Penale.it

Google  

Penale.it - Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, Pres. est. Bonsignore, Ordinanza 12 gennaio 2006

 La newsletter
   gratis via e-mail

 Annunci Legali




Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, Pres. est. Bonsignore, Ordinanza 12 gennaio 2006
Condividi su Facebook

Versione per la stampa

Ancora sulla L.251/2005 (c.d. ex - Cirielli). La nuova disciplina delle misure alternative alla detenzione, ed in particolare le fattispecie impeditive formulate dall’art. 7, entrate in vigore nel tempo intercorso fra la proposizione dell’istanza e la decisione, non possono trovare applicazione ai fini della concessione della misura. La recidiva deve comunque considerarsi "applicata" ai sensi della L. 251/2005 non solo qualora abbia determinato in concreto un aumento della pena, ma anche quando sia stata utilizzata nel giudizio di comparazione.

TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA DI CAGLIARI Il Tribunale di Sorveglianza di Cagliari, riunito in camera di consiglio nelle persone di Dott.Leonardo Bonsignore Presidente Dott.Paolo Cossu Magistrato di Sorveglianza Esperto Esperto nel procedimento di sorveglianza avente ad oggetto l'istanza di applicazione della misura alternativa dell'affidamento in prova al servizio sociale ai sensi dell’art.47 ord. pen.; proposta da **********, nato ad ********* il ******** condannato alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione di cui alla sentenza del Tribunale di Cagliari, Sez. di Sanluri del 12 aprile 2005. esaminati gli atti e udite le conclusioni del Pubblico Ministero e della Difesa; a scioglimento della riserva di cui al verbale dell’udienza del_12 gennaio 2005 ha emesso la seguente ORDINANZA **********, condannato il 12 aprile 2005 con sentenza del Tribunale di Cagliari, Sezione distaccata di Sanluri, alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione, con la recidiva specifica reiterata, per aver, al fine di procurarsi un profitto, ricevuto centonovantaquattro libri giuridici provento di furto subito in ******** in data 12 marzo 1999 da *********** ( reato commesso in ***************- in data antecedente e prossima all’11.6.1999) – condanna il cui Ordine di esecuzione era sospeso il 28.6.2005 a’ sensi del comma 5 dell’art. 656 cpp - il il 22 luglio 2005 presentava istanza di affidamento in prova al servizio sociale, a’ sensi dell’art. 47 L. 26 luglio 1975 n. 354, ed, in subordine, di detenzione domiciliare, a sensi dell’art. 47 ter della stessa legge. Non avendo dedotto ulteriori specificazioni, doveva intendersi che l’istanza subordinata fosse proposta a’ sensi del comma 1 bis dell’art. 47. Deve preliminarmente decidersi sull’ammissibilità dell’istanza, sia principale che subordinata, poichè dopo la presentazione delle stessa, ma prima dell’odierna udienza, è entrata in vigore ( l’otto dicembre 2005) la legge 5 dicembre 2005 n. 251, che preclude al recidivo reiterato l’accesso alla detenzione domiciliare prevista dal comma 1 bis dell’art. 47 ter della L. 26 luglio 1975 n. 354 ( art. 7 comma 4 L. 251/2005) ed alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale nell’ipotesi che l’istante ne abbia già per una volta usufruito ( art. 7 coma 7 della legge) ed il**********, dichiarato recidivo reiterato nella sentenza che costituisce il titolo in esecuzione, ha già usufruito per due volte, come risulta dal certificato del casellario, della misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. Poiché dalla lettura della sentenza si apprende che la recidiva, ritualmente contestata, è stata dal Giudice sottoposta al giudizio di comparazione con le concesse attenuanti generiche, e ritenuta a queste equivalente, deve in primo luogo interpretarsi il significato del participio passato “ applicata”, utilizzato dalla legge con riferimento alla recidiva, sia nell’ipotesi del comma 4 che in quella del comma 7 dell’art. 7 della Legge. Deve, infatti, decidersi se il termine faccia riferimento alla recidiva comunque contestata, oppure a quella comunque valutata, anche se nell’ambito di un giudizio di comparazione che la abbia vista equivalente o soccombente rispetto alle attenuanti, o, infine, solo a quella che abbia causato un aumento della pena determinata in concreto sulla fattispecie semplice. Può, in primo luogo, pacificamente escludersi la prima delle tre ipotesi sopra richiamate, non solo perché, a quei fini, sarebbe stato agevole esprimere il risultato voluto utilizzando l’aggettivato “ contestata” invece