La risposta di un gruppo di magistrati alla lettera del Ministro (*)
Firenze, 4 marzo 1999
On.le prof.
Oliviero Diliberto
Ministro di Grazia e Giustizia
Via Arenula - Roma
Signor Ministro,
i sottoscritti magistrati desiderano ringraziarLa per le parole che Ella ha indirizzato loro con la lettera del 30 ottobre 1998. Apprezzano di questo gesto il segno di una novità importante, quella di una offerta di dialogo che l'Amministrazione della Giustizia, per mezzo del suo massimo rappresentante, rivolge ai suoi giudici.
E' una sollecitazione che raccolgono con grande favore; non sembra difatti fino ad oggi che si sia tenuto presente che il giudice, oltre che funzionario è anche persona.
Ed è in questa veste, che noi desideriamo rivolgerci a Lei, per rappresentarLe, come persone appunto, l'immenso disagio col quale quotidianamente siamo costretti a svolgere il nostro compito.
Ogni giorno siamo costretti a constatare la drammatica inadeguatezza del processo penale nel rispondere alla richiesta di giustizia. Ma non è per soffermarci sulle imprevidenze legislative - pur gravi - che sono all'origine di questo desolante effetto che ci rivolgiamo a Lei, anche se avvertiamo l'iniquità di una situazione della quale la collettività sopporta interamente il danno, il magistrato il discredito. Desideriamo invece rappresentarLe che a nostro avviso la paralisi del dibattimento - che ormai tutti gli osservatori riconoscono essere il centro della crisi - non è un destino ineluttabile. Siamo anzi convinti del contrario. Un limitato numero di interventi mirati su taluni punti critici potrebbero restituire al processo una funzionalità accettabile.
Ci permettiamo di indicarne due, che incidono entrambi sul vizio capitale che affligge il processo penale. La interminabile durata dei dibattimenti non dipende soltanto dal meccanismo processuale per il quale ogni circostanza del fatto deve essere personalmente narrata dal protagonista dinanzi al giudice, ma anche dalla frequentissima tendenza al rinvio, sia prima che dopo l'apertura del dibattimento. La riprovazione e il danno sociale che questa abituale pratica produce, non è nè statisticamente nè sociologicamente quantificabile. Ma l'indignazione con la quale i testimoni, più volte convocati e più volte allontanati con diffida a ricomparire, magari al termine di un'intera giornata trascorsa vagando per i corridoi del palazzo in attesa di essere finalmente ascoltanti (talvolta solo per confermare de visu di aver subito un furto) non è compatibile col rispetto che un paese civile deve ad un cittadino. Così come non è tollerabile che ufficiali ed agenti di polizia vengano distolti innumerevoli volte dal loro servizio istituzionale, per rendere una testimonianza che si allontana sempre più nel tempo, e che per questo stesso fatto indebolisce la sua capacità di prova.
Abbiamo più volte sentito formulare rimproveri, anche da Autorità rivestite di cariche istituzionali, perchè dalla magistratura non sono stati tempestivamente segnalati inconvenienti nè proposti rimedi. E' un rilievo in gran parte giusto. Occorre anche dire che laddove voci isolate hanno formulato osservazioni critiche, ad esse non si è prestata alcuna attenzione.
Noi crediamo che suggerire indicazioni scaturite dal quotidiano vivere processuale sia un dovere per chi crede che la giustizia costituisca una esigenza incomprimibile della collettività.
Rassegnamo pertanto queste osservazioni, che abbiamo raccolto in due schede separate, quale modesto contributo di idee alla riforma di un sistema processuale che lo Stato non può più permettersi di differire.
Ubaldo Nannucci, seguono settantasei firme di magistrati.
SCHEDA 1
Sospensione della prescrizione in caso di rinvio e di impugnazioni dell'imputato
Dilatare i tempi del processo non giova all'accusato innocente. Giova a chi ha qualcosa da temere dalla parola del giudice. La prospettiva della prescrizione rappresenta un esito alternativo al giudizio che corrisponde all' interesse di una delle parti, ma umilia l'accusato innocente e mortifica sempre l'offeso dal reato. Per colui che si è rivolto alla giustizia dello Stato per essere tutelato contro la prevaricazione, la declaratoria di prescrizione è denegata giustizia.
Non vogliamo con queste parole sollevare riserve sull'istituto della prescrizione, anche se la debolezza logica degli argomenti con cui solitamente lo si spiega è evidente (il venir meno dell'allarme sociale? la perdita d'interesse punitivo per il rimorso così a lungo sofferto dal reo? l'esser divenuto costui persona diversa da quella che commise il reato?); una fragilità di motivazioni che porterebbe a dubitare della ragionevolezza, e quindi della legittimità, di tale istituto nel suo assetto attuale. Intendiamo soltanto affermare che la prescrizione non può essere un espediente offerto a chi vuole sottrarsi al giudizio. Inibire il processo è l'unico diritto che l'imputato non ha.
