Stefano G. Guizzi, Alcune riflessioni sulla introduzione del giudice unico (*)

1. La (piena) entrata in vigore della normativa relativa all'istituzione del giudice unico di primo grado impone - da parte di tutti i magistrati giudicanti e requirenti del Tribunale chiavarese - lo svolgimento di alcune riflessioni, anche al fine di evitare che il - non sempre felice - dettato normativo possa essere oggetto di applicazioni non uniformi da parte dei medesimi.
Scopo pertanto del presente elaborato - che non ha certamente pretese di approfondimento scientifico, e quindi di trattazione organica ed esaustiva della materia de qua - è solo quello di offrire alcuni spunti per cominciare ad interrogarsi in vista di un futuro (e si auspica prossimo) confronto tra noi colleghi, anche per sollecitare il quale è stata intenzione del sottoscritto provvedere all'elaborazione del presente documento.
La necessità, invero, di non giungere impreparati all'appuntamento rappresentato dalla piena applicazione della riforma, nonché quella di riuscire a prevedere i possibili problemi derivanti dalla sovrapposizione, alla normativa abrogata, del ius superveniens (e ciò al fine di limitare le - in parte inevitabili - disfunzioni che suddetta sovrapposizione è destinata ad originare), hanno indotto chi scrive a concentrare la propria attenzione in particolare sul tema dei rapporti tra ufficio della Procura della Repubblica e Tribunale, nonché su quello relativo ai "mutamenti" di rito, e ciò anche in ragione della assenza di disposizioni di attuazione e coordinamento.
Trattasi di tematica quest'ultima (quella cioè relativa ai "mutamenti" di rito) che verrà affrontata in via principale (oltre che preliminare) nel presente elaborato, interessando essa in modo particolare lo svolgimento dei processi già in corso di celebrazione all'atto dell'entrata in vigore della L. 479/99, e segnatamente, sia quelli aventi ad oggetto i reati un tempo di competenza del Tribunale (ed oggi viceversa rientranti - ex art. 33 ter c.p.p. - tra le attribuzioni del giudice unico "in composizione monocratica"), quanto quelli che - in passato assegnati ex art. 7 c.p.p. alla competenza funzionale del Pretore - sono stati fatti oggetto di un regime del tutto peculiare (se non "ibrido").
Il riferimento è infatti a quelle fattispecie criminose che (rientranti anch'esse nella sfera di attribuzione del giudice "monocratico", avendo la stessa - come si vedrà di qui a breve - carattere "generale" e "residuale") non state però assoggettate, dal comma 2 del "nuovo" art. 550 c.p.p., al sistema della cd. "citazione diretta a giudizio" da parte del P.M.
Rispetto a tali reati, pertanto, vige il sistema dello svolgimento dell'istruttoria dibattimentale previa celebrazione dell'udienza preliminare, e dunque un regime - se non "ibrido", come si accennava poc'anzi - comunque estraneo all'esperienza del rito pretorile, essendo proprio questo ultimo, non solo il modello processuale un tempo previsto per il loro accertamento, ma anche quello prescelto in via generale dallo stesso legislatore della riforma (salvo appunto l'eccezione concernenti i reati de quibus) per la celebrazione, innanzi al giudice monocratico, dei processi relativi ai reati un tempo rientranti nella competenza del Pretore.

2. Individuati i problemi principali (di diritto "intertemporale") sollevati dalla nuova normativa occorre procedere ordinatamente alla loro disamina, dando rilievo in primo luogo - come preannunciato - a quelli concernenti i cd. "mutamenti" di rito.
Per comprendere tuttavia la loro esatta portata occorre ribadire quale sia stato il sistema di ripartizione seguito dal legislatore nel disciplinare le rispettive attribuzioni spettanti al Tribunale, nelle sue alternative composizioni "collegiale" e "monocratica".
