Carlo Alberto Zaina, Sul giudizio abbreviato post-Carotti

Intendo rifarmi ai precedenti interventi, in tema di giudizio abbreviato post-Carotti.
Condivido pienamente le puntuali e concrete osservazioni svolte della dr.ssa Caprioglio, che traggono spunto dalla esperienza quotidiana forense.
Quello che può essere definito, senza tema di fraintendimenti un vero e proprio "grido di dolore", in ordine ad una certa mentalità degli addetti ai lavori (nessuno escluso), che ha portato, in uno con le lacune genetiche dell'istituto, ad un mutamento dello stesso, certamente non del tutto in melius.
Il problema che sorge, ineludibile, allo stato, è quello della valutazione del dettato degli artt. 438 co. 5° e 441 co. 5° c.p.p., e del loro compatibile inserimento, rispetto ad un giudizio, che per deformazione professionale di giudici, p.m. ed avvocati, troppo spesso si è caratterizzato, a torto come minus, se paragonato al dibattimento.
Non sono persuaso del fatto che si ritenga intervenuta l'abrogazione del concetto di "decidibilità allo stato degli atti", da parte del G.U.P..
Ritengo, infatti, che ci si trovi dinanzi solo ad un'opera di maquillage formale.
Se, infatti, viene a cessare quella delibazione preliminare, precedentemente riconosciuta al giudice, e che determinava a priori la ricusazione della richiesta di parte, ed la traslazione del procedimento alla fase dibattimentale, oggi, dopo la riforma, questi ben può, invece, valutare la consistenza probatoria del fascicolo e stabilire la "decidibilità allo stato degli atti", condizionata ad acquisizioni insindacabili, ritenute ex art. 441 co. 5° c.p.p..
In questo meccanismo, come acutamente osservato da altro autore , è insito un pericolo non di poco conto.
Il G.U.P., infatti ben potrebbe sostituirsi al P.M., al fine di colmare lacune accusatorie dell'indagine preliminare, recuperando indebitamente quei poteri conferiti, sotto l'imperio del codice del 1930, al G.I..
Il rischio che simile situazione si venga a verificare è tutt'altro che remoto.
Non va, infatti, dimenticato che il giudizio abbreviato, pur apparendo precipuamente schema di giudizio, che poteva comportare una deminutio delle garanzie difensive, per il principio dell'impossibilità dell'assunzione della prova, ha assunto spesso e volentieri nella pratica giudiziaria, funzione di definizione del procedimento penale con una valenza sovente tattica per la difesa.
Per esperienza personale, posso affermare che, con tale giudizio in numerose occasioni si è potuto testare il livello di incompletezza dell'indagine, ed ottenere pronunzie favorevoli all'imputato.
Un esempio può chiarire l'assunto.
Trovandosi, ad esempio, a dover fronteggiare genericissime dichiarazioni di un pentito, non riscontrate da altri elementi, quante volte non si è preferito evitare la sede del dibattimento, nella quale il dichiarante, con il magico ed improvviso recupero di ricordi, prima stranamente dimenticati, ben avrebbe potuto assumere una credibilità ed uno spessore diverso?
In sede di giudizio abbreviato, la cristallizzazione dell'indizio acquisito nel corso dell'indagine preliminare, ha permesso in numerosi casi la valutazione logica e critica dello spessore degli elementi che l'accusa, in precedenza può avere raccolto.
Or bene, credo che sia del tutto ragionevole ed accettabile il riconoscimento di un potere, in capo al giudice, di sanatoria del dubbio, laddove, la delibazione del materiale devoluto al medesimo non conduca, in termini di certezza, ad una definizione, qualunque essa sia del grado di giudizio.
Non è accettabile, invece, che il dubbio sanabile possa attenere all'impossibilità di condannare l'imputato, per la carenza degli elementi acquisiti a suo carico dalla pubblica accusa.
