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Antonietta Confalonieri, Limiti all’appellabilità delle sentenze e coerenza del sistema processuale alla luce dei principi e degli obblighi internazionali
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La "Pecorella-bis" vista nella prospettiva del diritto comparato ed internazionale

(*) SOMMARIO: 1) Introduzione. – 2) Il modello accusatorio inglese. – 3) Il processo inquisitorio-misto francese. 4) L’art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’ Uomo. – 5) segue: l’ègalité des armes. – 6) segue: il Protocollo n. 7 CEDU. – 7) segue: la “durata ragionevole” del procedimento. – 8) La tutela della “vittima”. – 8) Riflessioni finali.
 
1. Introduzione.
Se la validità di una legge potesse stabilirsi con riferimento al numero delle persone cui è applicabile, potremmo dire che i principi enunciati nella legge n. 46/2006 sono validissimi. Nel mondo, in verità, vi sono  milioni di cittadini che vengono giudicati con un sistema processuale che non ammette l’appello della sentenza di proscioglimento: milioni di cittadini che abitano negli Stati Uniti, e non solo. E’ noto, infatti, come la tradizione processuale soprattutto nord americana escluda per il P.M. la possibilità di presentare l’appello nei confronti delle decisioni di proscioglimento dell’imputato.
A prescindere da un’analisi dell’ ordinamento americano, al quale spesso il legislatore italiano si rapporta tendendo ad acquisirne alcuni canoni (come ad esempio quello indicato nella legge in esame del giudizio “oltre ogni ragionevole dubbio”), è di tutta evidenza come il ragionamento giuridico - anche in una prospettiva comparatistica - debba seguire un altro percorso.
Una indagine circa la coerenza del sistema processuale pretende, innanzitutto, un approfondimento del nesso tra la forma del modello di processo penale (inquisitorio/accusatorio) e l’istituto delle impugnazioni. In astratto, nessuno dei due modelli classici tollera la previsione di un meccanismo di controllo : la esclude il sistema inquisitorio e la ignora quello accusatorio (imperniato sui cardini fondamentali della oralità e del contraddittorio nella formazione della prova), mentre la subisce - quasi quale compromesso – lo schema di tipo inquisitorio-misto (dove la reiterazione dei controlli tende a mitigare il tasso di inquisitorietà). Bisogna, tuttavia, riconoscere come in tal caso ci si trovi di fronte ad un sistema convenzionale poiché niente assicura che la nuova decisione sia migliore di quella impugnata; insomma, non esiste nessuna garanzia che il secondo grado di giudizio sia migliore del primo.
E’ presto detto, ne ritroviamo la prova negli impianti processuali più conosciuti del contesto europeo: la FRANCIA, ancora “illuminata” dai riflessi del codice napoleonico  e l’ INGHILTERRA, emblema del Common law.
 
2. Il modello accusatorio inglese.
Nel rinviare ad altra sede l’approfondimento circa le fonti e i principi fondamentali del suo apparato giudiziario, basti ricordare che l’Inghilterra adotta il classico esempio di un modello accusatorio per così dire “puro”, alquanto immune dalle contaminazioni connesse alle evoluzioni in atto.
Val la pena di accennare a due dei punti cardine.
Il primo riguarda l’ufficio del pubblico ministero che, di recente creazione (Prosecution of offens Act 1985), appare organizzato secondo una struttura gerarchica e le funzioni dei membri del Crown Prosecution Service possono essere esercitate da barristers o da solicitors [1]; ciononostante, diversamente dalla nostra concezione, non risulta essere il dominus dell’azione penale che, invece, viene esercitata dalla polizia al termine della ricerca delle prove, secondo il principio della discrezionalità della azione stessa. I criteri per gestirne la “opportunità” sono fissati in una circolare, che impone quale unico limite quello di “non agire in modo sconsiderato”. In secondo luogo, va evidenziato che nel processo penale non è consentita la costituzione di parte civile per ottenere il risarcimento del danno, sebbene venga riconosciuto alla vittima e al quivis de populo (ad esempio tramite le associazioni) il potere di investire direttamente la giurisdizione in caso di inerzia della polizia.
Per quanto attiene il nostro campo di indagine, deve constatarsi che nell’ordinamento processuale penale inglese vige il principio della intangibilità del giudicato assolutorio di primo grado. Ciò significa che le sentenze assolutorie chiudono definitivamente la vicenda processuale, con l’unica eccezione concernente l’imputato prosciolto per infermità mentale, al quale è riconosciuto il diritto di proporre impugnazione; di conseguenza il pubblico ministero non ha - e non ha mai avuto neanche in passato - il diritto di impugnare le sentenze che assolvono l’imputato nel giudizio ordinario [2].
L’ impugnazione è una prerogativa del condannato (par. 108-110 Magistrates’ Court Act 1980) che può contestare sia il merito della decisione (“convinction”, cioè l’affermazione di colpevolezza, anche in caso di confessione) sia la entità della pena inflitta (“sentence”), con riferimento ai provvedimenti di condanna emessi da entrambi gli organi giurisdizionali di primo grado (la Magistrates’ Court e la Crown Court [3]). Nell’ipotesi in cui venga contestato un provvedimento emesso dalla Crown Court, l’appello viene considerato ammissibile soltanto a fronte del requisito – recentemente codificato (1995) – della “safety of the convinction” cioè solo se “la condanna è ingiusta”.