Preliminarmente, peraltro, si rileva che l'uso del termine "attribuzioni" piuttosto che quello di "competenza" (per designare la sfera entro la quale è destinato ad operare il Tribunale nella sua attuale duplice "veste"), oltre a rispondere ad una precisa necessità (quella conseguente alla avvenuta soppressione dell'ufficio pretorile, ed alla sua unificazione con quello del Tribunale), soddisferebbe anche l'esigenza di chiarire che nella "ipotesi di inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale, non sorge una questione di "competenza" in senso stretto", venendo soltanto in rilievo un problema di "nullità a regime intermedio". (cfr. sul punto il commento che Giuseppe AMATO ha dedicato agli artt. 33 bis e ter c.p.p., su "Guida al Diritto" n. 1 del 15/1/2000, sottolineando - alla pag. XX di tale scritto - come la corrispondente eccezione debba essere rilevata o eccepita a pena di decadenza - ex art. 33 quinquies c.p.p. - prima della conclusione dell'udienza preliminare, ovvero, se essa manchi, entro il termine di cui all'art. 491 co. 1 c.p.p.).
Tanto premesso, tornando al criterio, seguito dal legislatore delegato per la ripartizione delle attribuzioni al tribunale in composizione "collegiale" e "monocratica", deve osservarsi come il legislatore delegato - in applicazione di quanto specificamente previsto dall'art. 1 punto c) della L. 254/97 (cioè la legge di delega al Governo "per l'istituzione del giudice unico di primo grado") - abbia inteso conferire alla sfera di intervento riservata al tribunale in composizione collegiale carattere "speciale", limitandone dunque l'ambito ai soli reati specificamente individuati dall'art. 33 bis c.p.p.
Per contro, quindi, il successivo art. 33 ter c.p.p. configura la sfera di attribuzioni del giudice monocratico come "generale" e "residuale" ad un tempo, atteso infatti che il comma 2 di tale norma fissa il principio secondo cui "il tribunale giudica in composizione monocratica (...) in tutti i casi non previsti dall'art. 33 bis o da altre disposizioni di legge".
In base a questa suddivisione risultano pertanto (ancora) assoggettati (recte : "riservati") alla trattazione e decisione del collegio, oltre ai reati specificamente individuati al comma 1 dell'art. 33 bis c.p.p., "quelli puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni" (così il comma 2 del medesimo articolo).
Ne consegue pertanto che i problemi di "mutamento" del rito (per "passaggio" alle "attribuzioni" del tribunale in composizione monocratica) riguardano quei processi che, avendo ad oggetto tutti i reati diversi da quelli appena indicati, risultino ancora in corso di svolgimento (qualunque ne sia lo "stato") alla data del 2/1/2000
Quanto alle modalità attraverso le quali il suddetto "mutamento" di rito dovrebbe realizzarsi, è l'art. 222 co. 2 del D.Lvo. 51/98 che le prevede.
Tale norma (la cui efficacia - inizialmente decorrente dal 2/6/99, secondo l'originaria formulazione dell'art. 247 del medesimo D.Lvo. 51/98 - è stata differita al 2/1/2000 dall'art. 3 co. 2 del D.L. 145/99, avendo esso riformulato il testo del già citato art. 247, mediante l'introduzione di un comma 2 bis lett. f), che fissa appunto per il giorno 2/1/2000 la data di efficacia - tra l'altro - proprio del summenzionato art. 222 co. 2) dispone quanto segue : "se l'udienza è fissata davanti al tribunale per un reato attribuito, secondo le nuove norme, alla cognizione del giudice monocratico e l'udienza stessa è tenuta dal collegio il presidente fissa la data e l'ora della trattazione del processo davanti al tribunale in composizione monocratica, se possibile nello stesso giorno".
Il testo della norma appare dunque chiaro nel prevedere che (ma sempre nei limiti in cui ciò - evidentemente per ragioni organizzative - sia "possibile") "l'udienza" (senza dunque distinzioni di sorta circa gli incombenti previsti nel corso del suo svolgimento, irrilevante essendo in particolare che nella stessa siano destinati a compiersi gli adempimenti relativi alla regolare costituzione delle parti, ovvero attività di istruzione dibattimentale - purché però, in tale ultimo caso, l'adempimento di cui all'abrogato art. 484 c.p.p. sia stato svolto in data anteriore al 2/6/99) si tenga "nello stesso giorno", e comunque da parte di "uno dei magistrati originariamente designati"(così specificamente il comma 4 di quello stesso articolo).
