Andrea Dell'Aira, Il concorso esterno in associazione mafiosa, tra percorsi giurisprudenziali, pareri dottrinali ed auspici di codificazione

La figura di reato in commento, allo stato, soltanto apparentemente possiede dei contorni, o, se si preferisce l'espressione, dei confini delineati e definiti.
Infatti questi appaiono tanto più sfumati e sfuggenti tanto più, ancora oggi, una pronuncia della S.C. sullo specifico argomento è in grado di stupire e sorprendere.
La fattispecie in esame desta negli operatori profondo interesse, e rilevanti stimoli di ricerca, in quanto di genesi giurisprudenziale, pertanto esposto ad oscillazioni interpretative in grado di minare seriamente la stessa certezza del diritto che dovrebbe porsi necessariamente a fondamento di uno stato di Diritto come viene definito il nostro.
Prima di analizzare le recenti evoluzioni della vicenda appare opportuno spendere qualche breve considerazione sugli elementi storici a fondamento della fattispecie giuridica in commento. Sembra che la genesi storica di problematiche analoghe sia riconducibile all'articolarsi e complicarsi degli scenari terroristici caratterizzanti la storia del nostro, come di molti altri paesi.
In Italia, in particolare, il fenomeno terroristico ha cominciato a generare casistiche giudiziarie in fatto caratterizzate da forme anomale, contingenti, temporanee, di contributi esterni, dei quali, data la natura, era difficile sostenere la rilevanza ai fini partecipativi ( intesi in senso pieno ).
Le problematiche poste dalla complessa dietrologia di fattispecie come quella descritta afferiscono, sia alla vexata questio relativa alla valorizzazione ai fini della configurazione del reato, del momento soggettivo o quello oggettivo, sia ancora al dubbio interpretativo legato al prospettarsi del reato nella forma dl concorso morale o materiale.
Sia in dottrina che in Giurisprudenza, ad oggi, coesistono orientamenti contrastanti, sebbene quest'ultima sembra essersi attestata sul punto di riconoscere, ineluttabilmente, la figura criminosa in commento, seppur in presenza di determinate condizioni, delle quali si dirà più avanti.
Invero gli orientamenti Giurisprudenziali più risalenti, e, per inciso, assolutamente condivisibili, escludevano la configurazione del reato argomentando l'impossibilità di contestare ad un soggetto che non avesse manifestato l'intenzione di partecipare al sodalizio criminale, perseguendone unitamente ad esso le finalità, una condotta specificamente orientata in tal senso.
In altre parole se per il partecipe viene richiesto il dolo specifico anche per il concorrente esterno dovrebbe essere così, ma argomentando in tal senso, paradossalmente, il concorrente esterno od eventuale si spoglierebbe di tale veste per indossare quella del partecipe ( interessante sul punto Cass. Sez I Pen., sent. 18/05/94 n. 2342 e n. 2348, e 05/0694 n. 2699).
Altra attenta Giurisprudenza pochi mesi dopo poneva in essere uno sforzo interpretativo volto ricondurre l'elemento soggettivo del concorrente esterno all'interno della figura del dolo eventuale, ma acutamente osservava l'impossibilità di contestare tale atteggiamento psicologico con i rigidi paletti di convergenza fissati dalla nozione del reato che fornisce l'art. 416 bis c.p., il quale senza dubbio alcuno richiede il dolo specifico. ( Cass. 14/10/94, Cavallari ).
Consistente ed autorevole dottrina ha assecondato gli indirizzi citati, ampliando l'argomento, ed approfondendone i temi al fine di negare la configurabilità del concorso eventuale riconducendo il punto di partenza del ragionamento proprio all'elemento soggettivo.
Ma l'elemento soggettivo non è stato, e non è, l'unico argomento posto a fondamento dell'impossibilità di configurazione del reato in commento.
Infatti anche la valutazione della portata e degli effetti dello stesso contributo causale offerto dal partecipe rispetto agli scopi stessi dell'associazione rischia di indurre l'interprete all'interno di dinamiche e considerazioni in cui impera indisturbata l'incertezza e la mera supposizione.
Invero tali difficoltà, a parere di chi scrive, dovrebbero indurre ad una attenta analisi del dato fattuale al fine di operare un inquadramento reale all'interno delle rigide maglie del dato normativo della condotta del soggetto al fine di verificare o meno la sussistenza dei requisiti richiesti dalla norma per la configurazione dell'ipotesi delittuosa in essa prevista, con tanto di dolo specifico e relativa animus.
