

L’argomento è stato trattato diffusamente da diversi autori e sapientemente somministrato ai … pazienti cives!

La confusione di linguaggi [38] ha creato una falsa (pseudo) aspettativa proprio in chi fruisce della sanzione [39] .

Una cosa è la mitigazione della pena (da applicarsi e doverosamente) altra cosa è la ricompensa/premio [40] per aver adempiuto a un precetto [41] !

Chi obbedisce a una norma, a un comando non può [42] aspettarsi nulla. Proprio come nella tecnica del perdono. È il dovere insito nella obbedienza.

La ricompensa per aver adempiuto il proprio dovere, forse, è una categoria riconducibile alla educazione piuttosto che al diritto e senza scivolare in pericolosi campi pavloviani!

Che lo Stato abbia sostanzialmente adottato la tattica e la tecnica del perdonatore per soddisfare esigenze di politica criminale, appare scontato [43] .

Il criminale non è un povero peccatore in cerca di redenzione, né lo Stato è l’intermediatore con un Potere Superiore al quale ci si rivolge invocando la pietas per il ristabilimento della communio violata.

Al più si potrebbe notare come lo Stato eserciti, apparentemente, per mezzo di uno dei suoi poteri, il baconiano sapere è potere. Attraverso la conoscenza degli avvenimenti comunque ottenuti da un soggetto, cerca di ricostruire una propria verità (dei fatti). A poco rilevando una effettiva corrispondenza tra diverse verità [44] . E così “sapendo” può: condannare, assolvere e perdonare. [45]

L’esercizio del perdono appare, quindi, come una terza categoria del possibile-giuridico-esercitatile.

Il gioco delle parole, poi, oltre all’intreccio dei linguaggi, apparentemente comuni ma che disvelano logiche con diverse finalità, [46] sono all’origine del grande equivoco sul pentitismo.

Lo Stato non voleva né vuole redimere nessuno né tanto meno qualcuno vuole assicurarsi la vita (sociale) eterna. Esso resta il detentore del potere di irrogare le sanzioni [47] solamente negative e per i fini che, di volta in volta, reputati opportuni e doverosi [48] .

E non interessa sapere se il ravvedimento sia stato dettato da profonde ragioni etiche o da meri motivi di convenienza, se il pentendo/perdonando abbia sensi di colpa nel profondo del suo io o se, nel suo subconscio, si sia semplicemente insinuata l’idea di poterla fare franca nel minor tempo possibile o a costi accettabili.

Sono le regole degli uomini e per gli uomini che pre-valgono.

Logiche di mera convenienza e, pertanto, fattuali, hanno determinato l’uso sia dei collaboratori di giustizia (sic!) che del meccanismo del pentitismo.

E tutto ciò deve avvenire nel quadro orientativo di una realtà formale. [49] Infatti il momento accertativo della verità è da sempre stato ritenuto il processo. Al suo interno, però, ruotano parecchie verità [50] .

Alla verità del fatto si affianca quella del diritto e/o quella processuale.

Quest’ultima è, in effetti, quella che interessa, quasi epidermicamente, all’ordinamento che deve soddisfare le sue esigenze formali di tutela. Trattasi di un intervento apparente, quasi res sicut apparet nella logica anche premiale del diritto che si avvale di strumenti utili quali la statistica.

Al politico poco interessa sapere se vi sia stata vera e propria opera di pentimento, se si sia trattato di un falso o no, se ci sia stata una ingiusta imputazione a carico di altri pur di ottenere un risultato positivo nei propri confronti, quasi (un ritorno) al detto dannunziano.

Ma tant’è!

La verità del fatto, quella che effettivamente contiene in sé l’ombra della giustizia sostanziale, è sempre più lontana! [51]

Ai giuristi, in maniera quasi schizoide, vien fatto di pensare contemporaneamente a tre diversi modi di intendere la verità.

Il massimo che si possa richiede a un ordinamento nel suo istante applicativo (il processo) è una sintesi accordata, una unificazione dei tre aspetti aletici.

Ma, nel più dei casi, si assiste a una ripartizione degli stessi quasi in una aurea autonomia che porta a differenti risultati.

La verità del diritto è quella ideale che dovrebbe aiutare l’interprete, una volta possedutala, a giudicare secundum veritatem.

Ed è qui che il filtro coscienziale dovrebbe operare l’opera di ricostruzione dei fatti alla luce, appunto, della colpa e dei sensi di colpa, del ravvedimento effettivo e/o del pentimento, del perdono e della giustizia.