Se il tenore letterale della norma appare chiaro, non meno evidente risulta la stessa ratio legis, atteso che, mentre l'opportunità della trattazione (del processo già instaurato) nel medesimo giorno risponde invero ad un'esigenza di economia processuale, quella di salvaguardare la continuità del giudicante sembra discendere dalla necessità di garantire il rispetto del principio della sua immutabilità (art. 25 co. 1 Cost.), e quel suo "corollario" (art. 525 co. 2 c.p.p.) costituito della indispensabile coincidenza tra il giudice che abbia partecipato al dibattimento e quello che decide in ordine alla responsabilità dell'imputato.
Né si manchi di rilevare - per concludere sul punto - come la necessità di devolvere la prosecuzione del processo ad un magistrato, già appartenente al collegio investitone della trattazione, risponda anche ad una ragione di funzionalità dell'ufficio, atteso che il mutamento del giudice "persona fisica" titolare del processo potrebbe comportare - alla luce dei più recenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità - la richiesta delle parti di rinnovazione "effettiva" dell'istruttoria dibattimentale eventualmente celebrata (si veda sul punto Cass. S.U. n. 1 del 15/1/99 che, con riferimento appunto all'ipotesi di mutamento del magistrato o di uno dei magistrati, titolari del giudizio, ha sancito il principio secondo cui la possibilità di rinnovazione mediante lettura - ex art. 511 c.p.p. - dei verbali delle prove assunte è ormai subordinata al consenso delle parti).

3. Esaurita questa tematica, e passando quindi all'analisi delle "attribuzioni" conferite al giudice unico in composizione monocratica, prima di esaminare - anche in questo caso - i problemi nascenti dalla sovrapposizione della vecchia e nuova normativa, appare opportuno delineare le caratteristiche (non tutte peraltro di carattere inedito, avendo il legislatore dato vita ad una disciplina che ricalca quella già contenuta nell'originario libro ottavo del codice di rito, dedicato al "Procedimento davanti al Pretore") che connotano il giudizio destinato a celebrarsi al suo cospetto.
L'attenzione di chi scrive si rivolgerà principalmente all'ipotesi di dibattimento instaurato secondo il sistema della "citazione diretta a giudizio", essendo in relazione alla stessa - come del resto si accennava nelle premesse del presente documento - che sono destinati a porsi i principali problemi di diritto intertemporale.
È l'art. 550 c.p.p. che provvede ad individuare quali siano i casi in cui la celebrazione del dibattimento non è però preceduta dall'udienza preliminare, stabilendo che il pubblico ministero possa esercitare direttamente l'azione penale (senza quindi che la sua determinazione sia sottoposta ad un vaglio preventivo), oltre che nel caso di "contravvenzioni", ed in quello di "delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel massimo a quattro anni, anche se congiunta a pena pecuniaria" (comma 1 di tale articolo), anche per una serie di fattispecie criminose sanzionate con pena superiore, e specificamente indicate dal comma 2 della medesima norma di legge (trattasi, come rilevato, di alcuni dei delitti - ma non di tutti - che l'ormai abrogato art. 7 c.p.p. attribuiva alla competenza "funzionale" del Pretore).
Quanto alle caratteristiche che il decreto di citazione a giudizio deve presentare a norma dell'art. 552 c.p.p., deve osservarsi come tale disposizione stabilisca una serie di requisiti che sostanzialmente coincidono con quelli (già) fissati dal vecchio testo dell'art. 555 per il decreto di citazione innanzi al Pretore.
La novità di maggiore rilievo (oltre quella costituita dalla previsione di un termine di comparizione non più di quarantacinque giorni - salvo i casi di urgenza, da motivarsi però debitamente da parte del P.M. - ma di sessanta, da rispettarsi per la citazione anche del difensore e della persona offesa, oltre che dell'imputato) appare quella introdotta dalla previsione contenuta nel comma 2 del citato art. 552 c.p.p.
Tale disposizione sancisce il principio della nullità del decreto, oltre che per difetto di taluni requisiti specificamente indicati, quando lo stesso "non è proceduto dall'avviso previsto dall'art. 415 bis c.p.p." (norma, quest'ultima, che fa carico al P.M. di avvisare la persona sottoposta alle indagini della loro conclusione), ovvero "dall'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'art. 375 comma 3" c.p.p. (adempimento che è facoltà del cd. "indagato" richiedere proprio in forza dell'avviso dell'avvenuta conclusione delle indagini previsto dal già menzionato art. 415 bis c.p.p.).