Il giudizio di appello instaurato dal condannato non conosce limiti: un nuovo giudizio orale, che consente l’ assunzione della prova in contraddittorio (sia quella già acquisita sia le prove nuove e/o sopravvenute) privo di limitazioni alla sfera cognitiva derivanti dall’atto introduttivo e senza divieto di reformatio in peius . Nel secondo giudizio si osservano le norme relative al procedimento del 1° grado (rispettivamente quelle vigenti per la Magistrates’ Court ovvero per la Crown Court [4] ) in quanto applicabili; perciò, la Corte di appello ha gli stessi poteri del primo giudice e le parti fruiscono di identici oneri e facoltà (Crown Court’s Rules 1982).
Per introdurre un temperamento equitativo al principio della intangibilità del proscioglimento, il paragrafo 36 del Criminal Justice act 1972 ha previsto che, in caso di assoluzione dell’imputato, l’Attorney General (Procuratore Generale) possa adire la Court of Appel per ottenere una interpretazione su una questione in punto di diritto. La decisione così ottenuta, tuttavia, non incide sul giudicato di primo grado, ma concorre a formare un orientamento giurisprudenziale per i casi futuri [5].
E’ previsto anche il ricorso alla High Court per errores in procedendo e vitia in giudicando, che può essere proposto sia dal condannato che dal P.m. avverso la sentenza della Magistrates’ Court  emessa in difetto di giurisdizione o competenza o con inosservanza delle norme processuali.
Infine, deve evidenziarsi come al Procuratore Generale si riconosciuta la facoltà di impugnare le sentenze di condanna emesse con rito ordinario dalla Crown Court per ottenere l’irrogazione di una pena più severa (art. 35 Criminal Justice Act 1988 ). In accoglimento dell’appello, la Corte può annullare la sentenza di primo grado e sostituirla con una più severa a carico dell’imputato.
In conclusione, coerentemente con i principi del modello accusatorio si consente una seconda chance soltanto in caso di condanna, garantendo la celebrazione di un nuovo e completo giudizio nel contraddittorio delle parti. La sentenza di assoluzione, invece, chiude definitivamente il processo [6].
 
3. Il processo inquisitorio-misto francese.
Il processo penale francese, di impronta napoleonica, ha mantenuto le caratteristiche del modello inquisitorio, secondo uno schema ormai definito misto in quanto sono previsti ampi spazi per il contraddittorio tra le parti, collocate su basi di parità, non solo nel momento del dibattimento, ma anche nella fase antecedente.
Il c.d. parquet, cioè l’Ufficio della pubblica accusa, è strutturato in modo gerarchico, con al vertice il Ministro della Giustizia cui è affidato il preciso obiettivo di assicurare la coerenza dell’action publique [7]. Come può evincersi dall’ art. 30 c.p.p., recentemente novellato, il Ministro della Giustizia “dirige la politica dell’azione penale determinata dal Governo e vigila sulla omogeneità della sua applicazione sul territorio francese; a questo fine egli indirizza ai magistrati del parquet  delle istruzioni generali per l’azione penale” [8]. E’ certo che l’intervento del Ministro può essere soltanto nel senso di sollecitare l’esercizio dell’azione penale e mai di imporre l’archiviazione [9]. La azione penale viene, pertanto, esercitata dal Pubblico Ministero secondo il principio di “opportunité”, in un contesto in cui a fronte dell’inerzia il meccanismo processuale può essere attivato dalla persona offesa e dal danneggiato dal reato mediante la c.d. “denuncia con costituzione di parte civile”.
L’impianto processuale prevede un sistema completo di impugnazioni distinguendo tra quelle che comportano un riesame da parte delle stesso giudice della decisione resa in  contraddittorio (es la c.d. “purgazione della contumacia”, che pretende un nuovo giudizio di primo grado) e quelle che consentono la devoluzione al giudice di grado superiore (appello e cassazione).
Il codice prevede la possibilità di presentare l’appello avverso ogni sentenza resa « en matiere correctionnelle » (art. 496 c.p.p.). Tale facoltà è riconosciuta ad ogni parte processuale, fermo restando che la parte civile e il responsabile civile possono coltivare soltanto gli interessi-aspetti civilistici (art. 498 c.p.p.).  Il secondo giudizio così instaurato si svolge in modo cartolare con le limitazioni connesse al devolutum ; insomma, secondo canoni a noi noti.
Appare, invece, interessante cogliere le recenti novità introdotte nelle regole della Corte d’assise. Nel rispetto della impronta fortemente inquisitoria, il giudizio proveniente dalla giuria popolare (jury) della Corte d’assise non ammetteva impugnazione sino a poco tempo addietro. Era previsto soltanto l’ art. 572 c.p.p. a norma del quale « le sentenze di assoluzione pronunciate dalla Corte di Assise possono essere oggetto di un ricorso per cassazione « nell’interesse della legge », senza tuttavia provocare alcun pregiudizio alla parte assolta [10].
Con una importante e completa riforma dell’impianto codicistico il legislatore francese del 2000 [11], tra l’altro, ha aperto la strada alla fase dell’appello introducendo nel processo penale un secondo grado di giudizio “en matière criminelle”. E’ stato così inserito il nuovo testo dell’ articolo 380-1 c.p.p. secondo il quale « Les arrêts de condamnation rendus par la cour d’assises en premier ressort peuvent faire l’objet d’un appel dans les conditions prévues par le présent chapitre (...). »
Fermo restando un divieto di reformatio in peius al termine del secondo giudizio di merito (art. 380-3 c.p.p.).