Ma la confusione sistematica dei linguaggi, lo schermo della politica, l’utilizzo della persona umana a fini pretestuosamente additati come superiori, giocano ruoli e strategie che allontanano tutti, noi e l’interprete e noi come interprete, dal procedimento fondente e fondante la verità quello della umana consapevolezza del vivere insieme e dell’in idem velle.

Le distinzioni emerse in questi brevi spunti di riflessione, inducono più che a contestare l’idea in sé sul e del pentitismo, a far pensare a una sua diversa impostazione [52] .

Non apparirebbe neanche improntato ai canoni minimi etici [53] il comportamento di uno Stato che, da una parte, consentisse/concedesse impunità o benefici a uomini che si sono macchiati di crimini efferati (anche non soltanto … politici) e, dall’altra, fosse irremovibile contro chi commette reati minori o di minor rilevanza mediatica [54] . “Lo Stato non può dimostrasi sensibile solo alla logica del do ut des, ma deve anche saper valutare dal suo punto di vista e con i suoi parametri di giudizio questo fatto nuovo della società italiana” [55] .

È forse lo stesso Stato che, alla fin fine, pare voglia liberarsi da uno strano senso di colpa: quello di non aver ben protetto e difeso tutti i suoi cittadini. E appare quasi costretto ad adoperare lo strumento del perdono per fare giustizia.

Anche questa è una probabile chiave di lettura dell’intero fenomeno.

E allora, da tale prospettiva, il pentitismo ha, come fenomeno politico e giuridico, direi di sistema, una sua giustificazione in quanto appare finalizzato a perseguire [56] comunque il bonum comune e che si realizza attraverso la duplice finalità di far pentire [57] un reo (anche per un miglior inserimento nella vita sociale) e sconfiggere la criminalità, promettendo una miglior sicurezza ai cittadini. Assicurando così la piena coesistenza o, se si preferisce, garantendo la coesistenzialità.

Infatti il fenomeno investe solo gli episodi più gravi, quelli che incidono maggiormente sul tessuto sociale, corpo laico e generale nel quale ci riconosciamo tutti come fratres, dove, quindi, anche il principio caritativo [58] diventa operante, funzionale e fondante.

Ernesto Cianciola

(marzo 2001 - riproduzione riservata)

[1] Luca,23,33,g-h.. Da notare, ma è una sottile sfumatura, che la traduzione letterale (Padre, perdonali; infatti non sanno quello che fanno) sembra la più in sintonia con lo spirito evangelico, piuttosto che quella più libera, ma più nota, del Padre perdona loro perché non sanno quello che fanno. Nella prima versione il perdono ha una consequenzialità logica ben definita: dovrebbe essere concesso dal Pater in virtù (enim, infatti) dello stato di non consapevolezza di coloro che hanno crocefisso l’Innocente. La forza del perdono, in buona sostanza, risiederebbe sì nella possibilità di azzerare le conseguenze poste contro chi compia una azione riprovevole/illegittima, di non irrogare alcuna la sanzione, ma soltanto nel caso in cui manchi la consapevolezza/responsabilità dell’azione medesima. Cosa ben diversa dal pentitismo di cui alla nota legislazione in materia!

Adolfo Bachelet iniziava una sua riflessione (Il perdono oltre il pentimento. La sconcertante misura dell’amore cristiano, in Vita e Pensiero, Milano, 1984, fasc. 2, pagg. 29-37) proprio con lo stesso brano evangelico.

L’altro brano tratto dal Pater Noster è sintomatico per altro verso. Qui è l’orante che chiede la rimessione dei propri peccati in funzione di una (quantomeno probabile) sua rimessione dei peccati (debiti) altrui. Et dimitte nobis debita nostra sicut et nos dimittimus debitoribus nostris.

Per vero, come risulterà in prosieguo, una cosa sono i peccati, altra i reati! Rimane fermo il concetto che il perdono va richiesto a chi possa concederlo. La promessa di rimettere i debiti altrui sta a significare che anche noi possiamo trovarci in posizione dominante e, quindi, dotati del potere di azzerare i conti. Anche noi, in fondo, possiamo perdonare.

È il grande dono della solidarietà!

[2] Non sembra insito nell’idea del perdono un gesto di doverosità. È la discrezionalità del perdonante a connotarlo, ancor più nel suo carattere spontaneo e senza compenso.