Insomma, se il dato normativo prevede dei parametri di riferimento, ancorchè indotti, sotto il profilo cognitivo, essi devono sussistere tutti ineluttabilmente, in altre parole, se si contesta un reato della portata di quello previsto dall'art. 416 bis c.p., non si può cedere al rischio di aberrazioni interpretative, o peggio esasperazioni del principio interpretativo ispirato al famoso brocardo : minus dixit quam voluit.
Dal reato in questione, o si è dentro, o si rimane fuori , almeno in uno stato di diritto fondato su solidi principi Costituzionali dovrebbe essere così, tuttavia, di fatto, nell'evoluzione delle dinamiche processuali, la questione ha assunto nel tempo contorni sempre più frastagliati ed incerti.
Le difese, e qualche matura Giurisprudenza, hanno anche considerato l'eventualità che condotte originariamente contestate come atteggiarsi di quei comportamenti previsti dall'art. 416 bis c.p. potessero invece più verosimilmente rientrare nell'alveo di ipotesi di reato "minori" quali il favoreggiamento aggravato o l'assistenza.
Paradossalmente, tuttavia, anche l'orientamento più conservatore ha cominciato, nel tempo , pur mantenendo ferma la propria posizione a proposito del concorso materiale, ad accettare , prima velatamente, e poi sempre più apertamente, la possibilità di configurare la sussistenza del reato de quo nella forma del concorso morale.
Seguire tutte le evoluzioni in dottrina e giurisprudenza della figura di reato in commento è impresa titanica che certamente esula dagli obiettivi di chi scrive, tuttavia valga ripercorrere brevemente alcuni passaggi essenziali che hanno segnato il percorso della figura di reato oggi in commento.
In particolare dal 1994 al vicinissimo 2001.
Prima del 1994, e fino al mese di ottobre dello stesso anno, la S.C. aveva espresso pareri contrastanti e spesso diametralmente opposti, talvolta sostenendo addirittura l'impossibilità di interpretare la norma in commento secondo criteri tali da ritenere configurabile un concorso esterno.
In particolare, giungendo a sostenere, molto opportunamente, che la condotta del soggetto il quale fornisce il proprio contributo è da considerarsi penalmente rilevante ai fini dell'applicabilità della norma in esame soltanto se può ad essa pienamente ricondursi ( cfr. Cass. Sez. I 94/198350 ); in altre parole, sostenendo l'impossibilità di distinzione tra partecipe e concorrente, e fondando tale asserzione sull'atteggiarsi dell'elemento psicologico dell'agente, affermando semmai la possibilità di attribuire alle condotte, di volta in volta considerate, profili di reato concettualmente e strutturalmente distinti da quello associativo di cui all'art. 416 bis.
I citati contrasti giurisprudenziali hanno trovato la loro apparente soluzione in una ormai celeberrima pronunzia delle Sezioni Unite ( Dec. 05/10/1994 n. 199386, ric. Demitry ) la quale ha affermato la possibilità di configurare il reato di concorso esterno in associazione mafiosa pur in presenza di dolo generico.
Apoditticamente inserendo così una fattispecie a dolo generico nel "reato figlio" e mantenendo inalterata la necessità del dolo specifico per il "reato madre".
Il concorso esterno così fa il suo ingresso nel nostro ordinamento pienamente legittimato dalle S.U. sia nella forma del concorso morale che materiale.
Tali vicende interpretative hanno tuttavia reso necessaria una distinzione chiara, netta, ed incontrovertibile tra le due figure di concorrente esterno e partecipe in senso stretto.
Tale distinzione tuttavia ad oggi non appare così netta ed incontrovertibile come dovrebbe.
Infatti la S.C. si è preoccupata di definire il partecipe come colui il quale agisce nella fisiologia della vita associativa, insomma un soggetto senza il cui apporto il sodalizio criminale non raggiunge i suoi scopi o li raggiungerebbe con maggiori difficoltà concrete.
L'indeterminatezza e l'incertezza di tali assunti non può non emergere in tutta la sua violenza.
Al contrario, il concorrente, sarebbe colui il quale non fa stabilmente parte dell'associazione, e il sodalizio criminale stesso non chiama a far parte, ma al quale si rivolge in un momento di temporanea difficoltà della vita associativa.