Orbene, proprio con riferimento a tale previsione (ma a ben guardare un problema analogo concerne anche il difetto degli altri "nuovi" requisiti che il decreto di citazione deve presentare, a norma del testo riformulato dell'art. 552 c.p.p.) potrebbe porsi un primo rilevante problema di diritto "intertemporale".
Il riferimento è alla mancanza, nei decreti di citazione emessi tra il 2/6/99 ed il 2/1/2000, per udienze destinate a celebrarsi successivamente a tale data (che segna il dies a quo di efficacia del nuovo testo dell'art. 552 c.p.p.) del summenzionato avviso della conclusione delle indagini, atteso che lo stesso, non previsto dalla normativa vigente (art. 555 c.p.p. "vecchio" testo) all'atto dell'emissione del decreto di citazione innanzi al Pretore (da considerarsi - ex art. 222 co. 1 D.Lvo. - come equipollente, a tutti gli effetti, ad una citazione innanzi al tribunale), è viceversa preteso, addirittura a pena di nullità, per la citazione innanzi al tribunale in composizione monocratica
Quid iuris con riferimento a tali ipotesi ?
È opinione di chi scrive che la tesi secondo cui non potrebbero trovare applicazione, rispetto ai decreti di citazione a giudizio emessi nell'arco di tempo sopra indicato, le previsioni di cui al "nuovo" testo dell'art. 552 c.p.p., non sia poi così scontata, come l'applicazione dei principi relativi alla successione nel tempo di norme processuali parrebbe forse suggerire.
Si consideri, invero, che quando il legislatore è stato chiamato ad intervenire (è il caso della L. 234/97) sulla efficacia temporale appunto di norme recanti (nuovi) requisiti di validità di atti processuali (l'intervento aveva riguardato in quel caso proprio l'originario decreto di citazione a giudizio innanzi al Pretore di cui al "vecchio" testo dell'art. 555 c.p.p., essendosene prevista la nullità per mancanza del previo invito, al cd. "indagato", a presentarsi per rendere l'interrogatorio di cui all'art. 375 c.p.p.) ha ritenuto necessario dettare una norma apposita (contenuta nell'art. 3 della citata L. 234/97) per sancire che il ius superveniens "non si applichi ai procedimenti penali nei quali alla data di entrata in vigore della legge (...) sia già stata emesso decreto di citazione a giudizio".
Problemi analoghi a quello da ultimo esaminato (ancorché non identici, attenendo gli stessi non più alla validità dell'atto posto in essere, quanto al maturarsi di decadenze connesse al suo iter formativo) riguardano il decreto di citazione emesso (questa volta non dal P.M., ma da un "giudice", da identificarsi con quello delle indagini preliminari) a seguito di opposizione a decreto penale di condanna.
Trattasi di evenienza che, contemplata - prima della riforma in esame - nell'originario testo dell'art. 461 c.p.p., ha trovato (con riferimento specifico ai reati di competenza del tribunale in composizione monocratica) la sua odierna disciplina nella attuale previsione dell'art. 557 c.p.p.
Il secondo comma di tale norma stabilisce che "nel giudizio conseguente all'opposizione l'imputato non può richiedere il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione", e ciò conformemente ad una scelta di fondo operata dalla riforma de qua, che è quella di fare carico all'interessato di scegliere in limine le proprie strategie defensionali, nell'intento di precludendogli un uso puramente "defatigatorio" dell'opposizione al decreto penale emesso nei suoi confronti.
Similmente quindi a quanto avviene nel caso del decreto di citazione emesso dal P.M. (nel periodo di tempo compreso tra il 2/6/99 ed il 2/1/2000) il problema che si pone all'attenzione dell'interprete è se possa farsi carico all'opponente - per effetto della sopravvenienza di una nuova norma - di una causa di decadenza che non era contemplata all'atto dell'assunzione dell'iniziativa da questi esercita avverso il decreto penale di condanna.
