Luigi D'Angelo, Infermità di mente e sistema penale
Il codice penale Rocco, agli
artt. 88 e 89, descrive la disciplina del cosiddetto vizio di mente definito
quale causa di esclusione totale o parziale della imputabilità con riferimento
al momento del commesso reato.
Attualmente la problematica della "incapacità di colpevolezza"
per infermità mentale, espressione utilizzata da coloro aderenti a quell'indirizzo
emenutico il quale considera la capacità naturalistica del soggetto autore
del reato quale presupposto del giudizio di rimproverabilità, è
da tempo al centro di vivaci dispute dottrinarie e controverse intermpretazioni
pretorie poiché nella prassi vige una notevole incertezza riguardo la
individuazione dei presupposrti di fatto necessari per l'applicabilità
delle citate norme.
E' infatti da rilevare che allo stato attuale la stessa scienza psichiatrica
fatica ad offrire una concezione univoca del vizio di mente; la ragione è
insita nella profonda evoluzione che gli studi scientifici nella materia de
quo hanno vissuto, dapprima a seguito dell'opera di Sigmund Freud e successivamente,
tra gli anni '60 e '70, con il sorgere della scuola psichiatrica dell'opposizione
(antipsichiatria).
Si tratta in particolare di orientamenti scientifici che con il loro affermarsi
nella cultura medica, hanno prodotto come effetto la crisi dell'originario "paradigma
psichiatrico" che con ogni probabilità orientò il legislatore
del 1930.
In quel periodo l'unico modello di infermità mentale riconosciuto dalla
scienza era infatti rappresentato da quello fondato sul criterio clinico-nosografico;
la malattia mentale era considerata tale ed in grado di escludere o diminuire
la capacità di intendere e di volere, solo quando la stessa era inquadrabile
e riconoscibile quale lesione organica del sistema nervoso centrale.
Orbene, premesso che compito del gurista non è tanto quello di indagare
sulla validità dei vari modelli psichiatrici presentati dalla scienza
medica ma quanto di analizzarne la congruità rispetto alle esigenze del
sistema penale, appare opportuno procedere ad una breve disamina dei medesimi
con riferimento alle posizioni assunte dalla giurisprudenza per i fini anzidetti.
Iniziando dall'analisi del modello antipsichiatrico o sociale, è subito
da evidenziare come in realtà i presupposti sui cui è costruito
tale indirizzo, per unanime consenso da parte della dottrina e della giurisprudenza,
risultano del tutto inconciliabili con i principi del nostro sistema normativo.
Tale scuola di pensiero infatti, partendo dal postulato secondo cui non esisterebbe
l'infermità di mente essendo al contrario rinvenibile nel sostrato sociale
una diffusa patalogia, sostiene la necessità di eliminare gli squilibri
relazionali del singolo stigmatizzato come debole, diverso, emarginato ergo
"malato", proprio mediante il reinserimento sociale dello stesso.
Ora se alle idee si siffatto orientamento antipsichiatrico è da tributare
il merito di aver indotto il legislatore a sopprimere le strutture manicomiali
civili occorre tuttavia porne in evidenza anche l'incompatibilità nei
confronti dei criteri fondanti il nostro sistema penale in tema di infermità
mentale.
Il codice Rocco infatti, normativizza il vizio di mente con una funzione assolutamente
discriminante tra individui sani ed individui interessati da una patolgia mentale
pertanto palese emerge la contraddizione riguardo i fondamenti della scuola
antipsichiatrica.
Non è un caso del resto che in nessuna decisione giurisprudenziale sia
rinvenibile il recepimento di codesto paradigma il cui accoglimento inoltre
potrebbe essere causa di pericolosi manipolazioni potendosi surretiziamente
etichettare come infermi di mente, soggetti diversi in un quadro prettamente
ideologico o politico.
Da quanto esposto si intuisce allora che l'apertura dell'originario paradigma
fondante gli artt. 88 e 89 c.p., è stata provocata dall'affermarsi del
cosiddetto modello psicologico avente quale insigne fautore Sigmund Freud.
E' noto come la scuola freudinana estenda il concetto di malattia di mente anche
rispetto alle anomalie della psiche; la scoperta dell'inconscio quale universo
interiore dell'individuo, finisce col conferire rilevanza anche a quei disturbi
mentali determinati dall'ambigua prevalenza di una distorta realtà psicologica
rispetto alla realtà esteriore.
Si registrano in alcune pronunzie giurisprudenziali casi di proscioglimento
per l'insorgere di particolari psicopatie, deliri febbrili e addirittura un
complesso edipico non superato.