Questo stato di patologica fibrillazione del sodalizio criminale appare oggi un nodo cruciale della vicenda, anche e soprattutto sotto il profilo processuale, infatti per i Giudicanti di primo grado, ritenere sussistente il reato di concorso esterno in associazione mafiosa senza tuttavia argomentare riguardo lo stato di fibrillazione del sodalizio criminale può generare ribaltamenti totali in grado di appello, data la centralità ormai assunta dalla questione in sede di vaglio di legittimità.
Il concorrente sarebbe pertanto chi, in effetti, occupa uno spazio giuridicamente rilevante e concretamente ravvisabile in momenti di emergenza della vita dell'associazione stessa.
L'apporto fornito dal concorrente, valutato ex ante, in relazione alla dimensione lesiva del fatto ed alla complessità della fattispecie, deve pertanto essere idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento della organizzazione. Tanto da qualificarsi come apporto obiettivamente adeguato e soggettivamente diretto a rafforzare o mantenere in vita l'associazione criminosa, con la consapevolezza e la volontà di contribuire alla realizzazione degli scopi dell'associazione per delinquere; il concorso, quindi, non sussiste quando il contributo è dato ai singoli associati, ovvero ha ad oggetto specifiche imprese criminose e l'agente persegua fini suoi propri in una posizione indifferente rispetto alle finalità tipiche della associazione.
Ancora, per le S.U., partendo dall'assunto per cui sia da ritenersi ammissibile un concorso con dolo generico in un reato a dolo specifico, purchè almeno uno dei partecipi abbia agito con dolo spoecifico, deve sostenersi che la legge non richiede che il concorrente eventuale abbia la volontà di far parte dell'associazione, dovendosi ritenere necessaria e sufficiente, ai fini della configurazione del reato la semplice "consapevolezza" che altri fa parte ed ha voglia di far parte dell'associazione e che agisce per perseguirne i fini.
Una sorta di "dolo di agevolazione", quindi, cui si riduce tutta l'indagine cognitiva , con la conseguenza che se il fenomeno si restringe all'agevolazione , poiché la legge tipicizza le ipotesi di agevolazione con dolo, appunto, di agevolazione, dovrebbe trarsi come logico sillogismo che le altre ipotesi di agevolazione non siano penalmente rilevanti.
Ma la nozione stessa di quest'animus, che dovrebbe connotare il concorrente che "non vuol far parte" e di converso l'associazione che "non lo chiama a partecipare" appare sfuggente, indeterminata, irreale, difficile da inquadrare e dal punto di vista probatorio, invero più per le difese che per gli inquirenti, almeno nella fase cautelare, una vera e propria probatio diabolica.
I riscontri probatori, infatti, quando si disserta in materia di elemento soggettivo e stato psicologico interiore, nella stragrande maggioranza dei casi, lungi dall'essere concreti e suffragati da atti di indagine, prove documentali, dati concreti, sempre più spesso, l'esperienza odierna insegna , si fondano sulle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, con i rischi che questa tecnica di acquisizione della prova implica, e sulla interpretazione di "cosa in effetti si voleva dire" a proposito di intercettazioni ambientali, talvolta di dubbia ed incerta utilizzabilità .
In effetti, il tutto così viene a legarsi a dinamiche che prescindono completamente da quella sacra "realtà sostanziale" che dovrebbe convergere con quella processuale, per ridursi nel caso di specie ad un mero ampliamento ed una aberrazione della prevalenza di quast'ultima sulla prima, certamente in riferimento al fumus necessario ai fini dell'adozione di misure cautelari, sia di natura personale che reale,nella fase prodromica al Giudizio.
Eminenti esponenti della dottrina si sono cimentati nell'approfondimento della tematica che porterebbe a ritenere configurabile il reato in commento, argomentando la questione rispetto a diversi e svariati fronti.
In primo luogo si è sostenuto che laddove il legislatore preveda norme di apertura come "fuori dai casi di concorso" come nell'alveo degli artt. 307 e 418 c.p., intenda in effetti riferirsi alla possibilità che siano ammissibili casi di concorso in reati come quello in commento; tuttavia tale interpretazione , come sovente accade, fornisce una chiave di lettura del dato normativo basata sull'assunto "probabilmente quello che il legislatore ha inteso disporre…."
