Antonio Genovese, Il difensore e la verità
La nuova legge sulle investigazioni difensive (Legge 7/12/2000 n. 397), che consente all’avvocato di ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito, ha messo sul tappeto alcune affascinanti problematiche che coinvolgono il ruolo ed i doveri del difensore.
Rispetto al passato, le potenzialità offerte all’avvocato per esercitare al meglio il diritto di difesa sono pressoché illimitate, ma, quale rovescio della medaglia, di nuove insidie si caratterizza il percorso difensivo.
Il difensore ha ora l’opportunità di «indagare» ricercando prove che possono risultare favorevoli per il cliente e portarle direttamente all’attenzione dell’autorità giudiziaria. A tal fine, può acquisire notizie da persone in grado di riferire circostanze utili ai fini dell'attività investigativa e documentare le informazioni e dichiarazioni ricevute a norma dell’art 391-ter c.p.p., chiedere documenti in possesso della pubblica amministrazione ed estrarne copia, accedere, ove necessario, a luoghi privati o non aperti al pubblico. In definitiva può apportare un rilevante e, fino ad ora, impensato contributo per la formazione del libero convincimento del giudice.
Ma, che cosa accade se nel corso di tali attività il difensore venga a conoscenza di fatti o circostanze che, non solo, non potrebbero giovare in alcun modo al cliente, ma si rivelano come gravemente pregiudizievoli alla strategia difensiva?
Il quesito si fa ancor più stringente se si considera che l’art. 14 del codice deontologico forense proclama l’esistenza di un dovere di verità dell’avvocato sia pur limitato a ciò di cui egli abbia avuto «diretta conoscenza», vietando «l’introduzione intenzionale nel processo di prove false e l’assunzione a verbale di dichiarazioni testimoniali che si sappia essere false».
Ecco, che viene in luce l’aspetto problematico della legge che ha conferito al difensore pari dignità rispetto alla pubblica accusa: quale deve essere il rapporto che intercorre tra il Difensore e la Verità?!
Gli addetti ai lavori, che finora si sono occupati dell’intrigante questione, hanno assunto posizioni non sempre univoche.
Da un lato, c’è chi sostiene che la «diretta conoscenza» sarebbe limitata solo a quanto il difensore personalmente percepisca de visu o de auditu mentre tutto quanto egli apprenda in sede di indagini difensive o per le confidenze ricevute dal cliente costituirebbe conoscenza «mediata» e non vincolata al dovere di verità (utilizzabile per valorizzare elementi di prova a favore del cliente); dall’altro c’è chi si pone in una prospettiva diversa, più problematica, domandandosi se alla luce della legge de qua sul difensore non gravi un più rigoroso dovere di verità di modo che la fisionomia dell’avvocato non si trovi in una posizione di squilibrio rispetto all’obbligo di verità a cui è invece tenuto il P.M.
Forse maggior chiarezza su quali debbano essere i limiti ed i doveri correlati all’attività difensiva ci sono offerti proprio dalla finalità che anima la legge sulle indagini difensive, nonché da alcune considerazioni sul diritto di difesa costituzionalmente garantito.
Invero l’art. 327 bis del codice di procedura penale stabilisce che «fin dal momento dell’incarico professionale, risultante da atto scritto, il difensore ha facoltà ricercare ed individuare elementi di prova a favore del proprio assistito...». Ben netta è quindi la diversità del ruolo dell’avvocato difensore rispetto a quello del P.M., al quale il codice di rito impone di svolgere «altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini». Al difensore, invece, non soltanto non compete un analogo dovere, ma è investito della possibilità di conferire con le persone informate sui fatti attraverso un colloquio non documentato ai sensi dell’art. 391 bis co. 1 c.p.p.
La norma in questione consente dunque al difensore di vagliare l’opportunità di documentare le dichiarazioni ricevute a seconda dell’utilità che queste rivestano per la tesi difensiva (ancora irrisolta è la questione se il difensore assuma la qualifica di pubblico ufficiale nel momento in cui decida di procedere a dichiarazione verbalizzata; a parere di chi scrive militano a favore della tesi che esclude detta qualifica in capo al difensore, un dato sistematico ed un dato testuale. Il primo si rinviene nell'art. 327 bis c.p.p. sopra citato, il secondo nella disposizione di cui all'art. 334 bis, che non impone al difensore di denunciare i reati dei quali venga a conoscenza.)
In realtà, quindi, il ruolo del difensore "non può che essere definito all’interno (...) dei confini del diritto di difesa, finendo per coincidervi perfettamente in quanto "strumento" che ne assicura il godimento".
Al di fuori di questo confine non vi è spazio autonomo per l’avvocato. Infatti, il difensore, nel dare attuazione all’esercizio del diritto di difesa, fermo restando il divieto di introduzione intenzionale nel processo di prove false, non può certo essere gravato da un obbligo di verità che sicuramente non incombe in capo al suo assistito.
Come argutamente è stato osservato da taluno, legare l’avvocato ad un dovere di verità significherebbe pre - giudicare il cliente, «il quale ha diritto ad un avvocato e ad un giudice, e non a due giudici»!
Per tratteggiare diritti e doveri dell’avvocato, infatti, non vi è alcun bisogno di scomodare la «Verità», quanto piuttosto la ... «Lealtà»!
- avv. Antonio Genovese (Torino) - settembre 2002
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