L’intenzione del legislatore era quella di concedere una seconda « chance » ai condannati [12], mentre rimaneva fermo il principio della inoppugnabilità della decisione di assoluzione [13]
La regola è stata, tuttavia, modificata immediatamente dopo, con la Loi du 4 mars 2002 complétant la loi du 15 juin 2000, nella cui relazione vengono indicate quali motivazioni del cambiamento la esigenza di evitare gli errori giudiziari e così la necessità di mettere fine al principio di infallibilità della giuria popolare (jury). E’ stato, testualmente, ritenuto che “da un punto di vista giuridico questa impossibilità per il Parquet di appellare le sentenze di assoluzione pare difficilmente compatibile con il principio della parità delle armi assicurato dalla Convenzione Europea a beneficio della difesa, ma anche del P.M.[14]”. Per questa ragione è stato modificato l’art. 380-2 c.p.p. attribuendo al solo Procuratore generale la facoltà di impugnare le sentenze di assoluzione della Corte di Assise [15], anche per garantire la omogeneità della politica criminale sull’intero territorio nazionale.
In sintesi, nell’ approntare una modifica al sistema delle impugnazioni il legislatore francese ha invocato la necessità di garantire i diritti consacrati nella Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, rimarcando così il vincolo con il “procés équitable” (art. 6 CEDU) a prescindere dello schema tipico del modello processuale adottato.
 
4. L’ art. 6 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’ Uomo.
Indipendentemente dalla qualifica che viene conferita all’impianto processuale, vale a dire del tipo di modello prescelto, ciò che rileva è che il processo celebrato sia  “equitable” nel senso indicato dalla giurisprudenza di Strasburgo. La Convention européenne des Droits de l’Homme (Cedu)  ha, invero, il fine di stabilire uno standard minimo di garanzie a salvaguardia dei diritti dell’uomo a prescindere dalle peculiarità di ogni sistema processuale.
Nel lungo periodo di attività la Corte di Strasburgo ha elaborato in materia penale una copiosa giurisprudenza, sino a configurare una sorta di corpus iuris utile per comprendere meglio le garanzie fondamentali assicurate dalla Convenzione che, globalmente considerate, possono riportarsi all’idea-forza della “buona amministrazione della giustizia”, secondo la ormai usuale affermazione dei giudici europei [16].
La condizione di accusato è il presupposto per il godimento delle garanzie ad essa connesse che si riassumono nel diritto al processo equo, rapportato ad un quid che assuma la fisionomia e consistenza di una “accusa”che segna la priorità rispetto ad una serie di diritti nel processo. Tale condizione permane dal canto suo anche in relazione ad eventuali sviluppi della procedura ([17]), che possano essere innescati mediante impugnazioni ([18]), sino al momento in cui l’assoluzione o la condanna debbano considerarsi definitive [19] .
Le ragioni che hanno indotto alla trasposizione del plafond dell’art. 6 all’interno della Carta costituzionale italiana sono ormai note, ma sembra essere passato inosservato l’insegnamento giurisprudenziale che vuole che il contenuto dell’ art. 6 CEDU non possa essere interpretato in senso restrittivo [20]. A dir del vero, infatti, solitamente prevale una attività ermeneutica che prospetta una lettura della Convenzione per così dire tutta italiana.
 
5. segue : L’ égalitè des armes.  
Per sviluppare seppur sinteticamente il concetto intrinseco nel diritto alla “égalitè des armes “ occorre prendere le mosse dal riconoscimento del diritto della “presunzione di innocenza” dell’accusato, che di fatto si traduce, tra l’altro, nell’onere della prova posto a carico della Pubblica accusa. Ne consegue che il processo penale è caratterizzato da una strutturale e fondamentale ineguaglianza tra le parti; poiché al suo interno si realizza una evidente posizione privilegiata della pubblica accusa per cui si impone l’exigence de l’égalité des armes au sens d’un juste équilibre entre les parties  [21].
E’ palese come il concetto di “giusto equilibrio” - che “vaut en principe aussi bien au civil qu’au pénal” - non comporta necessariamente il riconoscimento di eguali poteri, ma come riconosciuto nella giurisprudenza della Corte che delinea in modo assolutamente chiaro la portata del diritto, l’ égalité des armes implica l’obbligo di offrire ad ogni parte la concreta possibilità di esporre la propria difesa in condizioni che non siano di netto svantaggio rispetto all’avversario [22].
Da qui, la copiosa giurisprudenza di Strasburgo che sintetizza il diritto nell’imprescindibile scambio di conoscenza dei dati a disposizione della controparte; insomma, soprattutto, una situazione di uguale cognizione delle carte processuali [23].
Nella immediatezza della entrata in vigore della legge n. 46/2006 si è dubitato della sua legittimità costituzionale per la violazione della “condizione di parità” delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale (111, 2° Cost.), data la privazione del P.M. del diritto ad un secondo grado di giudizio (posto che non può presentare appello avverso le sentenze di assoluzione); diritto riconosciuto, invece, all’imputato che può appellare le sentenze di condanna.
L’invocazione della norma costituzionale che ha cristallizzato le garanzie del “proces equitable” implicitamente rinvia al significato elaborato dalla giurisprudenza di Strasburgo.
Occorre allora procedere con ordine, partendo dal dato inconfutabile per cui è ovvio che la “condizione di parità” non comporta sempre e necessariamente una identità assoluta e simmetrica di strumenti,  da modulare viceversa in ragione della intrinseca diversità delle funzioni processuali [24]. In secondo luogo, è palese la sostanziale differenza esistente tra il provvedimento di assoluzione e quello di condanna: le situazioni connesse non sono assolutamente omogenee. Infine, in virtù della “parità delle parti” si vorrebbe pretendere di garantire al pubblico ministero – secondo un potere discrezionale – il diritto ad un secondo grado di giudizio per ottenere quella condanna che non ha ottenuto dal primo giudice.