E', quindi, necessario che si addivenga ad una limitazione di quel potere del giudice che la stessa dr. Caprifoglio definisce "illimitato".
Vanno, quindi, individuati quelli che devono essere gli elementi che possono fungere da concreta e seria integrazione delle precedenti acquisizioni, senza che venga stravolta la ratio del rito.
Un esempio potrà, anche in questo chiarire il pensiero.
Se, infatti, richiedo il giudizio abbreviato tombale, dopo una disamina degli elementi di accusa, che si fondano, nella fattispecie, esclusivamente su dichiarazioni di un pentito, formulo un giudizio di decisibilità del processo, sul presupposto di una critica logica della sufficienza probatoria delle stesse.
Giusto o sbagliato che sia, questa è una mia valutazione, che presuppone un certo tipo di sviluppo irretrattabile sul piano processuale.
Or bene, in siffatta ipotesi, non penso sia ammissibile che il giudice possa sostenere la necessità di un ulteriore assunzione diretta di tali dichiarazioni, al fine di allargare lo spettro delle stesse, ricorrendo ex art. 441 co. 5° c.p.p. alla relativa integrazione, onde far ripetere al teste quanto già detto, e semmai, qualcosa di più.
A fronte di una scelta di questo tipo, l'imputato ed il difensore bob hanno alcun tipo di possibile opposizione.
Il richiamo all'applicabilità dell'art. 423 c.p.p., non è certamente meccanismo di tutela della parte, che si venga a trovare calata in un procedimento del tutto diverso da quello che aveva, in un certo qual modo, scelto a ragion veduta e sulla base di una completa valutazione dello stato del procedimento.
Credo che il potere, così, riconosciuto al giudice, sia frutto di un pentimento del legislatore, relativamente all'abrogazione del consenso da parte del P.M. all'adozione del rito alternativo.
Ritengo, peraltro, che i P.M. non sentano, né abbiano necessità di essere posti sotto tutela di un giudice, che deve essere in assoluta posizione di terzietà.
Ritengo, altresì. che se si è giunti a tale drastica decisione, certamente opinabile, la responsabilità vada ascritta, a coloro che troppe molte con modalità, spesso speciose, hanno opposto dinieghi (rectius non consensi) al rito deflativo, minandolo in concreto.
Certamente, per chi optava per il giudizio abbreviato, al solo fine di uno sconto di pena, nell'impossibilità di accedere al patteggiamento, vi poteva essere la possibilità di recupero dell'effetto premiale dinanzi al giudice del dibattimento.
Tale opportunità, peraltro, risultava del tutto insoddisfacente.
In primo luogo, conseguiva una deroga al principio costituzionale dell'art. 25, atteso che il giudice del rito abbreviato, non poteva essere il Tribunale collegiale.
In secondo luogo, si otteneva un evidente appesantimento del processo, con l'aggravio di perdite di tempo e costi inutili.
L'esperienza professionale mi ricorda alcuni procedimenti in Corte di Assise, con imputati confessi e raggiunti da prove inequivoche, che bene avrebbero potuto essere conclusi in una udienza camerale, e che, invece, hanno avuto come teatro il dibattimento, giungendo dopo lunghe ed estenuanti sessioni al medesimo risultato, cui si sarebbe giunti dinanzi al G.U.P..
Si potrà obiettare che l'integrazione, così come concepita, è destinata indiscriminatamente a colmare il dubbio del giudice, e può, anche, risolversi a favore anche dell'imputato.
Sarà anche così, ma non va dimenticato che il giudicante, nella stragrande maggioranza dei casi deliba sulla base degli elementi offerti dall'accusa; ergo valuta la congruità e capacità degli stessi a permettere un giudizio di penale responsabilità.
Diversamente se il P.M. si fosse persuaso della non colpevolezza dell'imputato, non avrebbe certo iniziato l'azione penale con la richiesta di rinvio a giudizio!