Si rende pertanto necessario valutare la legittimità sul piano del rispetto
dei principi ordinamentali, della inclusione degli illustrati modelli di infermità
mentale nell'originario paradigma di infermità recepito ex artt. 88.
89 c.p. dal legislatore del '30.
Parte della dottrina, partendo dalla constatazione del recepimento nella giusrisprudenza
del paradigma freudiano, in alternativa al modello nosografico seppure con variegate
sfumature, ha posto in dubbio la corretteza ermenutica di simle operazione comportante
come affermato l'ampliamento del concetto di infermità mentale.
Più in particolare il problema è riferibile al carattere "rigido"
o "elastico" del concetto di infermità mentale in quanto non
vi è accordo in dottrina e giurisprudenza sulla configurabilità
di tale concetto quale elemento normativo oppure descrittivo della fattispecie
prevista dagli artt. 88 e 89 c.p..
La valutzione della concezione della malattia mentale sullo schema degli elementi
normativi extragiuridici della fattispeice, consente la possibilità di
un adeguamento automatico delle norme al mutare del paradgima di riferimento
e quindi al muutare dei tempi, della realtà sociale.
Al contrario, ritenere sulla base di una ricostruzione della volontà
storica del legislatore che quest'ultimo abbia inseirto nelle menzionate norme
un elemento descrittivo, al limite suscettibile di ampliamento ma rispetto al
medesimo paradigma (nosografico), porta ad escludere la legittimità di
quelle posizioni emenutiche dilatanti la categoria dell'infermità mentale
e ciò perchè suscettive di essere connotate come meramente arbitrarie.
A giudizio dello scrivente sembra però che il primo approccio intepretativo
sia maggiormente condivisibile non tanto però nel senso di ritenere possibile
l'automatico adeguamento dell'ordinamento penale ai nuovi contributi scentifici
della cultura psichiatrica stante l'evidente mutevolezza e fragilità,
insita nella materia, di ogni teoria sempre suscettibile di ridefinizione.
Inoltre accogliere una trasposizione sistematica nel mondo del diritto di ogni
innovazione scientifica riguardo al settore delle malattie mentali è
operazione irrazionale poichè diverse sono le esigenze che la scienza
medica e quella giuridica tendono a soddisfare.
E' tuttavia accettabile l'interpretazione degli artt. 88 e 89 c.p. sullo schema
degli elementi normativi extragiuridici della fattispecie nel senso di riconoscere
una relativa autonomia, in sede giurisdizionale, della valutazione giuridico
penale dell'infermità mentale e ciò al fine di consentire al giudice
un accertamento in concreto della mancanza di imputabilità che non sia
"preregolato" e limitato dai postulati di un indirizzo psichiatrico.
Bisogna allora riporre l'attenzione non tanto sulla classificazione da attribuire
ad una data tipologia di infermità mentale bensì sugli effetti
che la medesima produce sulla capacità naturalistica dell'individuo valutando
la presenza o meno in capo a quest'ultimo, di una pur labile attitudine ad autodeterminarsi
e ad effettuare scelte coscientemente orientate.
Da un punto di vista giuridico inoltre non appare irragionevole ritenere che
le norme de quo possano, sulla base del necessario adeguamento delle stesse
alla realtà sociale, autoridefinirsi anche svincolandosi dalla originaria
scelta del legislatore.
Del resto l'eventuale abrogazione degli articoli del codice penale disciplinanti
il vizio di mente ed una loro eventuale riedizione legislativa che tenesse conto
anche del "nuovo" paradigma psicologico-freudiano, potrebbe comportare
il paradosso di vedersi riproposte delle norme aventi un dettato normativo identico
alle precedenti.
All'accoglimento di un paradigma di infermità mentale più ampio
deve però conseguire un accertamento del vizio di mente capace di eliminare
o ridurre l'imputabilità rispetto al momneto del commesso reato, che
permetta di riconoscere e diagnosticare l'infermità medesima, con una
grado di probabilità vicino alla certezza; occorre infatti considerare
il pericolo incombente sul "nuovo" infermo di mente e rappresentato
dalla applicazione della misura di sicurezza dell'opedale psichiatrico giudiziario.
Ed allora soltanto dopo un oculato ed approfondito giudizio da svolgersi caso
per caso riguardo alla patologia riscontrata in concreto potrà essere
disposto l'internamento ai sensi degli artt. 219 e 222 c.p.
Dott. Luigi D'Angelo - maggio 2000
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