Orbene, questo richiamo del principio di “parità delle parti” ha una impronta essenzialmente italiana perché non è questo il concetto racchiuso nell’espressione “égalité des armes”  e nel contempo non corrisponde ad un diritto riconosciuto dall’art. 6 CEDU [25].
Di recente la Corte di Strasburgo si è espressamente pronunciata su questo punto nel c.d. “Affaire GUILLEMOT” contro la Francia, sollecitata in una vicenda francese che nell’ambito della riforma della procedura avanti la Corte d’assise invocava a favore della pubblica accusa un diritto di appello contro le sentenze di assoluzione in ossequio al “principio della parità delle armi assicurato dalla Convenzione Europea a beneficio della difesa, ma anche del PM”.
I giudici d’oltralpe hanno, innanzitutto, ricordato che l’art. 6 CEDU non garantisce il diritto di far perseguire o condannare i cittadini [26] né tanto meno garantisce il diritto ad un doppio grado di giurisdizione che invece l’art. 2 del Protocollo n. 7 riserva quale diritto esclusivo del condannato [27].
Di conseguenza, ha affermato la Corte,  nel reclamare a favore del pubblico ministero … un diritto di appello contro le sentenze di proscioglimento si invoca un diritto che non è garantito dalla Convenzione (“En conséquence, en réclamant, au profit du ministère public ou des coaccusés, un droit d’appel des arrêts d’acquittement, la requérante invoque un droit qui n’est pas garanti par la Convention.”)
Identiche conclusioni erano state esposte dal rappresentante del Governo (“ § 32. (…) Il souligne enfin que la Convention ne garantit pas le droit à la vengeance privée, à l’actio popularis ou de faire poursuivre pénalement ou condamner des tiers ” ) il quale aveva tra l’altro evidenziato come nessuna disposizione imponga una obbligazione di risultati pretendendo che ogni procedimento penale si concluda con una decisione di condanna o di inflizione di una pena. [28]
In definitiva, deve ritenersi che nell’ambito della Convenzione Europea l’appello sia un diritto riconosciuto solo al condannato, al contrario non è garantito né al P.M. né alla parte civile; non può, pertanto, essere pretesa la sua tutela ricorrendo al concetto di “égalitè des armes”, così come non può essere invocato – quale surrogato - l’art. 13 CEDU che sancisce “il diritto ad un ricorso effettivo” davanti ad una istanza nazionale per ogni persona i cui diritti riconosciuti dalla Convenzione siano stati violati.
 
6. segue : il Protocollo n. 7 CEDU.
In effetti, se l’art. 13 CEDU non assicura un diritto all’appello ovvero ad un secondo grado di giurisdizione, è chiaro, invece, che quando la procedura assume il carattere “penale” nel significato riconosciuto dalla CEDU si può ricorrere al Protocollo n. 7 CEDU, [29] dove l’ art.  2 riconosce al condannato il “diritto ad un doppio grado di giudizio in materia penale” [30].
Questo Protocollo non è altro che il risultato voluto dal Comitato dei Ministri allo scopo di recepire al massimo nella Convenzione Europea le disposizioni del Patto Internazionale sui diritti civili e politici che non avevano trovato corrispondenza nel testo originario. Il Patto, infatti, all’art. 14, 5 prevede l’identico diritto per cui “ogni individuo condannato per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza e la condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”.
Il diritto ad un secondo giudizio non è riconosciuto alla pubblica accusa, ma solo al condannato che deve poter far esaminare la sua colpevolezza o condanna da un giurisdizione superiore. Ovviamente anche il secondo processo [31] deve essere celebrato in modo da risultare equitable. [32]  
Tale diritto subisce delle limitazioni, in casi particolari: vi possono essere eccezioni per i reati minori (definiti dalla legge) o quando l’interessato  è già stato giudicato in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata o è stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento.
Diversamente dalla opportunità della pubblica accusa di ottenere una seconda chance, quello del condannato di rivolgersi ad un nuovo giudice per ottenere un nuovo giudizio è un diritto fondamentale, universalmente riconosciuto.
La sua intangibilità è tale che viene assicurato in ogni sistema processuale, tanto che, a voler allargare i nostri orizzonti sino alla Grande Muraglia possiamo vedere come tale diritto sia garantito anche nel processo penale cinese, laddove la Cina non si distingue, certo, per la tutela dei diritti umani.
Nel codice di rito, composto da soli 225 articoli, viene consacrato a chiare lettere che l’imputato non può essere privato con nessun pretesto del suo diritto all’appello (art. 180, 3° comma); diritto che sembra avere una estensione più ampia rispetto a quello del pubblico ministero perché viene esercitato quando l’imputato “rifiuta di accettare una sentenza o provvedimento di primo grado” (art. 180, 1° comma), mentre il Procuratore del popolo può presentare un “reclamo” se ritiene che nella sentenza vi sia un determinato errore (some definite error) (art. 181, 1° comma). Il secondo grado consiste nella celebrazione di un giudizio ex novo (art. 186), senza limite alcuno, salvo il divieto di reformatio in peius (art. 190). Per quanto concerne la “vittima” l’ art. 182 stabilisce che la stessa può sollecitare il P.m. ad esperire il c.d. reclamo, senza alcun vincolo per l’ufficio dell’ accusa di dar seguito alla istanza.
 
7. segue: la “durata ragionevole” del procedimento.
