Stefano G. Guizzi, Alcune riflessioni sulla introduzione del giudice unico (*)
1. La (piena) entrata
in vigore della normativa relativa all'istituzione del giudice unico di primo
grado impone - da parte di tutti i magistrati giudicanti e requirenti del Tribunale
chiavarese - lo svolgimento di alcune riflessioni, anche al fine di evitare
che il - non sempre felice - dettato normativo possa essere oggetto di applicazioni
non uniformi da parte dei medesimi.
Scopo pertanto del presente elaborato - che non ha certamente pretese di approfondimento
scientifico, e quindi di trattazione organica ed esaustiva della materia de
qua - è solo quello di offrire alcuni spunti per cominciare ad interrogarsi
in vista di un futuro (e si auspica prossimo) confronto tra noi colleghi, anche
per sollecitare il quale è stata intenzione del sottoscritto provvedere
all'elaborazione del presente documento.
La necessità, invero, di non giungere impreparati all'appuntamento rappresentato
dalla piena applicazione della riforma, nonché quella di riuscire a prevedere
i possibili problemi derivanti dalla sovrapposizione, alla normativa abrogata,
del ius superveniens (e ciò al fine di limitare le - in parte inevitabili
- disfunzioni che suddetta sovrapposizione è destinata ad originare),
hanno indotto chi scrive a concentrare la propria attenzione in particolare
sul tema dei rapporti tra ufficio della Procura della Repubblica e Tribunale,
nonché su quello relativo ai "mutamenti" di rito, e ciò
anche in ragione della assenza di disposizioni di attuazione e coordinamento.
Trattasi di tematica quest'ultima (quella cioè relativa ai "mutamenti"
di rito) che verrà affrontata in via principale (oltre che preliminare)
nel presente elaborato, interessando essa in modo particolare lo svolgimento
dei processi già in corso di celebrazione all'atto dell'entrata in vigore
della L. 479/99, e segnatamente, sia quelli aventi ad oggetto i reati un tempo
di competenza del Tribunale (ed oggi viceversa rientranti - ex art. 33 ter c.p.p.
- tra le attribuzioni del giudice unico "in composizione monocratica"),
quanto quelli che - in passato assegnati ex art. 7 c.p.p. alla competenza funzionale
del Pretore - sono stati fatti oggetto di un regime del tutto peculiare (se
non "ibrido").
Il riferimento è infatti a quelle fattispecie criminose che (rientranti
anch'esse nella sfera di attribuzione del giudice "monocratico", avendo
la stessa - come si vedrà di qui a breve - carattere "generale"
e "residuale") non state però assoggettate, dal comma 2 del
"nuovo" art. 550 c.p.p., al sistema della cd. "citazione diretta
a giudizio" da parte del P.M.
Rispetto a tali reati, pertanto, vige il sistema dello svolgimento dell'istruttoria
dibattimentale previa celebrazione dell'udienza preliminare, e dunque un regime
- se non "ibrido", come si accennava poc'anzi - comunque estraneo
all'esperienza del rito pretorile, essendo proprio questo ultimo, non solo il
modello processuale un tempo previsto per il loro accertamento, ma anche quello
prescelto in via generale dallo stesso legislatore della riforma (salvo appunto
l'eccezione concernenti i reati de quibus) per la celebrazione, innanzi al giudice
monocratico, dei processi relativi ai reati un tempo rientranti nella competenza
del Pretore.
2. Individuati i problemi
principali (di diritto "intertemporale") sollevati dalla nuova normativa
occorre procedere ordinatamente alla loro disamina, dando rilievo in primo luogo
- come preannunciato - a quelli concernenti i cd. "mutamenti" di rito.
Per comprendere tuttavia la loro esatta portata occorre ribadire quale sia stato
il sistema di ripartizione seguito dal legislatore nel disciplinare le rispettive
attribuzioni spettanti al Tribunale, nelle sue alternative composizioni "collegiale"
e "monocratica".
Preliminarmente, peraltro, si rileva che l'uso del termine "attribuzioni"
piuttosto che quello di "competenza" (per designare la sfera entro
la quale è destinato ad operare il Tribunale nella sua attuale duplice
"veste"), oltre a rispondere ad una precisa necessità (quella
conseguente alla avvenuta soppressione dell'ufficio pretorile, ed alla sua unificazione
con quello del Tribunale), soddisferebbe anche l'esigenza di chiarire che nella
"ipotesi di inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale
o monocratica del tribunale, non sorge una questione di "competenza"
in senso stretto", venendo soltanto in rilievo un problema di "nullità
a regime intermedio". (cfr. sul punto il commento che Giuseppe AMATO ha
dedicato agli artt. 33 bis e ter c.p.p., su "Guida al Diritto" n.
