Corte
di Cassazione, Sezione III Penale,
Sentenza 8 maggio - 21 ottobre 2003, 904 (39706/2003)
Reg. Generale 6777/2003
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli
Ill.mi Sigg.:
1. Dott. Giuseppe Savignano Presidente
2. Dott. Claudio Vitalone Consigliere
3. Dott. Aldo Rizzo Consigliere
4. Dott. Guido De Maio Consigliere
5. Dott. Amedeo Franco Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso
proposto dal procuratore della repubblica presso il tribunale per i minorenni
di Salerno;
avverso la ordinanza emessa il 7 febbraio 2003 dal tribunale per i minorenni
di Salerno, quale giudice del riesame, nei confronti di B.Ll.;
nella udienza in camera di consiglio in data 8 maggio 2003;
sentita la relazione fatta dal consigliere Amedeo Franco;
udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.
Vittorio Meloni, che ha concluso per l’annullamento con rinvio della ordinanza
impugnata;
sentito il difensore avv. Bruno Desi del foro di Bologna, che ha concluso per
il rigetto del ricorso;
Svolgimento del processo
Con decreto
del Pubblico Ministero presso il tribunale per i minorenni di Salerno del 27
gennaio 2003 fu disposto il sequestro probatorio, nei confronti di B.Ll. (maggiorenne)
di un personal computer e di diversi oggetti accessori (dischetti, CD ROM, dischi
Zip, dischi rigidi portatili) in relazione ai reati di cui agli artt. 600 ter
e 600 quater cod. pen.
Il tribunale per i minorenni di Salerno, quale giudice del riesame, con ordinanza
del 7 febbraio 2003, osservò:
a) che sulla base degli atti trasmessi dal pubblico ministero sussisteva il
fumus esclusivamente in relazione al reato di cui all’art 600 quater cod.
pen., mentre non era assolutamente rinvenibile il fumus di una delle fattispecie
delittuose di cui all’art 600 ter cod. pen.;
b) che, per tale reato, non era prevista l’attività di contrasto
ai sensi dell’art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, il quale limita
tale attività al solo fine di acquisire elementi di prova per i delitti
di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter commi 1, 2 e 3, e 600 quinques
cod. pen., e non anche per il reato di cui all’art 600 quater cod. pen.,
concernente la mera detenzione consapevole di materiale pedopornografico;
c) che di conseguenza doveva annullarsi il decreto di sequestro impugnato ed
ordinarsi la restituzione di quanto in sequestro.
Il procuratore della Repubblica presso il tribunale per i minorenni di Salerno
propone ricorso
per cassazione
deducendo:
a) che il procedimento nei confronti di B. è nato a seguito di un provvedimento
di stralcio emesso nel procedimento a carico di tale C.G., procedimento nel
quale era stata disposta l'attività di cui all’art 14 della legge
3 agosto 1998, n. 269. Ne consegue che non ci si trova di fronte ad un’ipotesi
di valutazione della legittimità del provvedimento del pubblico ministero
che autorizza l’attività di contrasto ai sensi del citato articolo
14 ma in quella, diversa, di utilizzabilità in un processo di atti acquisiti
in altro procedimento.