 
La promulgazione della nuova legge in materia di impugnazioni ha riacceso i riflettori sulla patologia cronica della eccessiva lunghezza del  processo penale italiano; malessere per il quale nel contesto europeo l’Italia si presenta ancora come “vigilata speciale” del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa[33] che “prega insistentemente” le Autorità Italiane affinché rafforzino il loro impegno politico invitandole a presentare entro fine anno 2006 un piano d’azione per risolvere il problema della efficacia del sistema processuale. Ci si domanda se la riforma rientri o meno in questo piano perché secondo la prospettiva prescelta vengono esaltati pregi e difetti della legge de qua che da un lato, sembra abbreviare il corso del processo, ma dall’altro, pare - patologicamente – aumentare il carico del lavoro giudiziario. Occorre, dunque, anche in tal caso rapportarsi agli insegnamenti dei giudici europei.
Se è vero che la Corte di Strasburgo attribuisce grande importanza all’obiettivo dell’economia e dell’accelerazione della procedura è assodato che lo stesso non potrebbe, tuttavia, giustificare il misconoscimento di un principio a sua volta fondamentale come il diritto ad una procedura in contraddittorio in quanto l’art. 6 CEDU mira anzitutto a preservare gli interessi delle parti e quelli di una buona amministrazione della giustizia [34].
Come è noto la valutazione di ragionevolezza dei tempi processuali implica un calcolo di durata con determinazione di un dies a quo e di un dies ad quem [35]  e la “eccessiva lunghezza” può riguardare l’arco procedimento nella sua totalità ovvero il singolo periodo di ogni fase. La Corte di Strasburgo ha elaborato una serie di criteri [36] funzionali alla misurazione in concreto della “ragionevolezza” dei tempi processuali ovviamente rapportata alle circostanze del caso, ne consegue che sul computo della durata, influiscono sia la complessità del caso sia la condotta dell'imputato che il comportamento delle Autorità Nazionali competenti ([37]) oltre alla c.d. posta in gioco (enjeu) [38]. Meritano di essere ricordate le esegesi prospettate sui due parametri più importanti: imputato e autorità.
In merito alla posizione dell'imputato, ed in particolare al suo comportamento processuale, è stato chiarito come l'art. 6, par. 1, CEDU non richieda la sua "cooperazione con le autorità procedenti[39], e come non possa rimproverarsi all'imputato di aver impiegato tutti gli strumenti difensivi previsti dalla legge" ([40]); di conseguenza egli può liberamente esercitare il proprio diritto di difesa anche mediante la fruizione di ogni strumento di impugnazione, purché non sia animato da mere finalità dilatorie [41]. Nessun rimprovero può essere mosso quando le iniziative della parte servono a riparare ad irregolarità imputabili alle autorità giudiziarie [42].
Per quanto concerne l’operato delle Autorità competenti la giurisprudenza di Strasburgo nel porre la sua attenzione sulla verifica della correttezza dell' operato dello Stato, ha precisato che "il carico di lavoro degli uffici giudiziari non può rappresentare una giustificazione dei ritardi nella celebrazione delle udienze, dato che i singoli Stati sono tenuti, proprio in base all'art. 6, par. 1 CEDU, ad organizzare i propri sistemi giudiziari in modo tale che siano rispettati i requisiti dell'equo processo tra i quali vi è la durata ragionevole" ([43]). In altri termini, ogni singolo Stato è tenuto ad assicurare l’efficienza dell’insieme dei suoi servizi e non soltanto degli organi giudiziari [44] secondo la costante affermazione per cui l’art. 6 della convenzione obbliga gli Stati contraenti ad organizzare il loro sistema giudiziario in modo tale che i giudici possano assolvere le loro funzioni nel rispetto della durata ragionevole del procedimento [45].
In definitiva, l'insegnamento profuso dalla giurisprudenza di Strasburgo rammenta che ogni singolo Stato contraente è tenuto ad predisporre la propria organizzazione processuale in modo tale da consentire ad ogni Tribunale di celebrare il processo in tempi ragionevoli, vale a dire nei tempi strettamente necessari per compiere le attività funzionali al perseguimento dello scopo tipico del processo (inteso come verifica della fondatezza dell'accusa elevata contro il singolo) ([46]); ne consegue che vengono considerati "non ragionevoli" i tempi morti, cioè gli intervalli tra un'attività processuale e l'altra non giustificabili in base ad oggettive esigenze del processo ([47]). Si può parlare di una “obbligazione di risultato” a carico degli Stati  dove, tuttavia, l’obiettivo non può essere quello di una giustizia sommaria giacché  “l’art. 6 mira a preservare gli interessi della difesa e quelli di una buona amministrazione della giustizia, ma quello di una giustizia tempestiva, interesse comune della collettività e del singolo che voglia davvero giustizia”.
In questo contesto appare interessante notare che nel suo Rapporto Annuale sull’Italia il Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa,[48] a proposito del funzionamento della giustizia, ha osservato che “la sua disfunzione incide negativamente sull’insieme della popolazione….. Per quanto concerne le cause penali, le conseguenze sull’accusato sono evidenti segnatamente per gli innocenti, che devono in particolare sopportare il danno prolungato alla loro reputazione. Oltre a tali conseguenze per gli accusati, la lentezza dei procedimenti nega ugualmente alle vittime il diritto alla giustizia e contribuisce in modo più generale a favorire una certa impunità che indebolisce lo stato di diritto e la pubblica sicurezza”. A tali considerazioni seguono alcune osservazioni tra le quali risalta quella per cui il Commissario ritiene che le proposte di riforma della amministrazione della giustizia “non sempre sono state portate a termine, vuoi per mancanza di mezzi, o talvolta per mancanza di reale volontà” ad esempio il commissario ricorda che “era stato ipotizzato di introdurre la figura dell’assistente giuridico del giudice, ma sfortunatamente la proposta non è stata attuata. Eppure il ricorso a tali assistenti potrebbe migliorare il lavoro dei giudici e la qualità delle decisioni.”