Episodi evangelici, per altro, sottopongono la concessione del perdono divino a quello del perdono delle colpe altrui (cfr.: Lc 6,36; Mt 18, 23.24; Mt 6,15). La condicio sine qua non per ottenere un gesto divino.

È ovvio che qui gioca un ruolo determinante la fede. La fede ammette che esista la possibilità (tutta da verificare, quindi) di azzerare colpe (sicuramente certe) e di averne una prova in un’altra vita!

Del resto, credo quia absurdum!

Ma la grande differenza con la realtà è tutta qui. Atto, colpa, sanzione e perdono si realizzano e si verificano davanti ai nostri occhi. Non c’è bisogno di aver fede.

[3] Nel senso sopra detto.

[4] Termine in uso ma non sicuramente corrispondente, quanto meno, alle effettive intenzioni di chi ha voluto giuridicamente inquadrare e, quindi, giustificare, il fenomeno della collaborazione con l’autorità inquirente. Suona quasi come un dispregiativo o un incoativo; come se non vi dovesse mai essere un termine, una fine all’azione di pentirsi. Per la verità appare difficile dare un termine diverso per descrivere il fenomeno che, come si vedrà, col perdono, vuoi evangelico, vuoi laico, non ha nulla a che vedere. Forse lo si sarebbe potuto appellare delazionismo remunerato oppure psudopentitismo.

[5] Apparente non senso giuridico sul quale ritorneremmo: un ordinamento che premi e non punisca, una sanzione al contrario (quanto agli effetti).

[6] È un rifarsi a quella ansia di filosofia pratica o sapere pratico che cerca di riappropriarsi il suo ruolo nella moderna epoca di una ritrovata polis per trattare delle emergenze (Agata Amato Mangiameli, Tra etica dei “fini” ed etica dei “doveri”. Alcuni percorsi al di qua e al di là dell’Atlantico, in Spicchi di Novecento, Giappichelli, Torcono, 1998, pagg. 309 e sgg. .

[7] “La giustizia in primo luogo non è da concepire come un valore astratto…..La giustizia è la razionalità, o meglio la razionalizzazione, del contenuto giuridico concreto (norma, sentenza, atto, legge, consuetudine, processo…), cioè la razionalità (razionalizzazione) di quel rapporto fra centri autonomi…”, Rodolfo Bozzi, Trattato di Filosofia del Diritto, Adriatica Editrice, Bari, 1994, pag. 179. Per l’Autore il rapporto tra centri autonomi dotati di una signoria da difendere e mantenere, rappresenta la definizione del diritto. Un diritto, quindi, che non vive di solo ordinamento ma che rappresenta un momento di una attività essenzialmente umana.

È un ritorno alla phronesis aristotelica.

[8] Su colui al quale si sia arrecato del male, ad esempio ma anche su quanti debbano giudicare della condotta prima dell’atto del pentimento, eccetera.

[9] Quello che esiste tra ilo nostro io apparente e la nostra mente. Quello che esiste tra noi e la coscienza.

[10] In tal senso, Sergio Ramajoli, “Pentitismo” e sua disciplina giuridica, in La Giustizia Penale, 1994, parte terza, 509 e sgg. L’autore, che analizza il fenomeno dal suo aspetto pratico, giustamente suggerisce una “regolamentazione unitaria e organica atteso che, allo stato attuale, non esiste una legge sui pentiti ma, se mai, delle disposizioni normative che, sparse qua e là nel nostro ordinamento, sono il frutto di una scelta politica dovuta a situazioni di contingenza, S. Ramajoli, op. cit., col. 509. Per un riferimento “storico” al fenomeno agli inizi degli anni ’80 con uno sguardo al recentissimo passato, Glauco Giostra, Dibattito a Macerata sulla tematica dei “pentiti”, note in margine al Convegno “Collaborazione e ravvedimento dell’imputato nella legislazione dell’emergenza”, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 1981, fasc. 3, pagg. 1001-1006. Ancora, Ettore Palmieri, I “maxiprocessi” nell’esperienza giuridica italiana, in Rivista di Polizia, 1999, fasc.5, pag. 289-300.

Non è mio compito analizzare il fenomeno nel suo aspetto processual-penalistico né compiere una riflessione anche sui passi compiuti dalla giurisprudenza tutta, anche quella costituzionale, sui pentiti e sui dissociati.