b) che a quest’ultimo riguardo non è prevista nessuna specifica
disposizione, con la conseguenza che devono applicarsi le disposizioni generali
sull’utilizzabilità degli atti e sui presupposti dei provvedimenti
di perquisizione e sequestro;
c) che, anche se si volesse equiparare l’attività ex art 14 legge
3 agosto 1998, n. 269, alle intercettazioni telefoniche o telematiche, non dovrebbe
trovare applicazione l’art 270, primo comma, cod. proc. pen., perché,
secondo la giurisprudenza, qualora le registrazioni di intercettazioni telefoniche
rappresentino non una conversazione relativa ad un fatto reato bensì
una comunicazione che integra essa stessa condotta del reato addebitato, la
loro acquisizione al processo va inquadrata nelle norme che regolano l’uso
processuale del corpo di reato, dovendosi tali registrazioni considerare cose
sulle quali il reato è stato commesso, con conseguente inapplicabilità
delle limitazioni di cui all’art 270 cod. proc. pen.;
d) che quindi non sussiste alcun limite alla possibilità di sequestro
del materiale illegittimamente detenuto ex art 600 quater cod. pen., qualunque
sia stata la fonte informativa dalla quale si abbia avuto notizia del possesso
(come nel caso in cui il materiale pedopornografico fosse stato sequestrato
a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o di droga), e ciò
per il motivo che si tratta comunque di materiale che costituisce corpo del
reato di cui al suddetto art. 600 quater cod. pen.;
e) che, inoltre, dagli atti del procedimento stralciato, risulta che un soggetto
che utilizzava lo pseudonimo usato dal B. prelevò il 9 marzo 2002 ben
25 documenti di carattere pedopornografico dal F-server installato nel corso
delle indagini a carico di C.G., e tale attività di prelievo integra
la fattispecie di “scambio” di materiale pedopornografico, per cui
vi sono elementi sufficienti a ritenere il fumus del reato di cui all’art
600 ter cod. pen.;
f) che il tribunale non ha tenuto conto del secondo comma dell’articolo
240 cod. pen. secondo cui è sempre disposta la confisca delle cose la
cui detenzione costituisce reato, in relazione al settimo comma dell’art
324 cod. proc. pen., secondo cui la revoca del decreto di sequestro non può
essere disposta nei casi indicati dall’art. 240, secondo comma, cod. pen.;
g) che sotto questo aspetto la motivazione della ordinanza impugnata è
anche manifestamente illogica perché, pur riconoscendo il fumus del reato
di detenzione di materiale pedopornografico (art 600 quater cod. pen.) si autorizza
a continuare tale detenzione ed a disperdere la prova del reato stesso.
In data 30 aprile 2003 il difensore dell’indagato ha depositato memoria difensiva con la quale contrasta le argomentazioni svolte dal pubblico ministero ricorrente.
Motivi della decisione
Deve essere logicamente esaminato per primo il quinto motivo
del ricorso, con il quale si sostiene che dagli atti emergerebbero elemento
in base ai quali sarebbe configurabile il fumus del reato di cui all’art.
600 ter cod. pen., e ciò perché un soggetto utilizzante lo stesso
pseudonimo utilizzato dal B. avrebbe prelevato il 9 marzo 2002 25 documenti
di carattere pedopornografico, con il che si sarebbe realizzata la fattispecie
dello “scambio” di tale materiale e quindi il reato di cui all’art
600 ter cod. pen.
Il motivo è chiaramente infondato. A questo proposito (pur essendo in
realtà irrilevanti), sono del tutto esatte le osservazioni contenute
nella memoria difensiva secondo cui tali pretesi documenti non sono stati mai
acquisiti al fascicolo, con impossibilità da parte del tribunale del
riesame e della difesa di poterne controllare il contenuto, e con conseguente
illegittimità di una decisione del tribunale del riesame che si fosse
basata sugli stessi. Ed invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema
Corte, il giudice del riesame, ai fini del decidere e del motivare "potrà
prendere in considerazione solo gli atti effettivamente depositati, con la conseguenza
che, qualora in base ad essi, egli non sia in grado di verificare la legittimità
del provvedimento ablativo, dovrà annullarlo, esponendosi, in caso contrario,
a censura per inesistenza della motivazione, per l'ovvia ragione che non è
concepibile operazione di motivazione su dati non esaminati" (Sez. V, 8
febbraio 1999, Zamponi, m. 212.863). Ma, come accennato, l'osservazione del
difensore, seppur esatta, è nella specie irrilevante. Ed invero, quand'anche
il B. avesse effettivamente prelevato dallo F-server in questione i 25 documenti
pedopornografici di cui parla il pubblico ministero e quand'anche la prova di
tale prelevamento fosse stata acquisita legittimamente e fosse quindi utilizzabile,
ugualmente non sarebbe - con tutta evidenza - configurabile nessuno dei reati
di cui ai primi tre commi dell'art. 600 ter cod. pen. ai quali esclusivamente
l'art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, limita l'attività di contrasto
ivi prevista. Non ovviamente quello di cui al primo comma del detto articolo
(che prevede l'ipotesi della realizzazione di esibizioni pornografiche o della
produzione di materiale pornografico mediante lo strumento di minori degli anni
diciotto) non quello di cui al secondo comma (che prevede l'ipotesi di chi fa
commercio del detto materiale) né quello di cui al terzo comma (che prevede
l'ipotesi di chi distribuisce, divulga o pubblicizza il detto materiale pedopornografico
o distribuisce o divulga notizie o informazioni finalizzate all'adescamento
o allo sfruttamento sessuale dei minori degli anni diciotto). Ma nemmeno sarebbe
configurabile il reato di cui al quarto comma del medesimo articolo 600 ter
cod. pen. (per il quale peraltro non è consentita l'attività di
contrasto di cui al citato articolo 14 legge 3 agosto 1998, n. 269), reato che
si riferisce al caso di chi consapevolmente cede ad altri, anche a titolo gratuito,
materiale pedopornografico. Ed infatti, secondo la ipotesi prospettata dal pubblico
ministero ricorrente - ma non risultante da nessuno degli atti messi a disposizione
del tribunale del riesame - il B. si sarebbe limitato a prelevare del materiale
pedopornografico dal sito civetta installato nel procedimento contro tale C.