La modifica sarebbe di estrema semplicità tecnica. Potrebbe attuarsi mediante il semplice inserimento di un comma nell'art. 159 c.p., nel quale si dicesse che il corso della prescrizione è altresì sospeso nel caso che il dibattimento venga rinviato su istanza dell'imputato o del difensore per qualsiasi causa, e quando la sentenza sia impugnata dall'imputato o dal suo difensore.
Questo principio è del resto già presente nell'ordinamento vigente, essendo prevista la sospensione della prescrizione per il rinvio del dibattimento su istanza dell'imputato dall'art. 16 l. 22 maggio 1975 n. 152, anche se limitatamente ai reati di cui alla l. 24 ottobre 1974 n. 497 e a quelli contemplati dall'art. 53 pp. c.p. L'anomalia sta, come in dottrina si è rilevato, non già nell'avere affermato il principio, ma nella sua limitazione ad alcune figure di reato specifiche, mentre la ratio della disposizione ha valenza generale. Come nel processo civile la prescrizione interrotta dalla domanda "non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio", e sarebbe inimmaginabile che il diritto dell'attore si estinguesse per i rinvii richiesti ed i gravami proposti dal convenuto, così è del pari irragionevole ed assurdo che il diritto punitivo dello Stato si estingua per iniziativa del giudicabile. Senza dire che il vigente regime della prescrizione appare in totale antitesi con la funzione rieducativa che la Costituzione assegna alla pena, ed implicitamente al processo attraverso il quale la pena si determina. Lungi difatti dal favorire la rieducazione del presunto colpevole, offrire all'accusato l'opportunità di evitare il processo costituisce piuttosto una istigazione legislativa a delinquere, per la possibilità che il sistema offre di sfuggire all'accertamento della responsabilità.
Una riforma di tal natura, di modestissimo impegno legislativo ma di grande valenza moralizzatrice, essendo intesa a scoraggiare non chi si lamenta della sentenza ingiusta, ma chi lamenta che una sentenza sia stata emessa, consentirebbe assai sensibili benefici nel panorama generale della nostra giustizia.
SCHEDA 2
E' ormai un luogo comune l'affermazione che i processi hanno tempi intollerabilmente lunghi. Si prospetta da varie parti, quale rimedio per giungere più rapidamente alla sentenza definitiva, la abolizione di un grado di giudizio. Sopprimere l'appello pare costituisca per molti l'unica strada. Si obietta, a ragione, che la perdita di un grado di giudizio riduce pesantemente le possibilità di rettifica dell'errore giudiziario, e costituisce pertanto un rimedio che ha un costo oltremodo elevato.
Ci permettiamo di indicare soluzioni meno traumatiche e meno penalizzanti. La prima è quella che incide sulla convenienza che l'allontanare nel tempo il rischio della condanna rappresenta per l'accusato, sia in vista della prescrizione che nell'aspettativa di provvedimenti di clemenza. La seconda è diretta a rendere più agile il dibattimento, consentendo una limitata conoscibilità da parte del giudice di alcuni atti delle indagini preliminari, con il consenso della difesa, quando non sussista un interesse alla diretta escussione del testimone in udienza.
Le modifiche che si propongono in ordine al prima comma dell'art. 468 c.p. p. tendono a consentire di risparmiare enorme spreco di tempo e ad evitare rilevanti disagi per cittadini chiamati a testimoniare, in tutti i casi in cui le dichiarazioni di tali persone sono già state raccolte a verbale, e sono pertanto pienamente conosciute dalle parti, e le parti stesse ritengano di non avere contestazioni da muovere alle dichiarazioni medesime. Nell'attuale regime probatorio, quando un testimone non si presenta all'udienza, il rinvio del dibattimento costituisce dinanzi al giudice collegiale una scelta pressochè obbligata per evitare di vincolare il collegio per il futuro esame del teste non comparso. Ma in tal modo si innesta un meccanismo infernale poichè è sufficiente l'assenza di un solo testimone cui non si intenda rinunciare per paralizzare l'ufficio del giudice, senza alcuna garanzia che all'udienza successiva il processo possa celebrarsi.