Quelli indicati, peraltro, non sono i soli problemi concernenti i giudizi destinati a svolgersi al cospetto del giudice monocratico.
Questioni delicate - come si rilevava sin dalla premessa di questo scritto - investono i processi relativi a quei reati che, già attribuiti in passato alla competenza "funzionale" del Pretore, sono destinati a celebrarsi innanzi al tribunale in composizione monocratica, senza tuttavia che per gli stessi sia previsto il sistema della "citazione diretta".
Trattasi di quei delitti (previsti dagli artt. 379, 572, 589, 614 co. 4, 640 co. 2 c.p.) per i quali, il già più volte menzionato art. 550 co. 2 c.p.p. non ha inteso prevedere (come per altri del pari contemplati, in origine, dal comma 2 dell'abrogato art. 7 c.p.p.) l'esonero dall'udienza preliminare.
Il problema - in relazione a tali reati - nasce con riferimento (nuovamente) all'ipotesi che sia già stato emesso, ancora una volta anteriormente al 2/1/2000 (e sempre per un'udienza successiva a tale data), decreto di citazione a giudizio in base al disposto del vecchio testo dell' art. 555 c.p.p.
L'inconveniente, invero, consisterebbe nel fatto che coloro che abbiano conseguito la qualità di imputati in relazione ai delitti de quibus (ed in forza di decreti anteriori al 2/1/2000, ma con udienza fissata per data successiva) si potrebbero vedere privati della possibilità di formulare la richiesta di celebrazione di "riti alternativi".
Non essendo infatti (e per definizione), i processi relativi a tali reati, destinati ad essere disciplinati secondo le norme concernenti i giudizi con citazione diretta, non potrebbe applicarsi ad essi quella norma - il nuovo testo dell'art. 555 co. 2 c.p.p. - che consente all'imputato la proposizione della richiesta di applicazione pena, di giudizio abbreviato e di oblazione, fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento.
Non essendosi, però, neppure celebrata, rispetto ai suddetti giudizi, l'udienza preliminare (che in teoria per i reati in esame - come per ogni altro sottratto alla previsione del nuovo testo dell'art. 550 c.p.p. - rappresenterebbe il termine ultimo assegnato all'imputato per formulare richiesta di riti alternativi), la possibilità di accedere ad una definizione alternativa a quella dibattimentale sarebbe per definizione mancata.
L'inconveniente tuttavia potrebbe superarsi in forza delle considerazioni che si vanno di seguito a sviluppare, senza che si renda quindi necessario il ricorso alla trasmissione degli atti al P.M. (per avere questi "esercitato l'azione penale con citazione diretta per un reato per il quale è prevista l'udienza preliminare"), e quindi senza invocare l'applicazione del comma 3 dell'art. 550 c.p.p. (norma oltretutto - l'osservazione è svolta da Enrico MARZADURI a pagina LXXIV del commento pubblicato sul numero 1 del 15/1/2000 di "Guida al Diritto" - difficilmente applicabile d'ufficio dal giudice, atteso che la stessa - diversamente da quella contenuta nell'art. 33 sexies c.p.p. per l'ipotesi, opposta e simmetrica a quella in esame, e quindi per il caso di udienza preliminare celebrata per reati assoggettati al sistema della citazione diretta - pare consentire interventi solo ope exceptionis).
L'alternativa, invero, alla trasmissione degli atti al P.M. potrebbe essere individuata invocando il disposto dell'art. 556 co. 2 c.p.p., atteso che esso consente di applicare - tra varie disposizioni - anche l'art. 555 co. 2 c.p.p. (cioè proprio la norma che legittima l'imputato a formulare richieste di applicazione pena, di giudizio abbreviato, nonché a proporre domanda di oblazione, "prima della dichiarazione di apertura del dibattimento") "se manca l'udienza preliminare".
Interpretando difatti la suddetta "mancanza" dell'udienza preliminare - cui si riferisce tale norma - come comprensiva di tutte le ipotesi in cui, anche per ragioni per così dire patologiche, la stessa non sia stata celebrata, si consentirebbe all'imputato di non essere privato, senza sua colpa (come accadrebbe invece nell'ipotesi in esame) della possibilità di ottenere una definizione anticipata (ed alternativa) rispetto a quella dibattimentale.