G., ma non avrebbe ceduto ad altri, neppure a titolo gratuito, il suddetto materiale.
In ogni caso, quindi, nono essendovi stato nessuno "scambio" (ipotesi
questa peraltro nemmeno contemplata dagli artt. 600 ter cod. pen. e 600 quater
cod. pen.) di materiale pedopornografico in quanto il B. si sarebbe limitato
esclusivamente a prelevarlo e non a cederlo a sua volta, neppure in cambio di
quello prelevato, l'unico reato astrattamente ipotizzabile sarebbe quello di
cui all'art 600 quater cod. pen., come appunto correttamente ritenuto dal tribunale
del riesame.
I primi tre motivi del ricorso del pubblico ministero sono manifestamente infondati.
Va preliminarmente rilevato che tali motivi si fondano, in gran parte, su un
assunto palesemente erroneo, ossia quello di una pretesa assimilabilità
della disciplina relativa alla attività di contrasto prevista e rigorosamente
disciplinata dall'art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, con la disciplina
relativa all'utilizzabilità, anche in procedimenti diversi da quello
in cui sono state disposte, delle intercettazioni telefoniche e telematiche.
Si tratta invece di attività investigative del tutto diverse, aventi
diverse caratteristiche e ben diverse potenzialità di incisione su beni
costituzionalmente tutelati, ed assoggettate pertanto a diversi presupposti,
di modo che non è possibile nessuna estensione analogica della disciplina
relativa alle intercettazioni telefoniche alla attività di contrasto
di cui al citato art. 14.
La ragione è di tutta evidenza. Con l'attività di intercettazione
di comunicazioni telefoniche o telematiche la polizia giudiziaria si limita,
appunto, ad intercettare le comunicazioni che avvengono tra soggetti terzi senza
svolgere alcun ruolo attivo e tanto meno un ruolo di provocazione. Con l'attività
di contrasto di cui all'art. 14 legge 3 agosto 1998, n. 269, invece, in vista
della gravità e dell'allarme sociale di alcuni ben specifici e determinati
reati, la polizia giudiziaria è autorizzata, limitatamente ai reati stessi,
a svolgere, in via del tutto eccezionale rispetto alle norme e ai principi fondamentali
del nostro ordinamento processuale in tema di acquisizione delle prove, un vero
e proprio ruolo di agente provocatore. Orbene è evidente che una tale
attività in tanto può ritenersi consentita e non in contrasto
con norme costituzionali in quanto sia appunto strettamente limitata a casi
eccezionali e soggetta ad una rigida disciplina che ne stabilisca rigorosamente
i limiti e le procedure.
Ne consegue, innanzitutto, che qualsiasi applicazione analogica di tale disciplina
eccezionale a casi diversi da quelli tassativamente previsti dall'art 14 citato,
deve ritenersi assolutamente vietata ai sensi dell'art 14 delle preleggi.
Del resto è proprio la eccezionalità di questa disciplina e la
sua deroga dai principi fondamentali, anche di valore primario - deroga razionalmente
giustificata dalla particolare gravità ed odiosità dei reati che
con essa si intendono contrastare - che ha indotto il legislatore a dettare
dei limiti ben precisi e rigorosi, al di fuori dei quali l'attività in
questione deve ritenersi non solo irregolare o illegittima, ma addirittura illecita,
con conseguente inutilizzabilità, rilevabile d'ufficio in qualsiasi stato
e grado del processo, ai sensi dell'art 191 cod. proc. pen., di qualsiasi prova
attraverso la medesima acquisita (cfr. Sez. III, 3 dicembre 2001, D'Amelio).