L'ART. 438 CO. V C.P.P., E' COMPATIBILE CON IL DETTATO COSTITUZIONALE?

A) La valutazione preventiva del giudice

Ciò posto non si può, però, omettere di valutare la portata dell'integrazione probatoria su richiesta di parte, o meglio del giudizio abbreviato condizionato ex art. 438 co. 5° c.p.p., per derivare da ciò alcune osservazioni maturate nella pratica quotidiana.
A parere di chi scrive, la scelta di finalizzare l'ammissione dell'integrazione probatoria alla decisione del giudizio abbreviato appare una condizione del tutto illegittima, perché importa a carico del giudice una preventiva ed incidentale penetrazione del merito delle risultanze processuali.
La locuzione utilizzata dalla norma "SE L'INTEGRAZIONE PROBATORIA RICHIESTA RISULTA NECESSARIA AI FINI DI DECISIONE", appare del tutto in conflitto con la regola generale in materia probatoria, portata dall'art. 190 c.p.p. al proprio comma 1°.
In tale ambito, il legislatore ha previsto l'esclusione di quelle prove che siano VIETATE DALLA LEGGE, o che vengano considerate MANIFESTAMENTE SUPERFLUE O IRRILEVANTI, senza che, però, sia usato il parametro di ancorare preventivamente le stesse alla decisione che il giudice dovrà prendere nel merito al termine del giudizio.
In buona sostanza, l'accettazione della prova è collegata, quale principio generale, alla sua attinenza e pertinenza rispetto all'accusa, non già all'effetto che essa potrà avere in relazione alla sentenza che si emetterà.
Non viene, pertanto, svolta una prognosi, od un giudizio di futuribile intima incidenza della prova richiesta sull'esito finale del giudizio.
Siamo, pertanto, in presenza di due criteri di ammissibilità della prova, tra loro configgenti, pur se attinenti a fasi omologhe, siccome definitorie un grado di giudizio di merito.
Tale evidente discrasia, determina una lesione del principio sia di difesa, che di uguaglianza.
Il giudice del dibattimento, quindi, a differenza di quello del giudizio abbreviato condizionato, opera una valutazione di attinenza della richiesta rispetto al capo di imputazione, che non sconfina nel merito, e non si pone quale prognosi futura in ordine all'esito del processo.
Il giudice dibattimentale non si pone, né si deve porre, il problema se la prova richiesta riverberi effetti necessari sul provvedimento definitorio il giudizio, la sentenza.
Egli si limita a valutare la congruità formale e sostanziale della prova al processo, ammettendola purchè non risulti di per sé irrilevante od ininfluente, già ex ante.
La prova ben potrà, quindi, nella comparazione dibattimentale, di cui sarà eventualmente oggetto assieme ad altre alla stessa contrarie, disattesa dal giudicante o ritenuta non concludente.
Valuterà, poi, il giudice se la prova assuma valore e peso processuale nell'economia del rito.
Tale giudizio, formulato con valutazione ex post, non potrà in alcun modo, però, portare alla definizione di prova irrilevante od ininfluente.
Il giudice del giudizio ex art. 438 c.p.p., vincolato nel proprio esame preventivo-delibativo, invece, viene ad essere indebitamente condizionato dal valore che la prova dovrebbe assumere nell'economia del provvedimento finale da emettere.
In buona sostanza, senza tanti giri di parole, il giudice deve valutare se la prova sia decisiva, (in questo senso deve interpretarsi il concetto di NECESSITA'), in relazione alla sentenza che si andrà ad emettere, cioè se la prova possa produrre effetti di discolpa o meno, ammettendola solo se essa, a suo parere dimostrerà l'innocenza dell'imputato.
Ciò che si impone al giudice, altro non è che un'anticipazione del giudizio di merito.
Il giudicante, infatti, deve valutare la richiesta nel suo intimo sinallagma con l'esito del processo, prima ancora che questo venga celebrato.
Va detto, inoltre, che la questione è del tutto diversa da quella che si può prospettare in sede di udienza preliminare con il ricorso all'art. 422 co. 1° c.p.p..