Che, per antonomasia, non può fornire certezza alcuna, e che in fattispecie delicate come quella in questione non è in alcun modo condivisibile, data la delicatezza e la portata delle conseguenze sanzionatorie legate all'una o all'altra scuola di pensiero.
A proposito di quanto testè esposto, la S.C., in una sentenza di cui si tratterà più approfonditamente in seguito ( ovvero, Cass. Sez. VI, 23 gennaio 2001 - Pres. Pisanti - Rel. Ambrosini - Villeco ed altro ) ha affermato : "…Senza contare che, se l'espressione dovesse intendersi "...al di fuori del concorso necessario", si tratterebbe di una insolita formulazione della clausola di sussidiarietà, che il legislatore avrebbe apposto alla tipizzazione di una data fattispecie. Non senza richiamare la relazione ministeriale sul progetto al codice penale che, nell'illustrare l'articolo 418 Cp, afferma che "questa figura criminosa è tenuta distinta dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" e che "infondato è il dubbio sollevato se l'inciso "fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento" si debba riferire al reato d'associazione o al reato-fine che gli associati si propongono di commettere, apparendo chiaro che il riferimento va fatto al reato di associazione per delinquere, oggetto della speciale previsione…".
Che poi tale interpretazione costituisca un doveroso rafforzamento della lotta alla mafia ed alla criminalità organizzata in generale, è vero, tuttavia appare assurdo che in uno stato di diritto, non fondato su un sistema di common law, si debba incorrere in tali problemi interpretativi, ricorrendo ad artifizi Giurisprudenziali complicatissimi, laddove basterebbe un intervento legislativo volto a colmare ogni lacuna e fugare ogni dubbio.
L'indeterminatezza della figura di reato in esame, come detto, riemerge in tutta la sua violenza allorquando si assiste, come avvenuto poco tempo addietro ( Cass. Sez. VI, 23 gennaio 2001 - Pres. Pisanti - Rel. Ambrosini - Villeco ed altro )ad un rilevante mutamento di rotta tale da ingenerare dubbi e questioni che non dovrebbero ritenersi ammissibili in ipotesi di reato della delicatezza di quella di cui all'art. 416 bis. C.p.
Non si comprende, infatti, come possono porsi a fondamento di una interpretazione ampia dell'articolo in commento questioni di politica criminale ed argomenti come la lotta alla criminalità organizzata ed alla mafia, quando queste dovrebbero essere le prime invece a giustificare un intervento legislativo sul punto, che sia chiaro, efficace e definitivo.
In effetti, la giurisprudenza di merito e di legittimità, chiamata ad esprimersi sulla configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa dopo la pronuncia delle S.U., si è sempre più adagiata nel solco tracciato dalla sentenza "guida", migliorando ed approfondendo i percorsi interpretativi della sentenza "Demitry" senza, almeno apparentemente, porre mai in discussione l'argomento centrale della problematica affrontata, ma affinandone i processi cognitivi, ferma restando la ritenuta configurabilità del reato.
Appena un anno dopo ( Cass. Sez VI 95/202163 ) la Corte aveva modo di precisare che per integrare il concorso esterno nel reato associativo di cui all'art. 416 bis c.p. non è richiesta la sussistenza del dolo specifico, ma è sufficiente quello generico, laddove il dolo tipico del reato caratterizzi la posizione dei concorrenti necessari.
Sullo stesso filone interpretativo, ovviamente, ancora Cass. Sez. VI 97/208904 che nel ribadire quanto già affermato dalle precedenti pronunzie sottolinea, questa volta con maggior vigore, la necessità che il concorrente esterno debba intervenire, e fornire il proprio contributo, in un momento di difficoltà della vita associativa.
La citata sentenza ( Cass. Sez. VI, 23 gennaio 2001 ), molto acutamente, pone nuovamente sotto i riflettori, sul palcoscenico dell'interpretazione della norma, le questioni di maggior rilievo, apparentemente superate, ma non certo risolte, dalle precedenti pronunzie.