 
8. La tutela della “vittima”.
A proposito della “vittima”, utilizzando tale termine nella sua accezione europea comprensivo sia della persona offesa che del danneggiato dal reato, si devono prendere le mosse dal postulato che il processo penale in sostanza riguarda essenzialmente l’imputato; la presenza della parte civile è talvolta prevista nel tentativo di un bilanciamento di interessi.
In linea di principio, il sistema accusatorio non consente alcuno spazio alla parte civile all’interno del processo sebbene consacri i diritti delle vittime, come succede negli Stati Uniti Con il Crime Victim’s Bill of Right del 1990 ovvero riconosca l’azione penale privata, come l’Inghilterra.
Il legislatore italiano del 1988 ha effettuato delle chiare scelte sistematiche, alcune delle quali frutto di  compromessi; oggi senza dubbio con la riforma del potere di impugnazione della “vittima”, la nuova legge opera una scelta obiettivamente in sintonia con i principi del sistema accusatorio.
A ciò si aggiunga la considerazione che l’art 6 CEDU elenca una serie di garanzie a favore dell’accusato la cui elaborazione giurisprudenziale ha portato ad affermare che la celebrazione di un proces equitable può comportare dei riflessi indiretti verso la vittima e sui testimoni, ma non assicura loro alcuna tutela processale, salvo leggere la norma nella prospettiva della vicenda civile [49]. Come è stato già osservato la Convenzione non garantisce alla vittima il diritto ad un secondo giudizio.
In definitiva, la recente opzione legislativa appare in linea con il contesto dei principi europei, ciononostante occorre evidenziare come in realtà il legislatore italiano trascuri gli obblighi internazionali adottati a favore della vittima, primi fra tutti quelli derivanti dalla Decisione Quadro 2001 che delinea una sorta di statuto della vittima [50]. Tale provvedimento ha previsto l’obbligo per ogni Stato membro di far entrare in vigore le disposizioni legislative per l’attuazione della decisione stessa entro il 2002 per la maggior parte delle disposizioni, o al massimo il mese di marzo 2006 per l’unico disposto più complesso dedicato alla creazione di un meccanismo di mediazione penale. Per concretizzare tale obbligo internazionale l’Italia ha elaborato il disegno di legge n. 2464 presentato il giorno 1 agosto 2003 (che è stato assegnato alla 2° commissione giustizia del Senato in data 23.10.2003), eppure a distanza di quasi tre anni non è stato ancora iniziato l’esame.
Con espresso riferimento alle tematiche in discussione,  deve rilevarsi che la decisione quadro dopo aver precisato nei vari consideranda che
-         nelle conclusioni del Consiglio Europeo di Tampere (15-16 ottobre 1999) è indicato che dovrebbero essere elaborate norme minime sulla tutela delle vittime della criminalità, in particolare l’accesso delle vittime alla giustizia e sui loro diritti al risarcimento dei danni, comprese le spese legali (n. 3);
-         salvaguardare gli interessi della vittima nell’ambito del processo penale non è l’unico obiettivo; perché le disposizioni della decisione quadro comprendono altresì talune misure di assistenza alle vittime, prima durante e dopo il processo penale, che potrebbero attenuare gli affetti del reato (n. 6); etc.
infine, afferma che le disposizioni …. non impongono tuttavia agli Stati membri l’obbligo di garantire alle vittime UN TRATTAMENTO EQUIVALENTE a quello delle parti del procedimento (n. 9).
E’ pertanto palese che nel processo penale, che è A CARICO dell’IMPUTATO, la vittima potrebbe non avere gli stessi diritti delle altre parti processuali, fermo restando la necessità di una sua tutela dentro e fuori il processo.
In questo contesto possono aggiungersi le linee tracciate dal Comitato dei Ministri nelle Raccomandazioni n. R. (83) 7; R (85) 11 R (87) 21, che indicano agli stati la tutela da assicurare alla vittime nell’ambito del sistema penale (sostanziale e processuale).
 
8. Riflessioni finali.
Il punto di arrivo dell’indagine svolta sembra essere la considerazione che il sistema processuale abbia migliorato la propria coerenza interna nel rispetto della Carta Costituzionale, ma soprattutto abbia acquisito una inedita coerenza nella prospettiva internazionale alla luce dei principi e degli obblighi assunti, salvo la scarsa attenzione per la tutela della “vittima”.
Qualche perplessità finale, tuttavia, emerge dall’esame delle regole di diritto transitorio che pur adottando una opzione giuridicamente ineccepibile, consentendo la immediata applicazione della legge più favorevole al reo, provocano di fatto degli importanti effetti retroattivi sulle procedure giudiziarie in corso.
Al proposito non può passare inosservato l’ultimo monito che Strasburgo ha inviato all’Italia con la sentenza del 29 marzo 2006 nel caso SCORDINO. La Grande Chambre ha, infatti, indirettamente censurato quelle scelte legislative che impongono, sebbene lecitamente, nuove disposizioni aventi portata retroattiva ciò in quanto “il principio della preminenza del diritto e la nozione di proces equitable consacrato nell’art. 6 si oppongono a ogni ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia allo scopo di influire sulla soluzione giudiziaria di una controversia” [51].