di quello “applicata”, ma anche perché, secondo l’orientamento costante della giurisprudenza ( v. per tutte Cass. Sez. I Ord. N. 10425 del 2.2.2005, Esposito – Rv 231209 -) la recidiva non costituisce uno status del condannato deducibile dal certificato del Casellario o da altre informazioni attinenti alla vita anteatta, ma è una circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, che in tanto può assumere rilevanza, in quanto risulti riconosciuta ed affermata in una sentenza. La mera contestazione della stessa, dunque, non seguita da un riconoscimento giudiziale, non è sufficiente, come accade per ogni altra circostanza aggravante, a conferirle giuridica esistenza fuori dal processo. Eguale conclusione deve raggiungersi per quella recidiva, ritualmente contestata, che il Giudice, nell’esercizio della facoltà concessagli dall’art. 99 CP ( ad esclusione dell’ipotesi di recidiva obbligatoria prevista da comma 5 dell’art. 99, così come novellato dall’art.4 della legge 251) decida di non considerare. Ma proprio dalla richiamata impostazione giurisprudenziale si deduce, con riferimento alle ulteriori due ipotesi sopra formulate, che non solo la recidiva che abbia determinato in concreto un aumento della pena, ma anche quella che sia stata comunque utilizzata nel giudizio di comparazione conclusosi con giudizi di equivalenza o di prevalenza delle attenuanti, debba ritenersi comunque affermata dalla sentenza, e dunque, per così dire “ applicata”. Infatti, solo dopo che sia stata assegnata alla stessa una giuridica rilevanza, mediante la sua qualificazione in termini di aggravante, essa può essere inserita in un giudizio di comparazione che, senza di quella, sarebbe stato diverso. Sulla scorta di una non recente ma sempre attuale pronuncia della Cassazione ( Cass. Sez. I 2.1.1987 n. 6, Prestipino, Rv 175084) può dunque ritenersi che, nelle ipotesi di recidiva sottoposta a giudizio di comparazione nel quale la stessa non sia stata giudicata prevalente, sia stato neutralizzato il suo principale effetto di influire sull’entità della pena, ma continui a produrre gli altri effetti attribuitile dalla legge ( sul punto, v. oltre). Deve dunque ritenersi che, avendo nella specie il Giudice tenuto conto della recidiva nel giudizio di comparazione, la recidiva stessa sia stata “ applicata” nel senso voluto dall’art. 7 della Legge 251 citata. * Deve ora decidersi se le fattispecie impeditive formulate dall’art. 7 della legge 251/2005, entrate in vigore nel tempo intercorso fra la proposizione dell’istanza e l’attuale decisione, debbano avere o meno applicazione nel presente procedimento. E’ stata in proposito formulata l’opinione che le fattispecie definite dall’art. 7 della legge, sopra richiamate, non integrino un’ipotesi normativa nuova rispetto alla previgente formulazione dell’art. 99 comma IV del CP( e dunque regolabile secondo il dettato dell’art. 11 delle Preleggi, e dall’art. 2 del CP) ma definiscano una fattispecie con quella in rapporto di mera specialità, poiché ritagliano un’ipotesi ( tre delitti non colposi) già compresi in quella più ampia prima prevista ( tre reati). Dovrebbe conseguentemente il Giudice analizzare la motivazione della sentenza pronunciata prima dell’entrata in vigore della L. 251 costituente il titolo esecutivo, ed applicare la preclusione introdotta dall’art. 7 citato tutte le volte che quel Giudice abbia “ applicato” la recidiva fondandola sulla reiterazione di tre delitti non colposi, non applicandola negli altri casi. Ma tale opinione non può essere seguita. Il rapporto, eventuale, di specialità, per specificazione, corre, propriamente, fra l’art. 99 comma IV, così come formulato dall’art.4 della L. 251 e la formulazione previgente dell’art. 99 CP. Ma l’art. 7 della Legge introduce, oltre agli elementi specializzanti dell’art. 99 comma IV previgente ( richiamati con rinvio recettizio all’art. 4, comma 1 dello stesso testo) un quid novi, costituito, appunto dall’effetto preclusivo, che non era in alcun modo rilevabile nell’art. 99 antecedente all’ultima modifica, né in alcun altra norma coeva. Ne segue che, ove si seguisse quell’opinione, accadrebbe che, a carico del condannato a cui fosse stata “ applicata” la recidiva reiterata, secondo la vecchia edizione, si applicherebbe, se giudicato in executivis dopo l’8 dicembre 2005, un evento per lui pregiudizievole. – costituito appunto dall’effetto preclusivo che si è detto – che non era previsto da alcuna norma all’epoca del giudizio, e che dunque non può