1 del 15/1/2000, sottolineando - alla pag. XX di tale scritto - come la corrispondente
eccezione debba essere rilevata o eccepita a pena di decadenza - ex art. 33
quinquies c.p.p. - prima della conclusione dell'udienza preliminare, ovvero,
se essa manchi, entro il termine di cui all'art. 491 co. 1 c.p.p.).
Tanto premesso, tornando al criterio, seguito dal legislatore delegato per la
ripartizione delle attribuzioni al tribunale in composizione "collegiale"
e "monocratica", deve osservarsi come il legislatore delegato - in
applicazione di quanto specificamente previsto dall'art. 1 punto c) della L.
254/97 (cioè la legge di delega al Governo "per l'istituzione del
giudice unico di primo grado") - abbia inteso conferire alla sfera di intervento
riservata al tribunale in composizione collegiale carattere "speciale",
limitandone dunque l'ambito ai soli reati specificamente individuati dall'art.
33 bis c.p.p.
Per contro, quindi, il successivo art. 33 ter c.p.p. configura la sfera di attribuzioni
del giudice monocratico come "generale" e "residuale" ad
un tempo, atteso infatti che il comma 2 di tale norma fissa il principio secondo
cui "il tribunale giudica in composizione monocratica (...) in tutti i
casi non previsti dall'art. 33 bis o da altre disposizioni di legge".
In base a questa suddivisione risultano pertanto (ancora) assoggettati (recte
: "riservati") alla trattazione e decisione del collegio, oltre ai
reati specificamente individuati al comma 1 dell'art. 33 bis c.p.p., "quelli
puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a dieci anni"
(così il comma 2 del medesimo articolo).
Ne consegue pertanto che i problemi di "mutamento" del rito (per "passaggio"
alle "attribuzioni" del tribunale in composizione monocratica) riguardano
quei processi che, avendo ad oggetto tutti i reati diversi da quelli appena
indicati, risultino ancora in corso di svolgimento (qualunque ne sia lo "stato")
alla data del 2/1/2000
Quanto alle modalità attraverso le quali il suddetto "mutamento"
di rito dovrebbe realizzarsi, è l'art. 222 co. 2 del D.Lvo. 51/98 che
le prevede.
Tale norma (la cui efficacia - inizialmente decorrente dal 2/6/99, secondo l'originaria
formulazione dell'art. 247 del medesimo D.Lvo. 51/98 - è stata differita
al 2/1/2000 dall'art. 3 co. 2 del D.L. 145/99, avendo esso riformulato il testo
del già citato art. 247, mediante l'introduzione di un comma 2 bis lett.
f), che fissa appunto per il giorno 2/1/2000 la data di efficacia - tra l'altro
- proprio del summenzionato art. 222 co. 2) dispone quanto segue : "se
l'udienza è fissata davanti al tribunale per un reato attribuito, secondo
le nuove norme, alla cognizione del giudice monocratico e l'udienza stessa è
tenuta dal collegio il presidente fissa la data e l'ora della trattazione del
processo davanti al tribunale in composizione monocratica, se possibile nello
stesso giorno".
Il testo della norma appare dunque chiaro nel prevedere che (ma sempre nei limiti
in cui ciò - evidentemente per ragioni organizzative - sia "possibile")
"l'udienza" (senza dunque distinzioni di sorta circa gli incombenti
previsti nel corso del suo svolgimento, irrilevante essendo in particolare che
nella stessa siano destinati a compiersi gli adempimenti relativi alla regolare
costituzione delle parti, ovvero attività di istruzione dibattimentale
- purché però, in tale ultimo caso, l'adempimento di cui all'abrogato
art. 484 c.p.p. sia stato svolto in data anteriore al 2/6/99) si tenga "nello
stesso giorno", e comunque da parte di "uno dei magistrati originariamente
designati"(così specificamente il comma 4 di quello stesso articolo).