È indubbio, però, che l’evoluzione sia stata caratterizzata da una politica di intervento tesa a premiare chi mostri effettivi segni di pentimento rispetto a chi si dissoci o si penta per un mero calcolo sulla pena da scontare. In tal senso, e a titolo meramente esemplificati, Vincenzo Adami, Appunti critici sulla giurisprudenza costituzionale, in Giust. Pen., 1981, fasc. 8-9, pt.1, pag. 258-276; Pier Paolo Rivello, Un significativo intervento della Corte Costituzionale in tema di raccordi tra la normativa sui “pentiti” e quella sui “dissociati”, in Legislazione penale, 1990, fasc.4, pt. 4, pagg. 733-742; Gabriele Chelazzi e Domenico Manzione, “Pentiti”, “dissociati” e trattamento sanzionatorio: una opportuna pronuncia di incostituzionalità dei giudici della Consulta, in Cassazione Penale, 1990, pt. 1, pagg. 997-1000; Giuseppe A. Veneziano, Indipendenza del pubblico ministero, segreto investigativo e protezione dei pentiti (a proposito della sentenza n.420 del 1995 della Corte Costituzionale), in Cassazione penale, 1996, fasc. 4, pagg. 1040-1063; Alfredo Mantovano, Causale di genere e movente del reato nella ricostruzione dei delitti di mafia, in base alla dichiarazione dei “pentiti”, in La Giustizia Penale, 1996, fasc.5,pt.3, pagg. 266-271;

[11] Negli anni ’80 venne coniato, al riguardo, il neologismo perdonopoli a significare la “sollecita” clemenza dello Stato verso criminali e terroristi percorrendo la strada della pacificazione voluta in principal modo dal mondo cattolico che non da quello laico.

[12] Per tutti: M .A. Cattaneo, voce Pena (filosofia) in Enciclopedia del Diritto, vol. XXXII, Giuffrè, Milano, 1982, pagg. 701 e sgg.

[13] All’ordinamento, comunque, erano già noti casi di non punibilità. Qui la questione è diversa dato il clima nel quale venne alla luce il primo provvedimento organico legislativo: la L.304 del 29.5.1982. esisteva, infatti, come precedente, la cosiddetta legge Cossiga, promulgata il 15 dicembre 1980 (soprattutto gli artt. 4 e 5 che prevedevano riduzioni di pena e impunità per alcuni reati di terrorismo). Per una storia e un’analisi dei diversi testi di legge e delle relazioni accompagnatorie, Adolfo Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa e il fenomeno dei “pentiti” nella società italiana, in Dir. Eccl., 1985, fasc. n.4, pagg. 633-658. sul punto vedi anche Luigi De Liguori, L’art. 309 c.p.: anacronismi e attualità (nota a Cass. Pen. I sez., 13 marzo 1984), in Cass. Pen., 1985, fasc. 6, pagg. 1072-1079. Di particolare interesse sono le considerazioni sul linguaggio adoperato dal legislatore in tema di non punibilità per le bande armate come afferenti a termini militareschi che appaiono inopportuni e inadeguati alla fattispecie in esame!

[14] È pacifico che una situazione del genere non poteva che verificarsi in uno stato di diritto così come si è venuto a definire nell’epoca moderna, con attenzione alla promozione dei diritti individuali e collettivi con attenzione a tutte le componenti della società affinché svolgano i loro compiti e raggiungano i loro fini. È evidente che nello stato etico o assoluto il problema non si sarebbe posto quantomeno negli stessi termini.

[15] Ma quale valore dare a questo termine? La letteratura è vasta. Mi permetto di richiamare, per i riferimenti e la impostazione concettuale, il mio Il senso della Giustizia, Cacucci, Bari, 1998 e la bibliografia ivi indicata; non esaustiva, dato l’argomento.

[16] Ovvio che escludo, nel presente studio, il perdono dato dalla vittima e/o dai suoi familiari al colpevole. Questo è un gesto di grande carica umana, frutto di profonda convinzione religiosa che col fenomeno del pentitismo non c’entra. Né lo Stato può subordinare le sue decisioni a un perdono di tal genere. Qui è la coscienza che detta un comportamento alto e pieno di valori e significati che trascende anche il bene comune.

[17] Simile a quella evangelica piena di aceto?