essere posto a suo carico. La novità di tale disciplina suggerisce l’opportunità di ulteriori approfondimenti, specie con riferimento all’esigenza di individuare la regola temporale della sua applicabilità. * Le due fattispecie preclusive individuate dall’art. 7 L. 251, sopra richiamate, hanno, a ben vedere, una struttura complessa. Per un verso, infatti, esse sono costituite, in conseguenza di un’espropriazione del potere discrezionale del Tribunale di Sorveglianza di giudicare nel merito - secondo le indicazioni fornite, con disposizione di carattere generale per tutte le misure alternative, dai commi 2 e 3 dell’art. 47 L- 26.7.1975 n.354 - da una presunzione di legge negativa in ordine alla possibilità di riabilitazione e di pericolosità sociale, ancorata alla sussistenza di indici rilevabili formalmente ( la recidiva reiterata “ applicata” nel senso detto) ed anticipata nella fase preliminare del procedimento di Sorveglianza. A tale struttura la norma collega, con i connotati propri dell’inammissibilità, l’effetto preclusivo rispetto al diritto d’azione di richiedere una misura alternativa altrimenti presente nel corredo della complessiva situazione giuridica dei condannati. E tale aspetto della normativa appartiene, a pieno titolo, ed in maniera esclusiva, alla normazione propria della Sorveglianza, e dunque delle misure alternative alla detenzione. Ma, per altro verso, il contenuto negativo di quella presunzione non è deducibile, in maniera autonoma, da elementi ricavabili nel procedimento di sorveglianza, come potrebbe essere se la recidiva si deducesse dal certificato del Casellario, dalla mera conoscenza dell’esistenza di più titoli, o da altra idonea documentazione ufficiale. Al contrario, essa si deduce da un evento maturato nella fase del giudizio, che è costituito dalla pronuncia relativa alla recidiva reiterata ivi “ applicata”. Va precisato che, anche in quella sede, essa non discende dalla mera presa d’atto di una reiterazione di tre delitti non colposi, ma consegue ad una valutazione del giudice che, sulla base di quel dato oggettivo, esplica tuttavia un giudizio discrezionale, nel quale decide, dapprima, di non disapplicare la recidiva facoltativa, e poi di sottoporre quella triplice reiterazione ad un giudizio che prima riconosce in essa un indizio di pericolosità sociale significativo in ordine alle circostanze del caso concreto, e poi la sottopone ad un complessivo giudizio in ordine alla determinazione della pena. La pronuncia sulla recidiva dunque non è costituita dalla semplice presa d’atto di una triplice violazione – che sarebbe come tale rilevabile allo stesso modo anche in executivis -, ma da un più complesso e discrezionale giudizio, esclusivamente appartenente alla fase della cognizione, che, sulla base di quel dato, enuclea la sussistenza di un concreto indizio di pericolosità sociale dell’imputato in relazione al fatto concreto, e le sue conseguenze sulla determinazione dell’entità della pena. Il fenomeno dunque non si compie, come in ipotesi apparentemente analoghe ( v. Cass. Sez. I 5.7.1994 citata oltre) esclusivamente nell’ambito del procedimento esecutivo. La fase finale, che ne costituisce l’esito nel procedimento esecutivo, è connessa ad un presupposto che matura nell’antecedente fase del giudizio di cognizione, e che si consolida nel giudicato. Il collegamento fra le due fasi è costruito, nell’architettura delineata dall’art. 7 della L. 251, secondo un rapporto di mera consequenzialità. Dalle dichiarazione di recidiva reiterata discende, come mera ed automatica conseguenza, la preclusione nei termini sopra descritti. L’apparato normativo “ di base”, di cui prima s’è detto, appartenente in via esclusiva alle norme sulla sorveglianza, si pone in funzione servente rispetto al particolare giudizio di pericolosità ( in concreto) elaborato dal Giudice della cognizione, ed operando la preclusione alle istanze di misure alternative, completa il disegno di politica criminale voluto dal Legislatore, entrando a far parte del complessivo effetto sanzionatorio ricollegato dalla norma a quella specifica circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole che è la recidiva reiterata. Il fenomeno non è nuovo nell’ordinamento. Accadimento di analoga struttura è definito dall’art. 164 comma 2 n. 1 del CP, che espropria il potere discrezionale del Giudice in ordine alla valutazione circa la possibile futura astensione del colpevole dal commettere ulteriori reati, e lo sostituisce con una presunzione