In particolare, con l'articolo in questione, il legislatore ha previsto due
diverse ipotesi di attività di contrasto. La prima è quella indicata
dal primo comma del detto art. 14, per la cui legittimità occorre la
presenza del seguenti presupposti: a) che l'attività investigativa sia
svolta nell'ambito di operazioni disposte dal questore o dal responsabile di
polizia di livello almeno provinciale; b) che l'attività sia svolta da
ufficiali di polizia giudiziaria (e non quindi da semplici agenti); c) che i
detti ufficiali di polizia giudiziaria appartengano alle strutture specializzate
ivi indicate; d) che vi sia l'autorizzazione dell'autorità giudiziaria
per poter procedere all'acquisto simulato di materiale pornografico, alle relative
attività di intermediazione e alla partecipazione ad iniziative turistiche;
e) che la detta attività sia diretta al solo fine di acquisire elementi
di prova in ordine ai delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma, 600 ter,
commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies cod. pen.
La seconda ipotesi è quella prevista dal secondo comma del detto art.
14, e per la sua legittimità occorre la presenza dei seguenti presupposti:
a) che le indagini siano svolte nell'ambito di compiti di polizia delle telecomunicazioni,
definiti con apposito decreto ministeriale, dall’apposito organo del ministero
dell’interno per la sicurezza e la regolarità dei servizi di telecomunicazione;
b) che l'attività sia svolta su richiesta della autorità giudiziaria,
motivata a pena di nullità; c) che l'attività sia finalizzata
esclusivamente a contrastare i delitti di cui agli artt. 600 bis, primo comma,
600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies cod. pen. commessi mediante
l'impiego di strumenti informatici o mezzi di comunicazione telematica ovvero
utilizzando reti di telecomunicazione disponibili al pubblico, d) che, sempre
esclusivamente a tal fine, il personale addetto può utilizzare indicazioni
di copertura, anche per attivare siti nelle reti, realizzare o gestire aree
di comunicazione o scambio su reti o sistemi telematici, ovvero per partecipare
ad esse.
Orbene, va osservato in via preliminare, che, come esattamente rileva il difensore
nella sua memoria, nel caso di specie la stessa legittimità e regolarità
della attività di contrasto (condizione indispensabile per la utilizzabilità
degli elementi di prova attraverso essa acquisiti: cfr. Sez. III, 3 dicembre
2001, D'Amelio, già ricordata) effettuata nel procedimento ordinario
da cui è scaturito, per stralcio, quello a carico del B., è una
mera petizione di principio, in quanto non sono mai stati trasmessi al tribunale
gli atti a sostegno di tale asserzione. Esattamente, quindi, il difensore rileva
che così operando il decreto di sequestro, da mezzo di ricerca della
prova, rispetto alla notizia criminis che dovrebbe essere già acquisita
rispetto al B., si è in realtà trasformato in strumento di acquisizione
della notizia criminis.
Né potrebbe ritenersi, come sembra invece opinare il ricorrente, che
la regolarità e legittimità della procedura di autorizzazione
e di espletamento dell'attività di contrasto rileverebbe soltanto nel
procedimento originario e non in quello stralciato, e ciò in applicazione
analogica della disciplina in materia di intercettazioni telefoniche. Ed infatti,
a prescindere da ogni altra considerazione, si è già osservato
come l'attività di contrasto in esame sia regolata da una disciplina
del tutto eccezionale e che in ordine ad essa non possono trovare applicazione
analogica norme e principi giurisprudenziali valevoli per la diversa fattispecie
delle intercettazioni telefoniche, che riguarda ipotesi del tutto diverse e
differenziate dalla vera e propria attività di agente provocatore che
la polizia giudiziaria è autorizzata a svolgere dall'art 14 legge 3 agosto
1998, n. 269, nei soli casi e limiti da esso espressamente previsti.