In tale caso il legislatore ha usato quanto meno una formula meno ipocrita, sancendo come le prove a discarico debbano sortire, per la loro decisività, la conseguenza di un proscioglimento dell'imputato.
La finalizzazione ad una sentenza ex art. 425 c.p.p., non è, inoltre, elemento pregiudizievole, posto che l'udienza preliminare si pone come fase di filtro, non essendo né decisoria, né risolutiva del primo grado di giurisdizione, e presupponendo una fase dibattimentale successiva.
Inoltre, l'art. 495 co. 2° c.p.p. riconosce un vero e proprio diritto all'ammissione della prova a discarico in sede dibattimentale, fermi i limiti già esposti.
Non si comprende, pertanto, perché il legislatore del 1999, abbia, poi, compresso l'esercizio del diritto del difendersi provando, pur prevedendo, nell'ambito di un giudizio nato con la caratteristica della totale ablazione del diritto alla prova, una nuova formula che dovrebbe escludere, in pratica, tale effetto pregiudizievole la difesa dell'imputato.
Si deve, infatti, avere il coraggio di ammettere che il rito introdotto con la legge Carotti, altro non è che una forma particolare di dibattimento, celebrato alla udienza preliminare dinanzi al G.U.P..
Che senso avrebbe, sennò, riconoscere all'imputato il diritto di richiedere prove a discarico, già in questa sede?
Il criterio discretivo di ammissibilità della prova non può, pertanto, risultare diverso tra rito ex art. 438 co. 5° c.p.p. e dibattimento.
Né può sostenersi che l'adozione del rito alternativo condizionato determini, in capo all'imputato, l'accettazione di una notevole contrazione dei propri diritti alla difesa.
Tale osservazione poteva valere in relazione al giudizio abbreviato "classico", cioè ad un giudizio che veniva svolto (e viene svolto tuttora) su mera basi documentale.
Se è vero, però, che la riforma ha previsto una disposizione legislativa quale l'art. 441 co. 5° c.p.p., munendo il giudicante di un illimitato potere integrativo, ecco dimostrato che l'elemento prevalente introdotto con la riforma del giudizio abbreviato, attiene, comunque, all'assunzione di qualsivoglia elemento che possa portare alla verità.
Il principio dell'accertamento dei fatti assume, pertanto, un valore del tutto prioritario, anche rispetto alla struttura del rito.
Ritengo, quindi, che il descritto meccanismo, previsto dalla novella del 1999, si ammanti solo formalmente di un carattere garantista, attesi sia gli evidentissimi, quanto generici limiti che l'art. 438 co. 5° c.p.p., pone in via preliminare all'ammissibilità della richiesta, sia quella doverosa e specifica anticipazione di giudizio da parte del magistrato, che finisce per inficiare la genuinità del processo.
Assolutamente condivisibile è, poi, la penetrante osservazione di chi rilevi lo sbilanciamento fra la previsione illimitata dell'art. 441 co. 5 e quella dell'art. 438 co. 5 c.p.p. .
Il problema, infatti, non è, affatto, la conoscenza preventiva delle risultanze delle indagini preliminari, conseguenza ovvia e doverosa, posto che nel caso di specie il giudicante non giunge - diversamente dal dibattimento - "ignorante del pregresso" alla celebrazione del processo.
Il problema che si pone è quello relativo alla circostanza che il giudice per ammettere la prova valuta preventivamente la di lei inferenza nella dinamica e nell'iter di valutazione definitoria, che invece, dovrebbe essere operazione propria del giudice, nella fase posteriore alla discussione delle parti.
Ergo emerge un contrasto palese fra il dictum dell'art. 438 co. 5° c.p.p., le norme costituzionali portate dagli artt. 3 e 24, nonché le norme processualpenalistiche richiamate, e chi scrive si ritiene che sarebbe estremamente utile che la questione fosse devoluta all'esame del giudice delle leggi, anche sul piano squisitamente interpretativo.