In primo luogo la stessa Corte osserva - molto elegantemente - "…L'esigenza di un esame della "tenuta" della decisione delle Sezioni Unite (Sez. un. 5 ottobre 1994, Dimitry) in tema di concorso esterno nel delitto di cui all'articolo 416bis Cp, già avvertita da talune statuizioni di legittimità (cfr. Sez. VI, 22 novembre 1999, Trigili), impone a questa Corte………….di verificare se nei confronti di una simile pronuncia sia necessario avanzare talune proposizioni problematiche, anche riflettendo sul fatto che il decorso interpretativo della sentenza Dimitry non si è manifestato, nel concreto, assai agevole, soprattutto considerando la tipologia di condotta cui dovrebbe aderire il concorrente "atipico" e le non rare discrasie rilevabili in giurisprudenza con riferimento ad altre ipotesi di "contiguità mafiosa" (v., ad esempio, Sez. VI, 21 maggio 1998, Pecoraro)…"
Orbene secondo la S.C. anzitutto, in relazione all'elemento materiale, appare necessario evidenziare che il concetto ad oggi radicato che vuole che sia definito partecipe chi" fa parte" dell'associazione, deve essere sottoposto ad attento vaglio stante l'approssimazione insita nella locuzione stessa, se rapportata alla complessità dell'organismo criminale nella sua fisiologia.
La seria critica alla nota sentenza Demitry poi trova il suo apogeo nella parte in cui la Corte si sofferma sulla non sovrapponibilità delle condotte poste in esser dal concorrente eventuale, che fornisce il contributo atipico, e quella del partecipe vero e proprio.
Secondo le Sezioni Unite il contributo atipico del concorrente dovrebbe comunque, come rilevato, inserirsi nel quadro della condotta tipica posta in essere da altri.
Tuttavia la Corte Giustamente rileva una vera e propria antinomia, lessicale e concettuale, nel percorso argomentativo della sentenza criticata, perché se la nozione di autore è normalmente contrapposta a quella di partecipe, stando al lessico utilizzato dall'art. 416 bis c.p., autore è solo il partecipe ( salvo l'organizzatore etc.)
Un serio dubbio viene poi sollevato in relazione alle argomentazioni precedentemente sostenute in sede di legittimità al fine di assimilare contributo morale e materiale, così seriamente minando lo stesso percorso interpretativo della sentenza Demitry.
Infatti, per questa nuova ed attenta giurisprudenza, le S.U. sembra che abbiano trascurato una differenza che sembra davvero fondamentale : ovvero che il concorso morale è, per definizione, al di fuori dell'azione esecutiva e che, dunque, la responsabilità del concorrente morale si ricava dai principi sul concorso di persone nel reato e, più in particolare, dall'articolo 115 Cp. Inoltre, come sembra riconoscere la sentenza delle sezioni unite, il comportamento del concorrente morale è sempre designato dal dolo specifico.
Desta, quindi, ulteriori perplessità quella che costituisce l'argomentazione che può definirsi cruciale della sentenza Demitry e che conduce ad assimilare contributo morale e contributo materiale; un'assimilazione che renderebbe difficile comprendere perché si "ammetta la configurabilità del concorso eventuale morale e, nello stesso tempo, non solo si neghi la compatibilità, con il reato di cui all'articolo 416 bis, del concorso eventuale materiale, ma la si neghi anche sul presupposto che il concorrente materiale non potrebbe agire che con il dolo specifico, quello stesso dolo che si riconosce, però, essere proprio del concorrente eventuale morale". Cosicché il concorrente eventuale materiale può prestare il suo contributo con il dolo specifico restando, nonostante ciò, concorrente eventuale.
Del resto - e questo sembra un ulteriore momento cruciale della decisione - "la diversa natura, morale l'una e materiale l'altra, delle due forme di concorso fa sì che, mentre la partecipazione morale, sia nella forma della determinazione, sia in quella del rafforzamento, si risolve sempre in una condotta atipica, la partecipazione materiale può consistere sia nella condotta tipica sia in una condotta atipica, in una parte della condotta tipica.
Postulati - quelli ora rammentati - che sembrano trascurare come l'azione possa qualificarsi - e con molta approssimazione - atipica solo sul piano esecutivo, non su quello ideativo e che la responsabilità del concorrente morale sia ricavabile dai principi sull'accordo (ab initio o in itinere) a commettere il reato.
Non è proprio davvero comprensibile perché la partecipazione morale debba essere "sempre atipica", "mentre la partecipazione materiale, quando consiste in una parte della condotta tipica, è meno esterna rispetto a quest'ultima, meno lontana di quanto non lo sia la partecipazione morale".