Nella specie, oltretutto, l'acquisizione e la valutazione dei provvedimenti
idonei a dimostrare la sussistenza dei presupposti giustificativi dell'attività
di contrasto in esame nonché le modalità con le quali l'attività
di provocazione si era concretamente espletata, erano tanto più necessari
in quanto la difesa aveva esplicitamente sostenuto, per mezzo della consulenza
tecnica di parte, che l'inchiesta aveva preso avvio da un programma civetta
appositamente predisposto dalla società Uniplan Software s.r.l. di Salerno
su richiesta del pubblico ministero, sistema automatico "approntato non
tanto per monitorare, quanto per provocare attivamente e - potenzialmente- confondere
gli utenti che si collegavano ad alcuni sospetti canali mIRC". Il sistema
della Uniplan, secondo la difesa, inoltrava ogni 50 secondi un'offerta pubblicitaria
in inglese e senza alcun riferimento a pedopornografia" ed il messaggio
civetta aveva il carattere di "assoluta genericità" essendo
"in grado di allettare e confondere pressoché la totalità
degli utenti internet italiani non interessati a materiale pedopornografico".
Rileva altresì la consulenza tecnica di parte che i 25 file civetta che
sarebbero stati scaricati dal B. avevano "nomi comunissimi, assolutamente
generici, tutt'altro che inequivocabili e - comunque - in nessun modo riconducibili
a pedopornografia".
Trattasi ovviamente di osservazioni di merito che non rilevano in questa sede
di legittimità e che, tuttavia, si è ritenuto opportuno riportare
perché essi appaiono portare un sostegno all'impressione, che chiaramente
seppure implicitamente traspare dalla motivazione della ordinanza impugnata,
che si sia trattato nel suo complesso di una operazione investigativa poco rispettosa
delle norme di legge e dei diritti fondamentali del cittadino.
Quel che però importa rilevare è che, qualora fosse corrispondente
al vero l'affermazione che sembra essere stata fatta dalla difesa secondo cui
l'attività di contrasto fu effettuata, sia pure a seguito di specifico
incarico del pubblico ministero, ad una società privata, quale la Uniplan
Software s.r.l. di Salerno, e non invece da agenti o ufficiali di polizia giudiziaria
appartenenti all'organo del ministero dell'interno per la sicurezza e la regolarità
dei servizi di telecomunicazione, così come espressamente richiesto dall'art
14, secondo comma, legge 3 agosto 1998, n. 269, ne deriverebbe la illegittimità
(anzi: illiceità) di tutta la suddetta attività nel suo complesso
e la totale inutilizzabilità, in ogni stato e grado del giudizio, di
qualsiasi elemento di prova acquisito per mezzo della stessa, non solo nel procedimento
in esame ma anche in quello originario ed anche in relazione agli specifici
reati previsti dal suddetto art. 14.
Il tribunale del riesame, peraltro, giustamente non ha affrontato questi problemi
in quanto ha rilevato un'altra causa preliminare ed assorbente di inutillizzabilità
degli elementi di prova acquisiti. Tali elementi di prova, infatti, sono stati
acquisiti attraverso una attività di contrasto espletata ai sensi dell'art
14 legge 3 agosto 1998, n. 269, il quale però limita la liceità
di una tale attività solo al fine di contrastare i delitti di cui agli
artt. 600 bis, primo comma, 600 ter, commi primo, secondo e terzo, e 600 quinquies
cod. pen.. Ne consegue che, poiché nel caso di specie l'unico reato ipotizzabile
a carico dell'indagato è quello dell'art 600 quater cod. pen., la suddetta
attività di contrasto - quand'anche fossero sussistenti tutti gli altri
presupposti richiesti dalla legge per la sua legittimità - non poteva
comunque essere utilizzata per scoprire i delitti in questione. In altre parole
l’attività di contrasto non poteva in nessun modo essere diretta
a scoprire comportamenti di quei soggetti che si limitavano esclusivamente a
procurarsi o a detenere materiale pedopornografico così come non poteva
essere assolutamente utilizzata per scoprire i comportamenti di quei soggetti
che si limitavano, anche consapevolmente, a cedere ad altri, anche a titolo
gratuito materiale pedopornografico (art 600 ter comma quarto cod. pen.), ossia
si limitavano ad una singola cessione di immagini o di filmati pedopornografici,
dovendo invece essere diretta esclusivamente alla scoperta dei comportamenti
consistenti nella "distribuzione" o "divulgazione" o "pubblicizzazione"
ad un numero indeterminato di persone del detto materiale (ovvero a scoprire
i comportamenti integranti un altro dei reati espressamente indicati dalla disposizione
in esame). Poiché pertanto gli elementi di prova a carico dell'indagato
per il reato di cui all'art 600 quater cod. pen., sono stati acquisiti mediante
un'attività che, avendo oltrepassato i limiti rigorosamente fissati dal
suddetto art. 14, è da considerarsi non solo irregolare o illegittima,
ma addirittura illecita (in quanto l'attività dell'agente provocatore,
di per se illecita, non trova più giustificazione e fondamento in una
norma di legge) ne consegue che del tutto esattamente il tribunale del riesame
ha ritenuto i suddetti elementi di prova assolutamente inutilizzabili, ai sensi
dell'art 191 cod. proc. pen., in ogni stato e grado del procedimento.