Se il tenore letterale della norma appare chiaro, non meno evidente risulta
la stessa ratio legis, atteso che, mentre l'opportunità della trattazione
(del processo già instaurato) nel medesimo giorno risponde invero ad
un'esigenza di economia processuale, quella di salvaguardare la continuità
del giudicante sembra discendere dalla necessità di garantire il rispetto
del principio della sua immutabilità (art. 25 co. 1 Cost.), e quel suo
"corollario" (art. 525 co. 2 c.p.p.) costituito della indispensabile
coincidenza tra il giudice che abbia partecipato al dibattimento e quello che
decide in ordine alla responsabilità dell'imputato.
Né si manchi di rilevare - per concludere sul punto - come la necessità
di devolvere la prosecuzione del processo ad un magistrato, già appartenente
al collegio investitone della trattazione, risponda anche ad una ragione di
funzionalità dell'ufficio, atteso che il mutamento del giudice "persona
fisica" titolare del processo potrebbe comportare - alla luce dei più
recenti indirizzi della giurisprudenza di legittimità - la richiesta
delle parti di rinnovazione "effettiva" dell'istruttoria dibattimentale
eventualmente celebrata (si veda sul punto Cass. S.U. n. 1 del 15/1/99 che,
con riferimento appunto all'ipotesi di mutamento del magistrato o di uno dei
magistrati, titolari del giudizio, ha sancito il principio secondo cui la possibilità
di rinnovazione mediante lettura - ex art. 511 c.p.p. - dei verbali delle prove
assunte è ormai subordinata al consenso delle parti).
3. Esaurita questa
tematica, e passando quindi all'analisi delle "attribuzioni" conferite
al giudice unico in composizione monocratica, prima di esaminare - anche in
questo caso - i problemi nascenti dalla sovrapposizione della vecchia e nuova
normativa, appare opportuno delineare le caratteristiche (non tutte peraltro
di carattere inedito, avendo il legislatore dato vita ad una disciplina che
ricalca quella già contenuta nell'originario libro ottavo del codice
di rito, dedicato al "Procedimento davanti al Pretore") che connotano
il giudizio destinato a celebrarsi al suo cospetto.
L'attenzione di chi scrive si rivolgerà principalmente all'ipotesi di
dibattimento instaurato secondo il sistema della "citazione diretta a giudizio",
essendo in relazione alla stessa - come del resto si accennava nelle premesse
del presente documento - che sono destinati a porsi i principali problemi di
diritto intertemporale.
È l'art. 550 c.p.p. che provvede ad individuare quali siano i casi in
cui la celebrazione del dibattimento non è però preceduta dall'udienza
preliminare, stabilendo che il pubblico ministero possa esercitare direttamente
l'azione penale (senza quindi che la sua determinazione sia sottoposta ad un
vaglio preventivo), oltre che nel caso di "contravvenzioni", ed in
quello di "delitti puniti con la pena della reclusione non superiore nel
massimo a quattro anni, anche se congiunta a pena pecuniaria" (comma 1
di tale articolo), anche per una serie di fattispecie criminose sanzionate con
pena superiore, e specificamente indicate dal comma 2 della medesima norma di
legge (trattasi, come rilevato, di alcuni dei delitti - ma non di tutti - che
l'ormai abrogato art. 7 c.p.p. attribuiva alla competenza "funzionale"
del Pretore).
Quanto alle caratteristiche che il decreto di citazione a giudizio deve presentare
a norma dell'art. 552 c.p.p., deve osservarsi come tale disposizione stabilisca
una serie di requisiti che sostanzialmente coincidono con quelli (già)
fissati dal vecchio testo dell'art. 555 per il decreto di citazione innanzi
al Pretore.
La novità di maggiore rilievo (oltre quella costituita dalla previsione
di un termine di comparizione non più di quarantacinque giorni - salvo
i casi di urgenza, da motivarsi però debitamente da parte del P.M. -
ma di sessanta, da rispettarsi per la citazione anche del difensore e della
persona offesa, oltre che dell'imputato) appare quella introdotta dalla previsione
contenuta nel comma 2 del citato art. 552 c.p.p.
Tale disposizione sancisce il principio della nullità del decreto, oltre
che per difetto di taluni requisiti specificamente indicati, quando lo stesso
"non è proceduto dall'avviso previsto dall'art. 415 bis c.p.p."