[18] Quindi non vi sarebbe pentitismo se, per esempio, i soggetti indicati dal pentito siano innocenti. Sul punto, comunque, opera sempre la sagacia del magistrato al quel è rimessa la valutazione delle prove e, in particolare, delle dichiarazioni rese…, art.192 C.P.P.; sul punto, S. Ramajoli, “Pentitismo”.., op. cit., col.510.

[19] “In definitiva l’uomo è allo stesso tempo individuo e società, agisce in base a dei principi etici e a delle corrispondenti norme giuridiche; se accetta la dimensione trascendente non deve dimenticare la sua fondamentale laicità”, A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa.., op. cit., pag.635.

[20] Osserva Carlo Maria Martini: “Attraverso una certa legislazione, partita dai tempi del terrorismo, si è giunti a usare il termine pentiti per indicare un atteggiamento che non esprime direttamente l’insegnamento del Vangelo e della Chiesa. Il vero pentimento si verifica quando una persona vuole sinceramente cambiare vita, riconoscendo di aver sbagliato e di aver bisogno di essere perdonato da Dio e dagli uomini. È dunque un evento interiore, mobilissimo, che dice l’anelito e una vita nuova e pulita. Il “pentito” secondo la legge, cioè il collaboratore, può non avere nessuna intenzione interiore di cambiare vita, di riconoscere le sue colpe. Il pentimento cristiano è un cambiare il cuore”, C.M. Martini, Sulla Giustizia, Mondadori, Milano, 1999, pagg. 52-53.-

La visione cristiana e cattolica (quella che continua a distinguere, per coerenza con i suoi insegnamenti, tra foro interno e foro esterno e che a monte di ogni cosa pone l’atto di fede come password per i diritti e doveri, gli obblighi e gli oneri, i premi e le punizioni sovrannaturali) è solamente uno dei tagli critici al problema del pentitismo così come offerto dalla nostra legislazione. È utile ai fini della indagine in quanto è dalla nostra cultura più facilmente percettibile lo iato logico esistente sull’uso di quella parola; si potrebbe parlare certamente di termine equivoco. Ma anche una morale naturalisticamente intesa o semplicemente indirizzata in senso razionale offre alla nostra ragione spunti per dubitare dell’assoluta chiarezza dell’espressione pentito/pentitismo.

Solamente una assenza di morale e/o il riferimento a teorie deterministiche o nichilistiche può comportare una possibile accettazione del termine senza discussione, senza…. pentimenti! Se un soggetto è metro e riferimento di ogni cosa, se l’altro costituisce solo un mezzo kantianamente inteso, se la fredda ragione del proprio io più esasperato, dell’egocentrismo più caparbio diventa arbitro delle nostre azione, allora la volontà sarebbe libera (?) di decidere qualunque cosa anche quella di mentire, dire il falso, chiedere perdono per qualcosa che non si sia fatto, denunciare altri sapendoli innocenti pur di salvarsi.

Ma ciò è un allontanarsi dalla verità, valore unico fondante anche la richiesta/concessione del perdono.

[21] Sul punto: Adolfo Longhitano, La riconciliazione….., op. cit..

[22] Sergio Cotta, Il diritto nell’esistenza. Linee di ontofenomenologia giuridica, Giuffrè Milano, 1991, pag.157.

[23] Se pure attuata per un fine ritenuto superiore.

[24] Tenderei a distinguere, per ora solo temporalmente, la figura del perdonando da quello del perdonato, come pure quella del perdonante da quella del perdonatore. Inoltre, come nel caso evangelico, non necessariamente la figura di colui che chiede il perdono coincide con quella di colui che ottiene il perdono. Infatti lì il Cristo, comunque inteso e considerato, sia come dio che come uomo, si badi, chiede/invoca che una Autorità che Lui in quel momento ritiene Superiore e in grado di farlo, eserciti tale potere, concedendo il perdono a terzi.

[25] Che non deve costituire oggetto di diversa attenzione. Il perdono è un fatto.

[26] Quasi che il gesto assuma valori o toni diversi a seconda della circostanza riferita.

[27] Il gratis avete avuto, gratis date è una costante dell’insegnamento evangelico. È ben vero che il contesto nel quale veniva pronunciata la frase ora riportata era diverso. Ma lo spirito animatore risiede, per l’appunto, nella carità. In quella caritas che deriva da caro, carne: siamo fatti tutti della stessa materia, tutti figli di uno stesso Padre (e dia una stessa madre…) e, pertanto, siamo fratres nel senso effettivo e reale del termine prima che, poi, come vincolati da un Principio sovraordinato che tutto comprenderebbe e giustificherebbe, affratellandoci in qualcosa di comune. Indipendentemente, quindi, anche da un corpo mistico.