Le contrarie osservazioni svolte in proposito dal ricorrente sono del tutto
inconferenti e comunque prive del benché minimo fondamento. Basterebbe
osservare che, come giustamente rileva la difesa dell'indagato, qualora si desse
credito a siffatte argomentazioni si finirebbe per avvalorare una prassi abnorme,
quella cioè di sanare eventuali irregolarità o illiceità
procedimentali da parte della polizia postale (o anche di qualsiasi soggetto
al quale per caso il pubblico ministero avesse illegittimamente delegato l'attività)
nell'azione di contrasto al fenomeno della pedopornografia attraverso una semplice
operazione di stralcio a totale discrezione (se non arbitrio) del pubblico ministero
procedente. D'altra parte l'argomento del ricorrente - secondo cui il fatto
che il procedimento contro il B. ha tratto origine da un provvedimento di stralcio
emesso in diverso procedimento nel quale fu disposta l'attività di contrasto
di cui all'art 14, dovrebbe comportare la conseguenza che nel presente procedimento
non si potrebbe più valutare la legittimità della attività
di contrasto ma solo la utilizzabilità in un processo di atti acquisiti
in un altro processo - è, più che manifestamente illogico, del
tutto abnorme ed assurdo. Ed invero - a parte la circostanza che non è
dato sapere se nell'originario procedimento contro tale C. G. si procedesse
per uno dei reati previsti dall'art 14 della legge 3 agosto 1998, n. 269, ovvero
si procedesse anche in esso per il reato di cui all'art 600 quater cod. pen.
o all'art 600 ter, comma quarto, cod. pen. (nel qual caso l'attività
di contrasto sarebbe stata illecita anche nel procedimento originario con conseguente
inutilizzabilità anche in esso degli elementi probatori acquisiti) -
sta di fatto che non può certamente sostenersi che la eventuale legittimità
della procedura seguita nel diverso procedimento riverserebbe automaticamente
i suoi "effetti virtuosi" in quello nuovo e diverso. L'art. 14 della
legge 3 agosto 1998, n. 269, non consente che l'attività di contrasto
attraverso l'agente provocatore sia svolta per accertare elementi di prova in
ordine al reato di cui all'art 600 quater cod. pen., per cui la totale inutilizzabilità
degli elementi di prova relativi a tale reato eventualmente raccolti in relazione
a tale reato resta ferma in ogni caso a prescindere dalle origini e dalle vicende
procedimentali e non può ovviamente venire meno solo per il fatto - del
tutto casuale e irrilevante - che il procedimento per il reato di cui all'art
600 quater cod. pen. prenda origine da uno stralcio effettuato in un diverso
procedimento. D’altra parte l’illogicità dell’assunto
del ricorrente risulta anche da un’altra considerazione: se per ipotesi
nel processo originario a carico del C. si procedesse per il solo reato di cui
all’art. 600 quater cod. pen. e conseguentemente gli elementi di prova
illegalmente acquisiti per mezzo della attività di contrasto di cui all'art.
14 citato fossero in tale procedimento inutilizzabili, si determinerebbe l'assurda
conseguenza che i medesimi elementi probatori diverrebbero - del tutto ingiustificatamente
- utilizzabili in un altro procedimento sol perché quest'ultimo ha preso
origini da uno stralcio del procedimento originario.