La soluzione prospettata, dunque, si lascia preferire rispetto all'applicazione dell'art. 550 co. 3 c.p.p., e ciò anche nell'ottica di favorire soluzioni improntate alla salvaguardia - oltre che delle garanzie di difesa dell'imputato (essendo le stesse non compromesse dalla stessa) - pure di ragioni di economia processuale (viceversa sacrificate dall'opzione ermeneutica che ritiene applicabile la norma sulla "restituzione degli atti".

4. Le considerazioni da ultimo svolte non possono certo esaurire la disamina dei problemi concernenti quelli che si sono definiti come fenomeni di "mutamento" di rito.
Come si preannunciava, tuttavia, sin dalla premessa di questo scritto, la ricognizione condotta non aveva pretese di esaustività, proponendosi di investire unicamente alcune problematiche che - ad avviso dello scrivente - sono sembrate quelle rivestire maggiore urgenza.
Affrontati pertanto i problemi principali relativi ai mutamenti di rito deve in conclusione rilevarsi come, non essendo stata abrogata la previsione di cui all'art. 219 D.Lvo. 51/98, e dovendosi la stessa raccordare con il disposto dell'art. 247 del medesimo decreto (che ha fissato - salvo le eccezioni espressamente contemplate - nel 2/6/99 la data di efficacia delle norme in esso contenute) continuano ad applicarsi "le disposizioni anteriormente vigenti, comprese quelle relative alla competenza ed alla composizione dell'organo" per quei processi per i quali, prima della suddetta data del 2/6/99, sia stato compiuto "il controllo sulla regolare costituzione delle parti"
Quanto infine al tema dei rapporti tra uffici giudicanti e requirenti è opinione di chi scrive che la previsione - contenuta nell'ultimo comma dell'art. 72 R.D. 12/41 (come riformulato dall'art. 58 della L. 479/99), e secondo la quale "nella materia penale è seguito altresì il criterio di non delegare - a magistrati onorari - le funzioni del pubblico ministero in relazione a reati diversi da quelli in cui si procede con citazione diretta" - enunci, ad onta della sua qualificazione quale mero "criterio", una norma di carattere imperativo.
Diversamente, infatti, da quanto previsto nell'art. 7 bis del medesimo R.D. 12/41 - il quale, enunciata al comma 2 quater la regola per cui "il tribunale in composizione monocratica è costituito da un magistrato che abbia esercitato la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni", prevede simultaneamente al comma 2 quinquies una espressa possibilità di deroga "per imprescindibili e prevalenti esigenze di servizio" - il suddetto art. 72 ultimo comma non prevede deroghe di sorta.
L'opportunità del resto di garantire l'osservanza di tale "criterio" si impone anche in ragione della necessità di preservare la disposizione suddetta dal sospetto di incostituzionalità per cd. "violazione di norma interposta" .
La legge 479/99 ha infatti ampliato lo stesso ambito di operatività della previsione contenuta nella legge delega (cfr. art. 23 D.Lvo. 51/98), atteso che questa consentiva all'ufficio del Pubblico Ministero di avvalersi dell'ausilio di magistrati "non togati" solo, nell'ambito di procedimenti relativi a reati con pena non superiore ai quattro anni di reclusione (mentre - come rilevato più volte - tra i reati per i quali è prevista la citazione diretta, rientrano anche - 550 co. 2 c.p.p. - delitti sanzionati con pena superiore).
Ne consegue pertanto che la necessità di evitare interpretazioni "estensive" della norma che consente la delega di funzioni requirenti ai magistrati onorari (qual è quella che ritiene ipotizzabile la delega suddetta, indiscriminatamente, e cioè per tutti i reati rientranti nelle attribuzioni del tribunale in composizione monocratica), risponde alla necessità di riscattare la disposizione dalla "ipoteca" di un possibile contrasto con l'art. 76 Cost.

dott. Stefano G. Guizzi (Giudice presso il Tribunale di Chiavari), Chiavari - gennaio 2000

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(*) Il documento era, in origine, destinato ad uso interno dei magistrati, requirenti e giudicanti, del tribunale chiavarese. Lo stesso è stato pubblicato col consenso dell'autore.