[28] Cottianamente inteso con un: “..dinamismo diffusivo che procede dal soggetto, fattosi disponibile a una accoglienza universale, e si diffonde verso ogni uomo così come questi si dà nella sua particolarità esistenziale. Proprio tale illimitata particolarità (nessun uomo è identico a un altro) ci introduce al dover-essere tipico, al principio regolativi della carità: l’accettazione dell’altro. Essa corrisponde integralmente all’esigenza ontologica fondamentale dell’accoglienza, poiché comporta il riconoscimento dell’altro, al di là dei suoi meriti o demeriti, come parte di me stesso, nonché di me come indigente, rifiutando la propria egocentricità.”, S: Cotta, Il diritto nell’esistenza.., op. cit. pag.156. l’altro come parte di me: come fatti di uno stesso corpo, di una stessa carne, appunto.

[29] Da chi ne abbia il potere e l’autorità di farlo!

[30] Nella direzione che il diritto alla assoluzione esiste solo se si è effettivamente pentiti, John Flader, The Right of spiritual goods of the Church: reflections on canon 213: “Perhaps it goes without saying that the faithful have the right to be absolved if they are properly disposed….Again, it is a matter of a strict right. Even if the penitent has confessed only venial sins or imperfections and, therefore, strictly speaking does not “need” absolution, he or she has a right to be absolved”, in Apollinaris, 1992, fasc. 1-2, pt. 3, pag.384.

[31] Per una analisi del concetto, Vincenzo Vitale, Pentimento e diritto: la nostalgia del perdono, in Riv. Int. di Fil. del Dir., Giuffrè, Milano,1985, pagg. 565-578.

[32] Durante la stesura di queste breve riflessioni è stato licenziato dalla Commissione Giustizia del Senato la nuova legge sui pentiti. Il senso non cambia. Ovvio che ci si riserva di meglio analizzare nel dettaglio la normativa. Ma lo spirito della legge non è mutato.

[33] A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa…, op. cit., pag.634.

[34] S. Ramajoli, “Pentitismo”.. op. cit., col.512 il quale riporta in nota tale definizione ripresa dalla sentenza della Cass. Pen. sez. I, 3 giugno 1986!

[35] Sulla obbligatorietà di dismettere il mandato per incompatibilità, si veda Antonino Galati ed Ettore Randazzo, Il Codice Deontologico dell’Avvocato, in La Legislazione penale, 1998, fasc. 1, pt. 4, pag. 143-151. Il presupposto dal quale partono gli autori è che l’avvocato del pentito e/o del collaboratore di giustizia sia il pubblico ministero che, nella specie, infatti, assume la veste di difensore istituzionale.

[36] Osserva al riguardo H. Kelsen: “Il senso dell’ordinamento si rende dicendo che, nel caso di un certo comportamento, qualunque siano i motivi da cui esso in concreto deriva, deve essere applicata una sanzione, nel senso lato di premio o pena. Anzi, un ordinamento può ricollegare un premio soltanto ad un comportamento che non sia motivato dal desiderio di un premio; così avviene quando, secondo un ordinamento morale, si deve onorare soltanto chi fa il bene di sua spontanea volontà e non per il desiderio di onore” (il corsivo è mio), Reine Rechtslehre, trad.italiana di M. G. Losano, La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino, 1975, pag.38; poco oltre, a pag.46 l’autore torna sull’argomento equiparando  le sanzioni positive alla concessione di titoli e medaglie….Si veda anche Joseph Raz, Il concetto di sistema giuridico, Il Mulino, Bologna, 1977.

Sempre sul concetto di premialità, N. Bobbio, Sulla funzione promozionale del diritto, in Bobbio, Dalla struttura alla funzione, Milano, 1977, pagg. 13 e sgg.;

[37] In tal senso V. Vitale, Pentimento e diritto, op. cit., pagg. 570-571.