Quanto alle argomentazioni del ricorrente basate su una presunta equiparazione
della attività di contrasto in questione con quella delle intercettazioni
telefoniche e telematiche e su una pretesa applicazione analogica alla prima
delle norme e dei principi giurisprudenziali relativi a quest'ultima, si è
già ampiamente rilevato come nessuna equiparazione tra le due attività
è possibile (dato che nella prima, a differenza che nella seconda, si
è in presenza di una vera e propria attività di agente provocatore)
e come sarebbe del tutto illegittima ed arbitraria una tale estensione analogica,
se non altro perché trattasi di norme che fanno eccezione a regole generali
e che quindi non possono essere applicate in via analogica al di là dei
casi tassativamente previsti dalla legge.
Parimenti del tutto inconferente e manifestamente infondato è il paragone,
che il ricorrente pretenderebbe di fare, con l'ipotesi in cui il materiale pedopornografico
venisse ritrovato a seguito di perquisizione diretta alla ricerca di armi o
di sostanze stupefacenti. Anche in questo caso il ricorrente dimentica che nella
ipotesi in questione non si tratta di una normale attività investigativa
della polizia giudiziaria diretta all'accertamento di un qualche reato, nel
corso della quale venga per caso scoperta l'esistenza di un differente reato,
bensì siamo di fronte ad una attività di un agente provocatore,
che è autorizzata e resa lecita esclusivamente negli stretti limiti e
per l'accertamento dei limitati reati per i quali è consentita. Ne consegue
che è del tutto ovvio e corrispondente ai principi - ed anzi una contraria
interpretazione sarebbe in contrasto con fondamentali principi costituzionali
e dovrebbe quindi essere comunque disattesa per evitare possibili censure di
illegittimità costituzionale - che qualora attraverso tale attività
di agente provocatore si vengano per caso a scoprire reati diversi da quelli
alla cui scoperta tale attività era esclusivamente indirizzata, gli elementi
probatori relativi a tali reati non possano comunque essere in nessun caso utilizzati.
Nella specie, la detenzione da parte dell'indagato, di materiale pedopornografico
non è stata scoperta nel corso di una normale perquisizione diretta alla
scoperta di armi o di sostanze stupefacenti (nel qual caso gli elementi probatori
rinvenuti sarebbero stati chiaramente utilizzabili ed il materiale certamente
sequestrabile) bensì a seguito di una attività di agente provocatore
che è divenuta illecita (con conseguente inutilizzabilità degli
elementi probatori acquisiti) nel momento in cui è stata utilizzata per
l'accertamento di reati diversi da quelli tassativamente previsti dalla legge.
Parimenti irrilevante e manifestamente infondato è poi il richiamo all'art.
240, secondo comma, cod. pen., ed all'art. 324 cod. proc. pen.. Innanzitutto,
invero, tale disposizione presuppone pur sempre che il sequestro degli oggetti
sia stato legittimamente eseguito, mentre nella specie si tratta di un sequestro
palesemente illegittimo perché operato sulla base di un'attività
di agente provocatore avente i caratteri della illiceità e su elementi
probatori totalmente inutilizzabili. In secondo luogo, a tutto voler concedere,
ossia anche a voler ritenere in ipotesi applicabile l'art 324, settimo comma,
pure nelle ipotesi di sequestro disposto in base a prove assolutamente inutilizzabili,
perché acquisite per mezzo di una attività illecita e pure nelle
ipotesi in cui, come nella specie - proprio per la totale inutilizzabilità
delle prove - non è configurabile il fumus di alcun reato e presumibilmente
non si potrà mai giungere ad una pronuncia di condanna, il divieto di
restituzione potrebbe tutt'al più riguardare le sole cose la cui detenzione
costituisce reato, ossia i dischetti, CD ROM, o altri supporti magnetici che
concretamente contengono immagini o filmanti pedopornografici ma non anche tutto
il restante materiale illegittimamente sequestrato all'indagato.
Né potrebbe ritenersi che il sequestro possa trovare giustificazione
in base alla considerazione che si tratta di corpo del reato. E ciò,
a prescindere da ogni altra considerazione, perché, come esattamente
rilevato dall'ordinanza impugnata, non essendo assolutamente utilizzabili i
risultati delle indagini illegittimamente svolte, nella specie non è
ravvisabile il fumus di alcun reato e quindi nemmeno la presenza di alcun corpo
del reato.
- Il ricorso deve pertanto essere respinto.
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
rigetta il ricorso.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte Suprema di Cassazione, l'8
maggio 2003.
L’estensore
Dott. Amedeo Franco
Il Presidente
Dott. Giuseppe Savignano
Depositato il 21.10.2003