Tra i meandri della motivazione della citata sentenza è dato altresì trovare l'enunciazione di principi, i quali, se letti alla luce delle precedenti pronunce, in effetti, ancorchè molto corretti sotto il profilo giuridico, sottolineano l'incertezza che è destinata ad imperare sovrana nell'alveo di fattispecie come quella in esame , e che molto probabilmente indurranno ad una nuova pronuncia da parte delle S.U., ancorchè gli operatori tutti, credo, coltivino in cuor loro, la utopica speranza che il legislatore possa, prima e celermente, sciogliere questo ormai inestricabile nodo interpretativo attraverso una novella chiara e semplice.
La Corte afferma infatti, l'impossibilità di istituire una parificazione sul piano della tipicità tra concorrente morale e concorrente materiale. Ciò dimostra, ancora una volta, che il concorrente morale è concorrente tipico, per definizione esterno rispetto all'associazione, e che risponde con lo stesso dolo del concorrente (autore), perché la sua attività si realizza sempre al di fuori dell'azione esecutiva che, se non viene posta in essere (neppure nella forma del tentativo) non implica, ex articolo 115 C.p. la realizzazione di alcun reato.
Prima di concludere l'esame di questa importante pronuncia occorre però soffermarsi su un punto cruciale di essa, poi ripreso dalla sentenza che ha indotto gli operatori tutti a nuove riflessioni sull'argomento de quo, ovvero la Cass. Sez. VI pen., 03 ottobre 2001 n. 39103 - Ric. Cusumano.
La chiave di lettura, attraverso la quale leggere, in punto di fatto, le ipotesi di configurabilità del concorso esterno in associazione mafiosa sembra oggi imprescindibilmente legata allo stato patologico dell'associazione ovvero un momento di fibrillazione nella vita del sodalizio, che se mancante, farebbe menir meno l'importanza ed il rilievo gius-penalistico dell'apporto causale fornito dal concorrente.
Osserva infatti la Corte che le Sezioni Unite nel tentativo di conferire la necessaria "tipicità" (almeno con riferimento al disposto di cui all'articolo 110 Cp) al concorso esterno materiale, allo scopo di limitarne la versatilità e di operare un più penetrante discrimine rispetto ad altre forme di "appoggio" o di "contiguità" hanno ravvisato l'ipotesi prevista dagli articoli 110 e 416 bis C.p. nell'esigenza che l'intervento "esterno" si introduca in un momento in cui il sodalizio criminoso si trovi in situazione di difficoltà, tenendo proprio a far sì che l'associazione venga, proprio per il contributo dell'esterno "salvata"; il tutto se e sempreché - ma ciò concerne il profilo soggettivo - il concorrente esterno sappia di questa situazione di difficoltà, pur se non intenda realizzare i fini dell'associazione.
Il concorso, di conseguenza, vale a qualificare l'eventuale reato posto in essere per salvare l'associazione non come reato fine, ma come reato mezzo, realizzato per gli scopi del sodalizio, in mancanza della volontà di farli propri, ponendo in essere uno o più comportamenti che, per la situazione in cui versa l'associazione, divengono funzionali al superamento dei pericoli che rischiano di compromettere la permanenza dell'associazione mafiosa (cfr. anche Cass. Sez. VI, 22 gennaio 1997, Dominante).
Infatti alla luce di una attenta lettura della sentenza in commento, così come di quella citata (Sez. VI pen., 03 ottobre 2001 n. 39103 ) deve affermarsi che sembra oggi essersi imprescindibilmente radicato il principio per cui , pur tenendo conto di tutti i possibili distinguo e di tutte le approssimazioni proponibili, lo spazio proprio del concorso eventuale materiale appare essere quello dell'emergenza nella vita della associazione o, quanto meno, non lo spazio della "normalità"..., occupabile da uno degli associati.
In effetti, non sembra ardito affermare che sia questo il vero "tassello" posto dalla giurisprudenza più recente alla indiscriminata operatività del concorso esterno. La situazione di pericolo per la vita dell'associazione, con conseguente stato di patologica fibrillazione della stessa.
Il concorrente esterno deve dunque essere cosciente che con la sua opera "salva" l'associazione. Una simile configurazione dell'elemento psicologico però si manifesta quantomeno contraddittoria rispetto all'attività del concorrente morale. Nell'esempio del soggetto determina l'amico a far parte dell'associazione, occorre che la partecipazione di questo debba intervenire in un momento di fibrillazione del sodalizio. Pare debba allora conseguirne che, o si ammette che il determinatore o l'istigatore è un partecipe in quanto concorre nel far parte e, quindi, che il concorso morale si traduca, in effetti, in una ordinaria ipotesi di concorso, ovvero, bisognerà far riferimento alle stesse regole poste per il concorso materiale.