[38] Una vera e propria biblica Babele! Nota V. Vitale: “È bene avvertire subito come non meravigli affatto l’utilizzazione in chiave giuridica, così posta in essere dal legislatore, di terminologie e di categorie concettuali che sono proprie della filosofia e della teologia morale (e sacramentale)…. Né bisogna cedere in modo irriflesso alla fascinosa suggestione di rilevare, in particolare, l’innegabile parallelismo del rituale (religioso e giuridico), che si esprime addirittura in un’assoluta identità di lessemi, fra assoluzione dal confessore concessa al penitente e assoluzione dal giudice concessa all’imputato: è sufficiente non trascurare come sulle orme di S. Tommaso, la teologia post-tridentina abbia inteso imprimere un’impronta spiccatamente giudiziaria al sacramento della confessione, servendosi sì della coppia aristotelico-tomista materia-forma, per identificare nella prima gli atti del penitente e risolvere nella seconda l’assoluzione del sacerdote, ma giungendo comunque ad assimilarsi in buona misura alla dottrina luterana della riconciliazione, così come interpretata da Zelantone”. Pentimento e diritto, op. cit., pagg. 567-568.

[39] Per tutti, anche per la bibliografia richiamata, Francesco D’Agostino, Voce Sanzione (Teoria generale) in Enciclopedia del Diritto, vol. XLI, Giuffrè, Milano, 1989, pag.303-328, soprattutto pagg. 322-325.

[40] La cosiddetta sanzione positiva. Come tecnica (sostanziale e processuale) del premio derivante dalla ideologia utilitaristica, si veda F. Bricola, Funzione promozionale, tecnica premiale e diritto penale, in La questione criminale, 1981, 3, pag. 446.

[41] Come non avere un … debito con le kantiane individuazioni del meritum, del debitum e del demeritum de La metafisica dei costumi?

[42] Perché non deve.

[43] E, infatti, il discorso appare più indirizzato verso una prospettiva antropologica sociale e giuridica o sociologica che propriamente filosofico-giuridica propria.

[44] Infra.

[45] Sarebbe come dire: “Per quel che hai commesso dovresti essere condannato; non ti posso assolvere; però ti perdono e ti riduco un po’ la pena”.

[46] “ Muovere dal linguaggio – guardandosi dalle ambiguità che esso contiene: il discorso fine a se stesso con funzione persuasiva…- significa, allora, inoltrarsi nel mondo della “comunicazione”; in quel mondo dove la parola mette in relazione uomini e nel quale appare insuperabile il legame – che è teoretico-gnoseologico e etico-pratico – tra  verità e libertà. È libero colui che non può dire ciò che pensa? Dire ciò che si pensa, già nell’esperienza quotidiana, è il più semplice atto di verità e, insieme, di libertà; e la veridicità del dire è ciò che consente di riconoscere l’identità umana del parlante, perché attraverso il suo dire veridico il soggetto rivela l’autentico se stesso agli altri.” Bruno Montanari, Spicchi di Novecento, Introduzione, Giappichelli, Torino, 1998, pag.49.

[47] Qui intese in tutte le accezioni possibili di retribuzione, prevenzione, rieducazione, eccetera. Per un approfondimento, Sergio Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1992, sopratutto pagg.121 e sgg., nonché Mario A. Cattaneo, Il diritto come valore e il problema dela pena, in Società Norme e Valori, Studi in onore di Renato Treves, Giuffrè, Milano, 1984, pagg.167 e sgg.

[48] Non ha senso più parlare delle finalità etiche della pena. Questa serve solo allo Stato come mezzo sia per prevenire reati o violazioni di norme che per reprimere un comportamento da esso ritenuto contrario a un qualche principio che, di volta in volta, appare più conforme alla convenienza sociale o, se si vuole, alla cottiana coesistenza non violenta dei cittadini. Il resto sono belle chiacchiere politiche e da salotto.

Né mi pare che una distinzione tra stato interventista e non (per dirla col Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, 1977) sia appropriata. Qui è lo Stato che opera secondo le sue normali finalità e in momenti di contingenza. Parola chiave per capire e comprendere il fenomeno nella sua interezza!

[49] Se per un verso è sempre stato notato come alcuni termini del processo coincidano con quelli di una funzione sacrale o di un rito, quasi a ricordare che quello che si celebra è qualcosa di abbastanza umano, mi permetto di sottolineare anche come alcune parole siano, per contro, proprie del linguaggio teatrale. Penso a attore, parti, comparsa, persona (maschera). E tutto questo, per vero, non sminuisce la concettualità non solo formale di alcuni significanti. Nell’immaginifico sociale il processo rimane sempre qualcosa di sacro perché dovrebbe mirare ad accertare la verità che ictu oculi non appare come mera attività umana e per far ciò ci si avvale di un meccanismo di scena, apparente nel quale si tenta di invocare Themis come dea ex machina che punisca i blasfemi, perdoni il pentito e ristabilisca l’equità.

