Mario de Giorgio, Brevi spunti di riflessione sui riti alternativi azionabili a seguito della notifica del decreto che dispone il giudizio immediato

La tecnica legislativa "a macchia di leopardo" che ha caratterizzato la normazione processualpenalistica degli ultimi anni ha trovato una definitiva consacrazione (o, forse, sarebbe preferibile parlare di sublimazione) con la cd. "legge Carotti".

Numerosi istituti, infatti, sono stati modificati per effetto della L. 479/99, creando non poche difficoltà applicative agli operatori del diritto, alle prese con complessi problemi di diritto intertemporale (si considerino, all'uopo, le pronunce del GIP di Firenze del 22.6.2000, del Tribunale di Roma del 18.9.2000 e del 4.10.2000, del Tribunale di S. Angelo dei Lombardi del 4.10.2000, tutte su Penale.it) e con difficoltà di gestione di nuovi poteri processuali (si pensi alla possibilità per l'imputato di richiedere il rito abbreviato senza il consenso del pubblico ministero, cui deve contrapporsi il correlativo ampliamento dei poteri dell'autorità giudicante ai sensi degli articoli 438 e 441.5 C.p.p.).

A ciò si aggiunga che il legislatore, evidentemente non pago delle aporie sistematiche introdotte con la "Carotti", ha ritenuto opportuno modificare a più riprese il nuovo impianto normativo (cfr. D.L. 82/2000, L. di conversione 144/2000, D.L. 341/2000 cd. "antiscarcerazioni"), con il risultato di ingenerare ulteriore confusione interpretativa: in tal senso la norma di "interpretazione autentica" di cui all'art. 7 del D.L. 341/2000 è una vera e propria perla dal sapore beffardo.

Tanto premesso, un problema di non secondario momento - sorto proprio con l'entrata in vigore della legge Carotti - attiene all'operatività dei riti alternativi azionabili a seguito dell'instaurazione del giudizio immediato.

L’articolo 33.1, lett. a), della legge 479 del 1999, infatti, ha modificato l’articolo 446.1 del codice di procedura penale ed all’uopo ha disposto che, nel caso in cui sia stato notificato il decreto di giudizio immediato, la richiesta di “patteggiamento” deve essere formulata entro il termine e con le forme stabilite dall’articolo 458 C.p.p. (norma che disciplina le modalità di presentazione della richiesta di giudizio abbreviato). Di conseguenza, l’imputato dispone di un tempo di appena sette giorni - dalla notifica del predetto decreto - per depositare presso la cancelleria del giudice per le indagini preliminari la richiesta di rito alternativo (con la prova dell’avvenuta notifica al pubblico ministero); in precedenza, viceversa, detta opzione poteva essere esercitata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (sul punto si legga comunque l’interessante interpretazione fornita dal G.I.P. presso il Tribunale di Salerno nel provvedimento del 30.10.1998, imp. Barone, in Cassazione penale n. 3/2000, p. 748).

Ebbene, pur non brillando la novella per coerenza sistematica (il richiamo al termine ed alle forme previste dall’articolo 458 C.p.p. in tema di richiesta di giudizio abbreviato, infatti, non è parso felice, posto che, mentre il “patteggiamento” continua a postulare l’accordo fra le parti, il giudizio abbreviato non necessita più, come accennato, del consenso del pubblico ministero per poter essere radicato), la nuova formulazione dell’articolo 446.1 C.p.p. ha inciso significativamente sull’applicazione della disciplina del giudizio immediato.

Sempre più frequentemente, infatti, le procure si rivolgono al giudice per le indagini preliminari richiedendo l’emissione del decreto di cui all’articolo 455 C.p.p.: by-passando l’udienza preliminare, infatti, si consente una più celere definizione dei procedimenti connotati dall’evidenza della prova e, al tempo stesso, si invoglia l’imputato a richiedere (entro il termine di decadenza di sette giorni, come detto) l’ammissione ad un rito alternativo al dibattimento.

D'altro canto, poiché ontologicamente il giudizio immediato si fonda sull’evidenza della responsabilità, nella maggior parte dei casi vi è un concreto interesse dell’imputato a definire il procedimento (ove possibile) ai sensi degli articoli 438 o 444 C.p.p.

Rebus sic stantibus, qualche perplessità suscita l'ipotesi in cui destinatario del decreto che dispone il giudizio immediato sia uno straniero che non padroneggi la lingua italiana e che, pertanto, non sia in grado di comprendere che il termine ivi indicato per adire i riti speciali è previsto a pena di decadenza. Non di rado, infatti, è accaduto che imputati stranieri abbiano proposto istanza di patteggiamento o di giudizio abbreviato direttamente dinanzi al giudice dibattimentale individuato ai sensi dell'articolo 457 C.p.p., convinti di poter ancora esercitare tali opzioni alternative.

Ebbene, non vi è dubbio che tale situazione determini una menomazione del diritto di difesa, quanto meno nella misura in cui si interpreti tale diritto in senso ampio, in guisa da ricomprendere non solo l’attività di controdeduzione rispetto alla prospettiva accusatoria, ma anche la facoltà di ricorre a riti alternativi al dibattimento (cfr. ordinanza 18.9.2000 del Tribunale monocratico di Roma ed il richiamo ivi contenuto alla sentenza n. 497/95 della Corte costituzionale).