(norma, quest'ultima, che fa carico al P.M. di avvisare la persona sottoposta
alle indagini della loro conclusione), ovvero "dall'invito a presentarsi
per rendere l'interrogatorio ai sensi dell'art. 375 comma 3" c.p.p. (adempimento
che è facoltà del cd. "indagato" richiedere proprio
in forza dell'avviso dell'avvenuta conclusione delle indagini previsto dal già
menzionato art. 415 bis c.p.p.).
Orbene, proprio con riferimento a tale previsione (ma a ben guardare un problema
analogo concerne anche il difetto degli altri "nuovi" requisiti che
il decreto di citazione deve presentare, a norma del testo riformulato dell'art.
552 c.p.p.) potrebbe porsi un primo rilevante problema di diritto "intertemporale".
Il riferimento è alla mancanza, nei decreti di citazione emessi tra il
2/6/99 ed il 2/1/2000, per udienze destinate a celebrarsi successivamente a
tale data (che segna il dies a quo di efficacia del nuovo testo dell'art. 552
c.p.p.) del summenzionato avviso della conclusione delle indagini, atteso che
lo stesso, non previsto dalla normativa vigente (art. 555 c.p.p. "vecchio"
testo) all'atto dell'emissione del decreto di citazione innanzi al Pretore (da
considerarsi - ex art. 222 co. 1 D.Lvo. - come equipollente, a tutti gli effetti,
ad una citazione innanzi al tribunale), è viceversa preteso, addirittura
a pena di nullità, per la citazione innanzi al tribunale in composizione
monocratica
Quid iuris con riferimento a tali ipotesi ?
È opinione di chi scrive che la tesi secondo cui non potrebbero trovare
applicazione, rispetto ai decreti di citazione a giudizio emessi nell'arco di
tempo sopra indicato, le previsioni di cui al "nuovo" testo dell'art.
552 c.p.p., non sia poi così scontata, come l'applicazione dei principi
relativi alla successione nel tempo di norme processuali parrebbe forse suggerire.
Si consideri, invero, che quando il legislatore è stato chiamato ad intervenire
(è il caso della L. 234/97) sulla efficacia temporale appunto di norme
recanti (nuovi) requisiti di validità di atti processuali (l'intervento
aveva riguardato in quel caso proprio l'originario decreto di citazione a giudizio
innanzi al Pretore di cui al "vecchio" testo dell'art. 555 c.p.p.,
essendosene prevista la nullità per mancanza del previo invito, al cd.
"indagato", a presentarsi per rendere l'interrogatorio di cui all'art.
375 c.p.p.) ha ritenuto necessario dettare una norma apposita (contenuta nell'art.
3 della citata L. 234/97) per sancire che il ius superveniens "non si applichi
ai procedimenti penali nei quali alla data di entrata in vigore della legge
(...) sia già stata emesso decreto di citazione a giudizio".
Problemi analoghi a quello da ultimo esaminato (ancorché non identici,
attenendo gli stessi non più alla validità dell'atto posto in
essere, quanto al maturarsi di decadenze connesse al suo iter formativo) riguardano
il decreto di citazione emesso (questa volta non dal P.M., ma da un "giudice",
da identificarsi con quello delle indagini preliminari) a seguito di opposizione
a decreto penale di condanna.
Trattasi di evenienza che, contemplata - prima della riforma in esame - nell'originario
testo dell'art. 461 c.p.p., ha trovato (con riferimento specifico ai reati di
competenza del tribunale in composizione monocratica) la sua odierna disciplina
nella attuale previsione dell'art. 557 c.p.p.
Il secondo comma di tale norma stabilisce che "nel giudizio conseguente
all'opposizione l'imputato non può richiedere il giudizio abbreviato
o l'applicazione della pena su richiesta, né presentare domanda di oblazione",
e ciò conformemente ad una scelta di fondo operata dalla riforma de qua,
che è quella di fare carico all'interessato di scegliere in limine le
proprie strategie defensionali, nell'intento di precludendogli un uso puramente
"defatigatorio" dell'opposizione al decreto penale emesso nei suoi
confronti.
Similmente quindi a quanto avviene nel caso del decreto di citazione emesso
dal P.M. (nel periodo di tempo compreso tra il 2/6/99 ed il 2/1/2000) il problema
che si pone all'attenzione dell'interprete è se possa farsi carico all'opponente
- per effetto della sopravvenienza di una nuova norma - di una causa di decadenza
che non era contemplata all'atto dell'assunzione dell'iniziativa da questi esercita
avverso il decreto penale di condanna.