negativa di pericolosità sociale con riferimento a chi abbia riportato una precedente condanna a pena detentiva per delitto. A tale fattispecie la norma ricollega, in termini di pura consequenzialità, la preclusione rispetto alla sospensione condizionale della pena. Di struttura addirittura eguale appare la fattispecie, operante nell’esecuzione, definita dall’art. 179 comma 2 CP, che sposta il termine d’ammissibilità della domanda di riabilitazione da tre ad otto anni “ se si tratta di recidivi nei casi preveduti dai capoversi dell’art. 99.». Anche in tal caso infatti, il potere discrezionale del Giudice della riabilitazione, che debba giudicare sulla domanda di riabilitazione del recidivo proposta fra il terzo e l’ottavo anno dall’estinzione della pena principale, è espropriato e sostituito da una presunzione negativa ricollegata ope legis alla recidiva qualificata. Anche in tal caso, l’evento preclusivo è una mera conseguenza dell’ ” applicazione” della recidiva. Poiché tali eventi si traducono in conseguenze afflittive, operanti ope legis, di una sentenza penale di condanna, diverse dalle pene principali, da quelle accessorie, dalle misure di sicurezza, esse sono ordinariamente considerate, da dottrina e giurisprudenza pressoché concordi, come effetti penali della condanna. La struttura e la funzione delle preclusioni introdotte nell’Ordinamento dalla L. 251, identiche a quelle delle due fattispecie sopra esaminate, inducono a concludere per un’identità di natura. Alle stesse deve dunque attribuirsi la stessa identità di effetti penali della condanna. L’inclusione di tali istituti nel novero delle norme di natura sostanziale, in ragione del loro contenuto afflittivo inerente alla disciplina delle circostanze aggravanti, è com’è noto, fuor di dubbio. * La legge n. 251 dunque, nelle parti esaminate, introduce nell’Ordinamento un effetto penale della condanna, specificatamente ricollegato all’ “ applicazione “ della recidiva, che prima non esisteva. Le norme sono dunque nuove. Ma l’ambito di applicazione della nuova normativa, poiché questa disciplina un effetto penale della sentenza di condanna , è circoscritto al momento della cognizione. In questa sede potrà, eventualmente, sorgere una questione relativa alla successione delle norme nel tempo, e, dunque, attinente a quale disciplina applicare ( se quella vigente al momento del fatto, o quella della contestazione, o della sentenza, o quella riferibile ad altro termine). E vi sarà dunque spazio per l’eventuale applicazione anche del comma 3 dell’art. 2 CP. Ma, per quel che attiene all’esecuzione, e, più specificatamente, alle questioni che devono essere oggi decise,l’evento decisivo sarà quello del giudicato, e del suo contenuto, comprensivo o meno dello specifico effetto attribuito dalla L. 251 alla recidiva reiterata. Gli effetti di quel giudicato poi, per la parte che attiene alla recidiva reiterata, si riverseranno, ope legis, e dunque senza alcuna questione di diritto transitorio, sull’esecuzione. Per riconoscere dunque nella fase dell’esecuzione quell’effetto, dovrà attendersi che si formi il corrispondente giudicato alla luce anche di tale nuova normativa. Assumeranno cioè rilevanza solo quelle sentenze, passate in giudicato, pronunciate dopo l’8 dicembre 2005, che avranno avuto la possibilità di applicare la nuova normativa dettata dalla L. 251 del 2005. La sentenza che costituisce l’attuale titolo esecutivo, formatasi in epoca antecedente all’entrata in vigore della L. 251, che non ha dunque potuto includere nel suo giudicato l’effetto penale di cui trattasi, non ne può proiettare sull’esecuzione che costituisce oggetto del presente giudizio l’effetto corrispondente, e libera l’attuale giudizio da quella preclusione. * L’istituto, di natura sostanziale, ha effetti anche processuali, costituiti dalla preclusione all’esercizio dell’azione diretta a promuovere il procedimento di sorveglianza. Non ignora il Collegio l’opinione che, prendendo lo spunto da alcune pronunce della Corte Costituzionale ( C.Cost.349/93, C.Cost. 504/95, C.Cost. 343/87 ), e da alcune decisioni della Corte di Cassazione in materia di prescrizioni nell’affidamento in prova ( Cass. Sez. I 23.11.2001 n. 407 – Rv 220438 e Cass. Sez. I 23.11.2001, n. 410 Contin – Rv 220439) sostiene con importanti ragioni, ma discostandosi dall’orientamento giurisprudenziale prevalente ( v. per tutte Cass. Sez. I 12.12.2000 n. 11255, Biolzi Rv 218300), che nell’ambito delle norme che disciplinano le modalità, anche