[50] Sul punto, V. Vitale, Pentimento e diritto, op. cit., pagg. 572 e ssg. .

[51] Notava all’epoca V. Vitale (a ridosso della modifica del nostro processo penale e nel periodo più fecondo del pentitismo prima maniera): “…Non rileva tanto notare il collegamento così instaurato tra diritto e politica, ma, più radicalmente, la perdita dell’autonomia concettuale del primo rispetto alla seconda: il diritto da fondante (la coesistenza) diviene fondato (dalla politica); il processo da giuridico, diviene politico. In altri termini, l’inquisizione si è resa certo più raffinata, sottile, e persino soave, come è stato detto (dal Padovani), la ma tecnica premiale, in cui oggi essa storicamente sembra concretizzarsi, destrutturando la giuridicità del processo, lo affida, come non potrebbe non avvenire, alla logica attigua ma diversissima della ragion politica. Il momento processuale di applicazione della normativa in esame risponde infatti in pieno a quella che del processo politico è stata felicemente definita strategia”, V. Vitale, op. ult. cit., pag. 573.

[52] Per alcuni correttivi, si veda S. Ramajoli, “Pentitismo” e sua disciplina giuridica, op. cit. .

[53] Cui fa riferimento Gavazzi in Diritto premiale e diritto promozionale, in Diritto premiale e sistema penale (Atti del VII Simposio di studi di diritto e procedura penale, Como, 26,27 giugno 1982), Milano, 1982, pagg. 83 e sgg. .-

[54] Intimamente connesso col concetto minimo di giustizia è l’eguaglianza di fronte alle leggi ma di fronte anche agli uomini. È un precetto costituzionale e appartiene ormai indiscutibilmente al nostro patrimonio genetico di diritti umani. Sul rapporto, anche in chiave storica tra giustizia e uguaglianza, si veda Ch. Perelman, La Giustizia, Giappichelli, Torino, 1991, soprattutto pagg. 31 e sgg.

[55] A. Longhitano, La riconciliazione nella Chiesa.., op. cit., pag.657. Il lavoro è datato ma le conclusioni sono attuali. Prosegue l’Autore con una riflessione che sento di condividere: “Ciò comporta la necessità: a) di delineare dal punto di vista giuridico la figura del “dissociato” dando rilevanza al diverso comportamento assunto da questi cittadini, che hanno deciso di abbandonare la lotta armata e di inserirsi costruttivamente nella società, per delle motivazioni etiche giuridicamente apprezzabili; b) di stabilire criteri obiettivi di prove per distinguere la dissociazione da forme strumentali di pentimento; c) di evitare il più possibile che la concessione ai giudici di un eccessivo potere discrezionale comporti disparità di valutazione e di trattamento; d) di impedire che una indiscriminata riduzione di pene riporti al più presto in libertà persone che non hanno dato sufficienti garanzie di ravvedimento”, op. cit., pag. 657. è evidente che oggi non è più solo il fenomeno della lotta armata ad allertare lo Stato e allarmare i cittadini. Penso alla criminalità organizzata, alle bande minorili, alle gang orientali.

Il problema degli sconti di pena e della premialità diffusa, se attuata con criteri di giustizia comune e egalitaria possono essere un supporto efficace alla limitazione del problema criminale, non certo provvedere alla sua eliminazione.

La categoria dei pentiti e il fenomeno del pentitismo, quindi, vanno esaminate sempre e solo dal loro dato fattuale, nel caso per caso. Nulla più. Ma anche nulla meno.

[56] Che per Sergio Cotta rappresenta il principio costitutivo, “il fondamento dell’aggregazione d’una pluralità di individui in un noi.”, Il diritto nell’esistenza, op. cit., pag.110.

In realtà nel concetto di bene comune dobbiamo sussumere tutte le possibili finalità di uno stato, da quello liberista a quello etico a quello totalitario. Nelle diverse forme di stato, infatti, è il mezzo che muta, sono le tecniche di governo. Ma in ultima analisi nessuno stato può non avere di mira un valore che seppure non assiologico, resta fenomenologico.

[57] Non ravvedere.

[58] Nel senso sopra indicato.

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