Quelli indicati, peraltro, non sono i soli problemi concernenti i giudizi destinati
a svolgersi al cospetto del giudice monocratico.
Questioni delicate - come si rilevava sin dalla premessa di questo scritto -
investono i processi relativi a quei reati che, già attribuiti in passato
alla competenza "funzionale" del Pretore, sono destinati a celebrarsi
innanzi al tribunale in composizione monocratica, senza tuttavia che per gli
stessi sia previsto il sistema della "citazione diretta".
Trattasi di quei delitti (previsti dagli artt. 379, 572, 589, 614 co. 4, 640
co. 2 c.p.) per i quali, il già più volte menzionato art. 550
co. 2 c.p.p. non ha inteso prevedere (come per altri del pari contemplati, in
origine, dal comma 2 dell'abrogato art. 7 c.p.p.) l'esonero dall'udienza preliminare.
Il problema - in relazione a tali reati - nasce con riferimento (nuovamente)
all'ipotesi che sia già stato emesso, ancora una volta anteriormente
al 2/1/2000 (e sempre per un'udienza successiva a tale data), decreto di citazione
a giudizio in base al disposto del vecchio testo dell' art. 555 c.p.p.
L'inconveniente, invero, consisterebbe nel fatto che coloro che abbiano conseguito
la qualità di imputati in relazione ai delitti de quibus (ed in forza
di decreti anteriori al 2/1/2000, ma con udienza fissata per data successiva)
si potrebbero vedere privati della possibilità di formulare la richiesta
di celebrazione di "riti alternativi".
Non essendo infatti (e per definizione), i processi relativi a tali reati, destinati
ad essere disciplinati secondo le norme concernenti i giudizi con citazione
diretta, non potrebbe applicarsi ad essi quella norma - il nuovo testo dell'art.
555 co. 2 c.p.p. - che consente all'imputato la proposizione della richiesta
di applicazione pena, di giudizio abbreviato e di oblazione, fino alla dichiarazione
di apertura del dibattimento.
Non essendosi, però, neppure celebrata, rispetto ai suddetti giudizi,
l'udienza preliminare (che in teoria per i reati in esame - come per ogni altro
sottratto alla previsione del nuovo testo dell'art. 550 c.p.p. - rappresenterebbe
il termine ultimo assegnato all'imputato per formulare richiesta di riti alternativi),
la possibilità di accedere ad una definizione alternativa a quella dibattimentale
sarebbe per definizione mancata.
L'inconveniente tuttavia potrebbe superarsi in forza delle considerazioni che
si vanno di seguito a sviluppare, senza che si renda quindi necessario il ricorso
alla trasmissione degli atti al P.M. (per avere questi "esercitato l'azione
penale con citazione diretta per un reato per il quale è prevista l'udienza
preliminare"), e quindi senza invocare l'applicazione del comma 3 dell'art.
550 c.p.p. (norma oltretutto - l'osservazione è svolta da Enrico MARZADURI
a pagina LXXIV del commento pubblicato sul numero 1 del 15/1/2000 di "Guida
al Diritto" - difficilmente applicabile d'ufficio dal giudice, atteso che
la stessa - diversamente da quella contenuta nell'art. 33 sexies c.p.p. per
l'ipotesi, opposta e simmetrica a quella in esame, e quindi per il caso di udienza
preliminare celebrata per reati assoggettati al sistema della citazione diretta
- pare consentire interventi solo ope exceptionis).
L'alternativa, invero, alla trasmissione degli atti al P.M. potrebbe essere
individuata invocando il disposto dell'art. 556 co. 2 c.p.p., atteso che esso
consente di applicare - tra varie disposizioni - anche l'art. 555 co. 2 c.p.p.
(cioè proprio la norma che legittima l'imputato a formulare richieste
di applicazione pena, di giudizio abbreviato, nonché a proporre domanda
di oblazione, "prima della dichiarazione di apertura del dibattimento")
"se manca l'udienza preliminare".
Interpretando difatti la suddetta "mancanza" dell'udienza preliminare
- cui si riferisce tale norma - come comprensiva di tutte le ipotesi in cui,
anche per ragioni per così dire patologiche, la stessa non sia stata
celebrata, si consentirebbe all'imputato di non essere privato, senza sua colpa
(come accadrebbe invece nell'ipotesi in esame) della possibilità di ottenere
una definizione anticipata (ed alternativa) rispetto a quella dibattimentale.