In sintesi, la legge 46/2006 assicura al sistema processuale penale una nuova ed esauriente coerenza sebbene attraverso una ardita - e talvolta opinabile - operazione del potere legislativo.
Antonietta Confalonieri, Avvocato del foro di Perugia; docente di diritto processuale penale comparato presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’ Università degli Studi di Urbino - settembre 2006
(riproduzione riservata)

(*) Intervento all’incontro di studi sul tema  “Legge 46/2006 : limiti all’appellabilità delle sentenze e coerenza costituzionale del sistema processuale penale”, Perugia, 12 aprile 2006. Il testo è in via di pubblicazione in Rassegna Giuridica Umbra 2006.
 
[1]  ) Coloro che esercitano la professione forense sono raggruppati in due categorie: da un lato, i solicitors dall’altro, i barristers , in linea di massima i primi si occupano degli atti del procedimento prima della fase del giudizio, mentre gli altri della difesa davanti alla Crown Court, salve eccezioni e momenti di tecnica difensiva collegiale .
[2] ) E’ interessante notare come anche nel settore della libertà personale il potere di impugnazione del P.M. sia abbastanza contenuto. Soltanto con il Bail Act del 1993, invero, gli è stata attribuita la legittimazione a contestare la decisione con la quale la Magistrates’Court  rimette l’imputato in libertà; l’area di operatività rimane limitata solo ad alcuni reati gravi (limite di pena - 5 anni reclusione - e specifici reati contro il patrimonio) e disciplinata in modo rigoroso (parere dissenziente; dichiarazione orale immediata di impugnazione e presentazione scritta dei motivi entro 2 ore). La impugnazione viene decisa entro 48 ore.
[3] ) L’imputato condannato dalla Crown Court può proporre appello – motivato - alla Court of Appeal: sono appellabili le sentenze di condanna con rito ordinario; le sentenze di quantificazione della pena a seguito di condanna emessa dalla Magistrates’ Court;  le sanzioni inflitte dalla Crouwn Court nel giudizio ordinario. L’ammissibilità dell’appello è subordinata al consenso della Corte o del primo giudice che deve ritenere la questione ammissibile e fondata (al fine di evitare impugnazioni pretestuose).
[4] ) La competenza delle due giurisdizioni si differenzia a seconda della gravità del reato che il diritto inglese classifica in tre distinte categorie: fattispecie lievi (summary offences),  gravi (indictable offences)  e intermedie o di natura mista (either ways offences). Le fattispecie miste possono essere giudicate da l’una o dall’altra Court, talvolta a scelta dell’imputato che se si “dichiara colpevole” deve essere giudicato dalla Magistrates’ Court. Può anche accadere che investita del giudizio di una fattispecie mista la Magistrates’ Court disponga il rinvio alla Crown Court solo per la pronuncia della pena, che per la sua severità potrebbe eccedere la propria competenza.    
[5] ) Il sistema prevede anche il c.d. “Case Stated” per cui entrambe le parti possono proporre impugnazione delle sentenze emesse dalla Magistrates’ Court eccependo una questione di diritto, con richiesta di una interpretazione vincolante della High Court su una questione specifica. La cognizione è limitata alla questione di diritto proposta, senza possibilità di deduzione di prove. Anche in questo caso è previsto il ricorso alla House of Lords a condizione che vi sia il consenso della House e sussista un interesse pubblico della questione.
[6] ) L’ordinamento giuridico inglese conosce anche la clausola di interruzione del procedimento per “abuse of process”: il giudice può interrompere il procedimento  se ritiene che la sua prosecuzione sia abusiva,  ad es. se l’accusa ha deliberatamente  provocato delle lungaggini processuali al fine di danneggiare la difesa ovvero in caso di ritardo non giustificato e lesivo  dei diritti dell’ imputato.
[7] ) L’estensione delle prerogative del Parquet e le nuove forme d’organizzazione rafforzano questa architettura centralizzata al servizio di una politica criminale nazionale.
[8] ) Si tratta di istruzioni scritte (le c.d. “circolari”), che hanno un valore interpretativo (ad esempio di un nuovo testo) o indicativo (quali le esigenze di priorità nell’ambito della politica criminale); le istruzioni devono essere allegate al fascicolo processuale.
[9] ) Dall’ analisi compiuta dal Consiglio costituzionale sulla c.d. Loi Perben II del 4 marzo 2004 “portant adaptation de la justice aux évolutions de la criminalité”, circa i rapporti tra il potere politico e l’autorità giudiziaria, si evince chiaramente che “l’insieme delle prerogative che il rappresentante del potere esecutivo esercita sui membri dell’ autorità giudiziaria non viola il principio della separazione dei poteri né quello secondo il quale l’ordine giudiziario comprende sia i magistrati “du siege” sia quelli “du parquet”, né nessun altro principio o regola costituzionale” .
[10] ) Les arrêts d’acquittement peuvent, par contre, faire l’objet d’un pourvoi mais uniquement dans le seul intérêt de la loi et sans préjudicier à la partie acquittée (article 572 du code de procédure pénale). La partie civile peut se pourvoir en cassation de l’arrêt rendu par la cour d’assises sur les intérêts civils à la suite de l’arrêt d’acquittement (article 573 du code de procédure pénale).
[11] ) La loi du 15 juin 2000 renforçant la protection de la présomption d’innocence et les droits des victimes.
[12] ) Les personnes ayant la faculté de faire appel des arrêts de condamnation sont énumérées à l’article 380-2 : il s’agit notamment de l’accusé, du ministère public et de la partie civile quant à ses intérêts civils.