alternative dell’esecuzione della pena possono distinguersi norme di natura sostanziale ( quelle che, modificando quantitativamente o qualitativamente le pene inflitte, incidono sulla sfera di libertà del condannato) da altre di natura processuale, (che rispondono solo ad esigenze funzionali del procedimento esecutivo). Né possono trascurarsi le ragioni scaturenti dalla differenza fra l’inammissibilità ( a cui sembra più propriamente rifarsi l’istituto in esame) e l’improcedibilità. Ma deve ritenersi che, anche per coloro che seguono tale orientamento, sembra difficile escludere che quanto meno il risultato della preclusione di cui si è detto –per la sua funzione impeditiva dell’inizio del procedimento di Sorveglianza - operi anche sul piano del processo. Tuttavia, tale rilievo non può valere, come si ricava anche dalla disciplina degli analoghi istituti della sospensione condizionale della pena, e della riabilitazione, prima richiamati, ad attrarre l’intero istituto nell’ambito delle norme processuali, perché così facendo si trascurerebbe la rilevanza della sua parte prevalente, che ha natura sostanziale, perché appartenente al complessivo corredo afflittivo assegnato dalla norma alla circostanza aggravante della recidiva. Né potrebbe utilizzarsi l’appartenenza del richiamato effetto preclusivo al novero delle norme processuali per pretendere di applicarlo separatamente, autonomamente ed immediatamente, secondo la regola del tempus regit actum. Tale operazione presupporrebbe infatti la necessità di frantumare l’unitarietà della fattispecie complessa sopra indagata, senza tener conto dell’ineliminabile collegamento dell’effetto processuale con la preminente parte sostanziale, che ne costituisce la ragion d’essere. L’immediata applicazione della parte processuale senza il necessario rapporto con quella sostanziale entrerebbe infatti in collisione con il precetto dell’art. 25, comma 2 Cost. e, conseguentemente, dell’art. 2 comma I C.P, il cui ambito di applicazione non è limitato, com’è noto, alle sole pene, principali ed accessorie, ed alle misure di sicurezza, ma anche agli effetti penali della condanna, e, più in generale, ad ogni evento aflfittivo, comunque conseguente alla sentenza di condanna. Sembra, dunque, di essere al cospetto di un istituto di natura mista, di natura cioè sostanziale con effetti ( anche) processuali. La razionalizzazione di tale accadimento sembra potersi raggiungere alla luce di quella giurisprudenza ( v. Cass. Sez. I 5.6.2000 n. 7385. Hasani – Rv 216255) che, anche di fronte ad istituti di natura mista ( ad es. applicazione della pena su richiesta delle parti, che incide sulla pena – e dunque partecipa delle norme sostanziali - ma determina importanti conseguenze sul rito – ed appartiene, per tale aspetto, alle norme di natura processuale) suggerisce di dare rilevanza, in rapporto alle questioni attinenti all’ individuazione della loro appartenenza all’ambito processuale od a quello sostanziale, alla loro natura prevalente, con la conseguenza di sottoporre l’istituto, per intero, alla disciplina corrispondente. Applicando questa regola al caso in esame, deve, come del resto si fa da tempo immemorabile, e pacificamente, in relazione agli analoghi istituti, più volte richiamati, degli artt. 164 e 179 CP, riconoscersi la sua appartenenza, in toto, all’ambito delle norme sostanziali, in ragione della sua natura di effetto penale, costituente un esito afflittivo disciplinato dalle norme che regolano le circostanze aggravanti. La consequenziale incidenza sul procedimento esecutivo dovrà essere poi disciplinata secondo la regola di consequenzialità ope legis propria del procedimento ordinariamente predisposto per gli effetti penali. Le istanze del condannato sono dunque ammissibili. * [omissis] P.Q.M. visti gli artt. 47 L. 26 luglio 1975, n. 354, 678 c.p.p.; AFFIDA ********** in prova all’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna di *********** in relazione alla pena indicata in epigrafe con effetto dalla data di sottoscrizione delle prescrizioni di cui all’allegato verbale. Ordina la comunicazione di copia della presente ordinanza al P.re della Repubblica di Cagliari, competente per l'esecuzione della pena detentiva, ed al Magistrato di Sorveglianza di Cagliari competente per l'esecuzione dell'affidamento. Cagliari, 12 gennaio 2006 IL PRESIDENTE Est. Dott.Leonardo Bonsignore

 
© Copyright Penale.it - SLM 1999-2012. Tutti i diritti riservati salva diversa licenza. Note legali  Privacy policy