Nell'esempio citato, tuttavia, il requisito dello stato di fibrillazione del sodalizio criminale sembra meno pregnante non apparendo in verità così rilevante ai fini degli obiettivi perseguiti dal cosiddetto determinatore o istigatore.
Il presupposto resta, quindi, l'emergenza della vita dell'associazione; ovvero nello spazio della normalità viene dunque ad essere occupato uno spazio non occupabile da uno degli associati. Il principio di tipicità sembrerebbe, così, seriamente compromesso anche per la stessa nozione di tipicità-atipicità espresso dalla decisione testè commentata.
Non molto distante dai principi rassegnati è la decisione della sentenza più recente, che ha destato profondo e concreto interesse negli operatori, più che per la novità dei suoi contenuti, per la conferma ad un indirizzo precedentemente assunto dalla S.C., che, se non fosse stato in seguito ripreso da altre pronunce rischiava di rimanere isolato, o comunque relegato allo specifico caso risolto.
La Cassazione infatti, chiamata a pronunciarsi, ancora una volta, in materia di esigenze cautelari, ribadisce il concetto per cui il concorso esterno, per la sua configurabilità e contestabilità presuppone necessariamente uno stato di fibrillazione del sodalizio criminale, in cui la stessa sopravvivenza dell'associazione ed il perseguimento degli scopi suoi propri sia in pericolo.
In questo accertato contesto il contributo esterno deve inserirsi come essenziale ai fini della vita stessa dell'associazione, in una forma di "salvataggio" difficilmente operabile con i mezzi ordinari, cioè con l'apporto delle condotte dei partecipanti.
Tra le righe della motivazione è poi presente un aspetto afferente al percorso logico seguito dai Decidenti che nonostante appaia conseguenza del ragionamento tutto, rischiando quindi di apparirne soltanto un logico corollario, lo scrivente ritiene di fondamentale e non trascurabile importanza.
Si afferma infatti, che il ricorrente sarebbe stato "vittima" e non già compartecipe dell'associazione, le cui imposizioni avrebbe dovuto subire senza con ciò poter evitare pesanti perdite sul piano economico.
A parere di chi scrive l'importanza dell'argomento citato è rilevantissima.
Non è infatti infrequente che il concorrente si trovi costretto a fornire il proprio atipico contributo all'associazione proprio a causa dell'inevitabile ed insottraibile pressione intimidatrice posta in essere dall'associazione nei suoi confronti.
Allora il problema interpretativo si trova a spostarsi dalla natura , dal contenuto, dalla portata e dagli effetti del contributo fornito, alle motivazioni di fondo che hanno indotto il concorrente esterno a fornire il proprio contributo al sodalizio criminale, ed ai vantaggi dallo stesso effettivamente conseguiti.
Infatti, se è vero , come è vero, che il concorrente deve fornire un apporto causale all'associazione perché questa possa garantirsi la sopravvivenza, ci si deve chiedere quanto sia importante la portata dei vantaggi che tale concorrente riceve in cambio, dal sodalizio.
Non apparendo sufficiente l'indicazione generica dei vantaggi connaturati all'appartenenza all'associazione, od al sodalizio criminale in generale, non divenendo egli partecipe, appunto, e non comprendendosi come l'eventuale sussistenza di un serio nocumento, sotto il profilo economico, per il concorrente esterno, possa essere interpretata come una utilità cercata e volitivamente determinata.
Non può infatti, restando in linea con i principi tutti del nostro ordinamento, ammettersi che il concorrente, che abbia agito perché intimidito , spaventato, e quindi "costretto" dall'associazione, debba rispondere di concorso con questa nel perseguimento proprio dei suoi scopi.
L'argomento richiederebbe un ulteriore approfondimento in relazione, almeno, alla eventuale sussistenza, in casi come quello citato, di scriminanti od esimenti che esula dagli obiettivi di questa relazione.
Tuttavia quanto esposto non può che indurre ad una attenta riflessione.
Se infatti il contributo fornito dal concorrente si riduce ad una imposizione che cagiona un vantaggio all'associazione e contestualmente una secca perdita economica in relazione a quanto il concorrente avrebbe potuto trarre economicamente se l'associazione non fosse intervenuta, è lecito chiedersi come appare possibile contestare al concorrente una condotta che, seppur ai limiti della partecipazione, possa configurarsi come contributo causale volontario e voluto.