B)La partecipazione del giudice che ha rigettato l'integrazione probatoria al giudizio abbreviato tombale.

Un altro aspetto che mi permetto di evidenziare attiene alle conseguenze ulteriori che derivano dal rigetto di adozione del rito abbreviato condizionato.
L'art. 438 co. 6° c.p.p., riconosce, a fronte della non adattabilità del "giudizio speciale" la facoltà della parte di riproporre la richiesta di giudizio abbreviato, (tombale) prima della formulazione delle conclusioni.
Il giudicante, nella fattispecie, non muta (non vi è previsione espressa in proposito), sicchè il medesimo giudice, che già ha formulato ed esternato con ordinanza una precisa valutazione di merito, rimane arbitro del nuovo giudizio, potendo, addirittura, giungere ad integrazioni del tutto opposte a quelle rigettate, con l'ausilio dell'art. 441 co. 5° c.p.p., anche sull'abbrivio della precedente conoscenza dei temi di prova supplettiva avanzati dalla difesa.
Il giudice cui viene sottoposta una richiesta di giudizio abbreviato condizionato, ha dato luogo, come si è avuto modo di rilevare, alla stregua della normativa vigente, ad una preliminare delibazione di atti processuali, operando, quindi, in tal modo una valutazione delle risultanze di indagine ed una preventiva comparazione fra gli elementi dell'accusa e quelli della difesa.
Il giudice, quindi, in forza del disposto dell'art. 438 co. 5° c.p.p., non solo è chiamato - come si è detto - a conoscere le risultanze degli atti di indagine (condotta, peraltro, insuscettibile di censura, alla stregua della ratio del giudizio abbreviato, che presuppone tale cognizione), ma ha bilanciato tra loro gli elementi assunti nel corso delle indagini preliminari, rispetto a quelli di cui la difesa chiede l'assunzione, nell'ottica della decisione da prendere, cioè del giudizio definitorio il grado.
Tale valutazione comporta, a pensiero di chi scrive, una causa di incompatibilità ex art. 34 c.p.p., o meglio dovrebbe comportare una causa di incompatibilità secondo tale norma.
Poiché le richieste previste dall'art. 438 co. 5° c.p.p., appaiono, quale facoltà ad esclusivo appannaggio della difesa, siccome strumento, previsto in linea teorica, per poter allargare l'assetto probatorio, in base al quale il giudice del rito abbreviato possa decidere, è evidente che la difesa usualmente viene determinata a ciò dalla necessità:
1) di controbilanciare e contraddire gli elementi accusatori;
2) di dimostrare, comunque, la non colpevolezza o la non imputabilità dell'imputato, oppure la sussistenza di circostanze attenuatrici la eventuale responsabilità penale dell'inquisito.
Consegue, pertanto, da quanto sopra, l'ovvia osservazione che se il giudice viene chiamato, allo scopo descritto, a valutare preventivamente le stesse e ricusi la loro ammissione, si venga a creare un evidente implicito, quanto dovuto, pre-giudizio che riverbera effetti indubbi sul prosieguo del processo, posto che le stesse non vengono in alcun modo ritenute utili e, soprattutto, necessarie, per la decisione da prendere.
E' palese che una negativa valutazione delle prove richieste dalla difesa, penetra il merito della vicenda processuale e si pone quale indebito prius logico, rispetto alla celebrazione del processo con il rito abbreviato.
Essa, infatti, si risolve, in pari tempo, in un apprezzamento degli elementi accusatori, ritenuti intangibili ed esaustivi, e coinvolge la loro idoneità a permettere una pronunzia di responsabilità penale in capo all'imputato, in relazione alla res iudicanda.
Laddove il decisum del provvedimento del giudice postuli una valutazione non di mera legittimità, ma anche di merito, fondata sulle risultanze degli atti, presupposto del provvedimento è, quindi, un esame, appunto, di merito, concernente sia l'inesistenza delle condizioni legittimanti la sussistenza della "necessità a fini di decisione", della prova, sia la congruenza del reato oggetto della richiesta alle risultanze delle indagini preliminari.
Si tratta, perciò, di una valutazione "non formale, ma di contenuto" circa l'idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato.
Deve, pertanto, riconoscersi che sussistono in tal caso ragioni di incompatibilità rispetto al giudizio dibattimentale omologhe a quelle già considerate dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 496 del 1990 e 502 del 1991 (par. 3.1).