La soluzione prospettata, dunque, si lascia preferire rispetto all'applicazione
dell'art. 550 co. 3 c.p.p., e ciò anche nell'ottica di favorire soluzioni
improntate alla salvaguardia - oltre che delle garanzie di difesa dell'imputato
(essendo le stesse non compromesse dalla stessa) - pure di ragioni di economia
processuale (viceversa sacrificate dall'opzione ermeneutica che ritiene applicabile
la norma sulla "restituzione degli atti".
4. Le considerazioni
da ultimo svolte non possono certo esaurire la disamina dei problemi concernenti
quelli che si sono definiti come fenomeni di "mutamento" di rito.
Come si preannunciava, tuttavia, sin dalla premessa di questo scritto, la ricognizione
condotta non aveva pretese di esaustività, proponendosi di investire
unicamente alcune problematiche che - ad avviso dello scrivente - sono sembrate
quelle rivestire maggiore urgenza.
Affrontati pertanto i problemi principali relativi ai mutamenti di rito deve
in conclusione rilevarsi come, non essendo stata abrogata la previsione di cui
all'art. 219 D.Lvo. 51/98, e dovendosi la stessa raccordare con il disposto
dell'art. 247 del medesimo decreto (che ha fissato - salvo le eccezioni espressamente
contemplate - nel 2/6/99 la data di efficacia delle norme in esso contenute)
continuano ad applicarsi "le disposizioni anteriormente vigenti, comprese
quelle relative alla competenza ed alla composizione dell'organo" per quei
processi per i quali, prima della suddetta data del 2/6/99, sia stato compiuto
"il controllo sulla regolare costituzione delle parti"
Quanto infine al tema dei rapporti tra uffici giudicanti e requirenti è
opinione di chi scrive che la previsione - contenuta nell'ultimo comma dell'art.
72 R.D. 12/41 (come riformulato dall'art. 58 della L. 479/99), e secondo la
quale "nella materia penale è seguito altresì il criterio
di non delegare - a magistrati onorari - le funzioni del pubblico ministero
in relazione a reati diversi da quelli in cui si procede con citazione diretta"
- enunci, ad onta della sua qualificazione quale mero "criterio",
una norma di carattere imperativo.
Diversamente, infatti, da quanto previsto nell'art. 7 bis del medesimo R.D.
12/41 - il quale, enunciata al comma 2 quater la regola per cui "il tribunale
in composizione monocratica è costituito da un magistrato che abbia esercitato
la funzione giurisdizionale per non meno di tre anni", prevede simultaneamente
al comma 2 quinquies una espressa possibilità di deroga "per imprescindibili
e prevalenti esigenze di servizio" - il suddetto art. 72 ultimo comma non
prevede deroghe di sorta.
L'opportunità del resto di garantire l'osservanza di tale "criterio"
si impone anche in ragione della necessità di preservare la disposizione
suddetta dal sospetto di incostituzionalità per cd. "violazione
di norma interposta" .
La legge 479/99 ha infatti ampliato lo stesso ambito di operatività della
previsione contenuta nella legge delega (cfr. art. 23 D.Lvo. 51/98), atteso
che questa consentiva all'ufficio del Pubblico Ministero di avvalersi dell'ausilio
di magistrati "non togati" solo, nell'ambito di procedimenti relativi
a reati con pena non superiore ai quattro anni di reclusione (mentre - come
rilevato più volte - tra i reati per i quali è prevista la citazione
diretta, rientrano anche - 550 co. 2 c.p.p. - delitti sanzionati con pena superiore).
Ne consegue pertanto che la necessità di evitare interpretazioni "estensive"
della norma che consente la delega di funzioni requirenti ai magistrati onorari
(qual è quella che ritiene ipotizzabile la delega suddetta, indiscriminatamente,
e cioè per tutti i reati rientranti nelle attribuzioni del tribunale
in composizione monocratica), risponde alla necessità di riscattare la
disposizione dalla "ipoteca" di un possibile contrasto con l'art.
76 Cost.
dott. Stefano G. Guizzi (Giudice presso il Tribunale di Chiavari), Chiavari - gennaio 2000
(*) Il documento era, in origine, destinato ad uso interno dei magistrati, requirenti e giudicanti, del tribunale chiavarese. Lo stesso è stato pubblicato col consenso dell'autore.