Invero la Giurisprudenza in materia, sembra che non abbia ritenuto di fondamentale importanza dilungarsi sui requisiti ed i parametri di riferimento relativi all'eventuale vantaggio ( o svantaggio) ottenuto dal concorrente sulla propria sfera di interessi a seguito del contributo fornito, preferendo una attenta analisi della portata e degli effetti che tale contributo esplica sulla vita dell'associazione pur se a scapito degli interessi del concorrente.
Come può infatti sostenersi, senza cadere in contraddizione, che il concorrente contribuisca a rafforzare gli scopi dell'associazione, e quindi implementarne, tra gli altri, la forza intimidatrice, se questi in luogo di esser parte nell'attività intimidatrice ne è il primo destinatario? Ed alla associazione stessa egli soggiace ?
L'incertezza ora prospettata, dal punto di vista teoretico, talvolta genera o può generare situazioni per cui, soggetti coinvolti nel medesimo procedimento, con posizioni non dissimili, e caratteristiche dinamico operative analoghe, vengano ad essere inquadrati in maniera diversa sotto il profilo giuridico.
Tutto ciò violentemente vilipendiando e vituperiando principi cardine del nostro ordinamento, come di molti altri, in tema di certezza della norma, della sua portata applicativa, e conseguentemente in materia di certezza del trattamento sanzionatorio conseguente.
Tutto quanto sin qui rassegnato non può non indurre, a parere di chi scrive, ad una sana ed attenta riflessione sulla insostenibilità di una situazione normativa come quella sin ora passata in rassegna.
Infatti, a ben vedere, tutti questi problemi interpretativi, tutte queste vicende processuali travagliate e complesse, potrebbero facilmente essere evitate sol che giungesse dal legislatore una norma chiara e precisa, che, confermando la attenzione da questo sempre prestata alla politica di repressione della criminalità organizzata, ed in particolare di quella forma di essa che è costituita dall'associazione di tipo mafioso, in ossequio anche ad imprescindibili esigenze garantistiche, fissi dei chiari e visibili paletti di convergenza in ipotesi di reato come il cosiddetto concorso esterno in associazione mafiosa, ancora oggi inammissibilmente troppo sfuggenti e indeterminati, proprio perché reato di genesi giurisprudenziale, ed in quanto tali esposto a costanti e continui mutamenti nel tempo, inammissibili, se di portata così rilevante in uno stato non fondato sul principio di common law.
Non resta altro che augurarsi, pertanto, che intervenga presto una novella legislativa affinchè un fascio di luce illumini definitivamente il buio che oggi caratterizza il concorso esterno in associazione mafiosa, in spregio ai principi che dovrebbero ispirare un ordinamento garantistico fondato sulla certezza del diritto, con l'auspicio che i gaps esistenti tra le fattispecie concretamente atteggiantesi nell'odierno tessuto connettivo sociale, per sua natura in continua evoluzione, e le previsioni normative volte a regolamentarle, ed a reprimere le condotte socialmente riprorevoli, siano destinati a ridursi in misura sempre maggiore attraverso, absit iniuruia verbis, un più attento e solerte lavoro degli organi statuali a ciò preposti.
Perché, soprattutto, la troppo spesso sbandierata esigenza di repressione della criminalità organizzata in generale, e quella di tipo mafioso in particolare, non rimanga relegata all'interno della sempre più fitta maglia della cdd. "politica delle intenzioni".
Nella specifica materia, peraltro, non si versa in ipotesi in cui l'iter di formazione della norma rischia di essere ostacolato da difficoltà di natura dinamico-attuativa, come troppo spesso oggi accade, legate a meri strumenti di lotta politica, scardinati dall'effettivo interesse generale, versandosi, invece, nella fattispecie, in materie, come quella della repressione della macrocriminalità, che, almeno in apparenza, sembrano sganciate dalle caratteristiche contrapposizioni in fazioni tipiche del nostro paese, in cui l'uso di atteggiamenti dilatori ed ostruzionistici, è ormai consolidato in termini prassi parlamentare, e che, posti in essere da parte dell'uno o dell'altro schieramento politico, in questo caso, non potrebbero che rivelarsi chiaramente controproducenti.

- dott. Andrea Dell'Aira - aprile 2002

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