Alla luce di tali considerazioni, pertanto, è da apprezzare l'orientamento fatto proprio da alcuni giudicanti, i quali - ben consci del fatto che la mera notifica del decreto che dispone il giudizio immediato non implica, ipso facto, una presunzione di conoscenza (e di consapevole apprendimento) del suo contenuto da parte dell’imputato - consentono al richiedente di adire, seppur tardivamente, i riti alternativi di cui agli artt. 438 e 444 C.p.p. Una recente ordinanza del Tribunale di Pisa in composizione monocratica (ordinanza 19.10.2000, Giudice Dr. Degl'Innocenti), ad esempio, è pervenuta a tale conclusionesulla base delle seguenti valutazioni:

a) l’imputato nel caso di specie aveva avuto necessità di un interprete;

b) il decreto non era tradotto nella sua lingua d’origine e nemmeno in una delle lingue previste dalla normativa in tema di espulsione ;

c) il prevenuto, in considerazione del suo presumibilmente basso livello di cultura, non aveva compreso che la possibilità di adire un giudizio speciale era subordinata al rispetto di un termine di decadenza.

Tale ordinanza, del resto, si pone nel solco di un principio generale desumibile dalla recente giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. A tenore della sentenza n. 12/2000 (in Guida al Diritto n. 26/2000, p. 73), infatti, “se lo straniero ha mostrato in qualsivoglia maniera di rendersi conto del significato degli atti compiuti con il suo intervento o a lui indirizzati e non è rimasto completamente inerte ma, al contrario, ha assunto personalmente delle iniziative rivelatrici della sua capacità di difendersi adeguatamente, il giudice non ha alcun obbligo di provvedere alla nomina dell’interprete”. La necessità della nomina di un interprete, quindi, postula una valutazione complessiva del contegno mantenuto dall’imputato, del quale si deve verificare soprattutto la capacità di comprensione del significato degli atti che lo concernono (ed in proposito, come visto, appare rilevante anche l’inerzia mantenuta a fronte di possibilità di scelte processuali che pur si era chiamati a compiere).

Da ultimo, mette in conto chiedersi se il più volte menzionato termine di sette giorni previsto dall’articolo 458.1 C.p.p. (e richiamato, come detto, anche dall’articolo 446.1 del codice di rito) sia compatibile o meno con i principi introdotti dal rinnovato articolo 111 della Costituzione.

Il termine di decadenza de quo, infatti, pone essenzialmente due problemi:

a) l’inconciliabilità di un lasso di tempo così breve con il concreto esercizio del diritto di difesa;

b) la previsione di un unico limite temporale per richiedere, una volta notificato il decreto che dispone il giudizio immediato, tanto il giudizio abbreviato quanto il “patteggiamento”.

Quanto all’aspetto sub a), appare evidente che in soli sette giorni sia a dir poco improbo articolare una strategia difensiva adeguata. L’evidenza della prova, infatti, non semplifica il lavoro del difensore: spesso il ricorso al “patteggiamento” implica l’esame di una pluralità di elementi - quali la valutazione dei precedenti penali dell’imputato (ed è noto che non in tutti i casi i certificati penali risultano aggiornati), la possibilità o meno di fruire della sospensione condizionale della pena, il ricorso a misure alternative alla detenzione, l’eventuale riconoscimento del vincolo della continuazione con altri precedenti episodi - che necessitano, per essere adeguatamente soppesati, di un periodo ben più lungo.

In buona sostanza, il termine ex articolo 458.1 C.p.p. non sembra essere compatibile con il disposto del nuovo articolo 111.3 della Costituzione, in particolare ove si precisa che la legge deve assicurare che la persona accusata di un reato debba disporre “del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa”.

Non solo, ma appare francamente singolare che per reati di scarso spessore criminale, come l’ingiuria e la minaccia, l’ordinamento consenta all’imputato di poter patteggiare fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento (al riguardo si tenga conto del fatto che il decreto di citazione diretta deve essere notificato ex articolo 552.3 C.p.p. almeno sessanta giorni prima della data dell’udienza) e, viceversa, conceda solo sette giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato per poter operare (spesso in presenza di ipotesi delittuose connotate da maggiore gravità) le medesime scelte: sebbene le due situazioni debbano considerarsi ontologicamente differenti, rimane pur sempre per il difensore un senso di disagio nel vedere talmente compresse determinate garanzie processuali.

Tale senso di disagio aumenta in modo esponenziale quando si affronta il problema evidenziato sub b): quid iuris nel caso in cui l’imputato, che abbia formulato istanza ex articolo 444 C.p.p. entro i limiti temporali di cui all’articolo 458.1 C.p.p., si veda respingere detta istanza quando è oramai decaduto dal termine per presentare una richiesta di giudizio abbreviato?

La lettera della legge non sembra consentire una rimessione in termini; non resterebbe, quindi, che ricorrere ad un escamotage poco elegante per quanto necessitato: presentare contestualmente alla richiesta di patteggiamento una subordinata istanza ex articolo 438 C.p.p.

Ma la soluzione non convince: chi patteggia ammette indirettamente le proprie responsabilità ed un eventuale giudizio abbreviato (dal quale potrebbe scaturire teoricamente anche un’assoluzione) apparirebbe unicamente finalizzato a fruire dello sconto di pena. D’altro canto, impedire il ricorso al giudizio abbreviato all’imputato che non abbia avuto la possibilità di patteggiare potrebbe comportare la violazione degli articoli 24 e 111 della Costituzione.

In definitiva, ed in mancanza di univoche indicazioni normative, non resta che attendere la soluzione che verrà fornita dalla prassi giurisprudenziale (più che mai in tal caso si potrebbe richiamare il noto detto “ai posteri - rectius: ai giudici - l’ardua sentenza”); tuttavia, sarebbe comunque auspicabile un intervento chiarificatore del legislatore in subiecta materia (e sempre purché non si espliciti - sic! - in singolari norme di "interpretazione autentica").

Pisa, lì 5.12.2000

Avv. Mario De Giorgio (mario.degiorgio@tiscalinet.it)

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