Già con sentenza n. 186 del 22.4.1992 il giudice delle leggi, respingendo una questione di legittimità del medesimo art. 34, secondo comma, proposta dal Pretore di Urbino (r.o. n. 714/1991) per la mancata previsione dell'incompatibilità a celebrare il giudizio dibattimentale di chi, quale giudice per le indagini preliminari, abbia respinto la richiesta di giudizio abbreviato - avanzata, nella specie, da uno dei tre imputati - per la ritenuta impossibilità di decidere allo stato degli atti, sancì la rilevanza costituzionale del principio non già della mera conoscenza, quanto della delibazione anticipata di merito.
Ad avviso del rimettente si affermava la violazione, in tal caso, in ragione della previa conoscenza - preclusa al giudice dibattimentale - degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, il principio di "terzietà" di detto giudice desumibile dalle direttive di cui all'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987 e, quindi, gli artt. 76 e 77, nonchè l'art. 25 della Costituzione. La questione non fu ritenuta fondata.
La Corte, infatti, aveva già chiarito, nella sentenza n. 124 del 1992, che non la mera conoscenza degli atti, ma una valutazione di merito circa l'idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato, vale a radicare l'incompatibilità.
Tale principio è stato recepito nelle ipotesi (non di inammissibilità), ma di rigetto della richiesta di applicazione di pena concordata, dato che essa comporta, quanto meno, una valutazione negativa circa l'esistenza delle condizioni legittimanti il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. e circa la congruenza alle suddette risultanze della qualificazione giuridica del fatto e/o delle circostanze ritenute nella richiesta.
La valutazione che viene effettuata nel caso di specie, è analoga alla comparazione che si effettua tra attenuanti e aggravanti, cioè si tratta al fine della decisione da prendere, di esaminare compiutamente con un indebito giudizio ex ante la prevalenza degli elementi precostituiti (e contenuti nel fascicolo del P.M.), rapportandoli a quelli offerti a contrasto dalla difesa.
Si tratta di un anticipato giudizio nel giudizio di merito, con evidenti conseguenze.
Né si potrà sostenere che, valvola di sfogo alla questione possa risultare la scelta di affrontare il dibattimento, onde esercitare in quella sede il più completo diritto di difesa.
In proposito, infatti, si pone il dubbio sulla ricuperabilità successiva dello sconto premiale, nel silenzio sullo specifico punto della novella legislativa .
Sicchè, così opinando, si addiverrebbe a conseguenze di enorme sfavore per l'imputato.
Non ci si può, però, dimenticare un rischio che potrebbe insorgere, laddove si ravvisasse e si riconoscesse l'incompatibilità dedotta.
Esso riposa nella possibilità della parte di avanzare nuova richiesta di abbreviato condizionato al nuovo giudice nonché nel potere, a fronte di un ulteriore rigetto, di sollevare nuovamente questione di incompatibilità in capo al secondo giudice, eccezione, quest'ultima che potrebbe, in un'ottica defatigatoria e indubbiamente discutibile, venire reiterata all'infinito.
Credo, pertanto, ferme e condivise le citate osservazioni sul tema del recupero o meno, in sede dibattimentale degli effetti premiali del rito, per il caso di diniego dello stesso nella forma condizionata, in assenza di adozione del giudizio tombale, che a tale pericolo si possa ovviare ritenendo impugnabile l'ordinanza di rigetto, in uno con l'eventuale sentenza di condanna.
Verrebbe così riaffermato in capo al giudice d'appello un controllo completo e pregnante sulla legittimità del rito e sulla tutela del diritto di difesa, senza pregiudicare l'unitarietà e speditezza del rito alternativo.
Ritiene, comunque che anche questo aspetto del problema debba sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale.

- avv. Carlo Alberto Zaina - febbraio 2002

(riproduzione riservata)


[1] Cfr dr. Palazzoli, Abbreviato post-Carotti e limiti al potere di integrazione probatoria, in questa Rivista.

[2] Cfr dr. Palazzoli, Abbreviato post-Carotti cit., in questa Rivista.

[3] cfr. dr. Caprioglio La nuova udienza preliminare ed il nuovo giudizio abbreviato, in questa Rivista.

[torna alla primapagina]