L'istituto che si propone di introdurre non costituisce una novità e tanto meno una rottura della logica nel processo accusatorio, essendo essenziale a questo rito che la prova di udienza sia riservata alle deposizioni che rivestono importanza determinante ai fini della decisione, non a quelle di rilievo marginale. La formulazione che si propone si richiama a disposizioni esistenti nel modello processuale inglese nel quale, fin dall'entrata in vigore del Criminal Justice Act del 1967, sez. 2 e 9, si consente di produrre come prova dichiarazioni testimoniali scritte purchè esse siano sottoscritte dall'autore, che questi dichiari che quanto riferito è la verità "to the best of his knowledge" e che sarebbe perseguibile se sapesse che quanto affermato è falso o non lo ritenesse vero, che una copia di esse sia consegnata preventivamente a tutte le parti, e che nessuna di esse faccia opposizione entro il termine di sette giorni dalla consegna. Si parla in questi casi di "formal evidence" a differenza della "full evidence" che viene resa dal teste comparso personalmente al giudizio. Nei confronti del teste che rende "formal evidence" viene emesso un ordine di comparizione condizionato, che consiste in sostanza in un invito di tenersi a disposizione per il caso che si rendesse nel corso del giudizio necessaria la sua presenza. A questa forma di prova si ricorre o nei casi di scarsa rilevanza della posizione, o nei casi in cui essa sia ritenuta pacifica (J. Calamandrei, Testimonianze extradibattimentali in Inghilterra, Indice Penale, 1982, 1, 156 ss.)
Il congegno normativo proposto preserva dal rischio che al giudice vengano presentate prove che taluna delle parti ritenga indispensabile ch'egli conosca per la prima volta in udienza, attraverso il semplice onere di richiedere la citazione diretta del teste. Un onere che rientra perfettamenti tra quelli di cui tutte le parti sono paritariamente gravate, non potendosi pretendere che una parte - in particolare quella pubblica - si faccia carico delle esigenze e delle strategie difensive delle parti private.
Il secondo periodo del primo comma tende invece ad ovviare un gravissimo inconveniente che spesso nelle aule di giustizia si verifica, allorchè debbano deporre agenti ed ufficiali di p.g. in ordine agli accertamenti da loro svolti. Mentre deduzioni e considerazioni, che pure in una annotazione possono trovare legittimamente spazio al fine di dar conto delle motivazioni che hanno portato a compiere determinati accertamenti, debbono correttamente rimanere esclusi da una possibilità di rappresentazione scritta involgendo esse possibilità di apprezzamenti che le parti hanno interesse a contestare od inibire in sede di dibattimento, meno comprensibile è invece la impossibilità di offrire alla conoscenza del giudice documenti che riassumano dati di fatto obiettivi raccolti nel corso delle indagini. La relazione di servizio su quanto si è rilevato circa i movimenti dei depositi su di un conto corrente bancario, ad esempio, che per sua natura non forma nè può formare oggetto di consulenza, risolvendosi essa in semplice illustrazione di dati di fatto contabili, non si vede perchè non possa essere presentata al giudice, e si debba per contro costringere l'ufficiale di p.g., il tribunale e le parti alla ripetizione orale dei dati riscontrati, mediante dettatura a verbale di cifre e di collegamenti che oltre a risultare di difficile comprensione, potrebbero impegnare l'ufficio del giudice e dei difensori nonchè gli organi di polizia in estenuanti fatiche di udienza, senza alcuna comprensibilie utilità neppure per l'imputato.
Si suggerisce la seguente modifica:
Il comma 1 dell'art. 468 dovrebbe essere così sostituito:
1. Le parti che intendono chiedere l'esame di testimoni, periti o consulenti tecnici devono, a pena di decadenza, depositare in cancelleria almeno dieci giorni prima della data fissata per il dibattimento la lista delle persone che intendono far citare. Se si tratta di persone che hanno reso dichiarazioni al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria, le parti possono chiedere che sia data solamente lettura delle loro dichiarazioni, che sono allegate alla richiesta. La richiesta non ha effetto se la persona è citata quale teste ovvero quale perito o consulente tecnico da altre parti. In tal caso le dichiarazioni in precedenza rese vengono a cura della cancelleria restituite alla parte che le ha esibite. In caso contrario esse vengono allegate al fascicolo per il dibattimento, e ne è data lettura ai sensi dell'art. 511 cpp. Negli stessi termini e con le stesse modalità può chiedersi che venga data lettura delle annotazioni e dei verbali redatti dalla polizia giudiziaria, relativi ad accertamenti di fatto, nonchè delle relazioni di consulenti tecnici nominati ai sensi dell' art. 359.
2. Se i testimoni non sono stati esaminati nel corso delle indagini preliminari i fatti e le circostanze su cui è chiesto l'esame debbono essere specificamente indicati a pena di inammissibilità.
(*) La lettera del Ministro Diliberto è rintracciabile sul sito del Ministero di Grazia e Giustizia direttamente all'indirizzo http://www.giustizia.it/002/letteradil.htm