Le ministère public, comme en matière de pourvoi en cassation et en matière correctionnelle, est sans qualité pour attaquer par la voie de l’appel les décisions statuant sur l’action civile.
Puisque la faculté d’appel de la partie civile est limitée aux intérêts civils, une victime non constituée partie civile devant la cour d’assises de première instance ne peut se constituer pour la première fois devant la cour d’assises statuant en appel (arrêt de la chambre criminelle de la Cour de cassation du 18 juin 2003).
[13] ) La possibilité de faire appel des arrêts d’acquittement est totalement exclue
[14] ) Il ressort du rapport du 16 janvier 2002, sur la proposition de loi complétant la loi du 15 juin 2000, que :
« Souhaitant avant tout donner une seconde chance à l’accusé, le législateur [par la loi du 15 juin 2000] a instauré une procédure d’appel spécifique, qui limite les possibilités d’appel aux seuls arrêts de condamnation.
(...) Un certain nombre d’affaires récentes conduisent à s’interroger sur le bien-fondé cette restriction, susceptible de donner naissance à des erreurs judiciaires. [La modification proposée de la loi du 15 juin 2000] paraît d’autant plus nécessaire que c’est justement la volonté d’éviter ces erreurs judiciaires qui a amené le législateur à mettre fin au principe de l’infaillibilité du jury populaire et à instituer un recours contre les décisions de cour d’assises.
D’un point de vue juridique, cette impossibilité pour le parquet de faire appel des décisions d’acquittement est difficilement compatible avec le principe de l’égalité des armes garanti par la convention européenne des droits de l’homme au bénéfice de la défense, mais également au bénéfice du ministère public.
[15] ) La loi du 4 mars 2002 a donc modifié la loi du 15 juin 2000 et a ajouté à l’article 380-2 du code de procédure pénale un alinéa aux termes duquel « le procureur général peut également faire appel des arrêts d’acquittement »
[16] ) CourEDH , 22-27 giugno 1999, Hamer c. Francia; CourEDH,  27.9.1990, Windisch c. Austria. Tutte le sentenze della Corte sono consultabili sul sito ufficiale all’indirizzo www.echr.coe.int/echr .
[17]) si intendono i gradi successivi, vale a dire il giudizio di appello e di cassazione; CourEDH, Cour Plénière, 26.05.1988, Ekbatani c. Svezia, Recueil Série A, 134, § 24.
[18]) La nozione di processo ricomprende anche la fase davanti alle giurisdizioni superiori di secondo grado o di legittimità. Con riferimento al ruolo svolto dalla Corte d'appello v. CourEDH, 16.12.1992, Edwards c. Regno Unito, Recueil Série A, 247-B, § 34; CourEDH, , 23.02.1994, Stanford c. Regno Unito, Recueil Série A 282-A, § 24; per quanto attiene la Corte di Cassazione v. CourEDH, Cour Plénière, 22.02.1984, Sutter c. Svizzera, Recueil Série A, 74, § 28; CourEDH, 2.03.1987, Monnel & Morris c. Regno Unito, Recueil Série A, 115, § 56; CourEDH, 28.03.1990, Granger c. regno Unito, Recueil Série A, 174, § 44. 
[19] ) CourEDH, 17.01.1970, Delcourt c. Belgio, Recueil Série A 11.
[20] ) « A ce propos, la Cour rappelle que le droit à un procès équitable occupe une place si éminente dans une société démocratique qu'une interprétation restrictive de l'article 6 § 1 ne se justifie pas » 
[21] ) CourEDH, 24.05.2005, BERKOUCHE c. Francia, : 52 «  La Cour rappelle qu’une des exigences d’un procès équitable est l’égalité des armes, laquelle implique l’obligation d’offrir à chaque partie une possibilité raisonnable de présenter sa cause dans des conditions qui ne la placent pas dans une situation de net désavantage par rapport à son adversaire » (voir, parmi d’autres, De Haes et Gijsels c. Belgique, arrêt du 24 février 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-I, § 53). De plus, l’exigence de l’égalité des armes au sens d’un juste équilibre entre les parties, vaut en principe aussi bien au civil qu’au pénal (Dombo Beheer B.V. c. Pays-Bas, arrêt du 27 octobre 1993, série A no 274, § 33). La notion d’égalité des armes n’épuise pourtant pas le contenu du paragraphe 1 de l’article 6, dont cet alinéa représente une application parmi beaucoup d’autres. ( ……) chaque partie s’est vu offrir une possibilité raisonnable de présenter sa cause dans des conditions qui ne l’ont pas placée dans une situation de net désavantage par rapport à son adversaire (voir, mutatis mutandis, les arrêts Edwards c. Royaume-Uni, arrêt du 16 décembre 199 2, série A no 247‑B, pp. 34 et 35, § 34, et Mantovanelli c. France, arrêt du 18 mars 1997, Recueil 1997‑II, pp. 436-437, § 34) ».
[22] ) CourEDH, 20.12.2005, GUILLEMOT c. Francia : 42. « La Cour rappelle, finalement, qu’une des exigences d’un procès équitable est l’égalité des armes, laquelle implique l’obligation d’offrir à chaque partie une possibilité raisonnable de présenter sa cause dans des conditions qui ne la placent pas dans une situation de net désavantage par rapport à son adversaire (De Haes et Gijsels c. Belgique, arrêt du 24 février 1997, Recueil des arrêts et décisions 1997-I, § 53) ».
[23] ) Nelle sentenze Jasper c. Regno Unito del 16.2.00 ed Edwards and Lewis c. Regno Unito pronunciata dalla Grande Camera il 27.10.04, la Corte europea parte dal presupposto che il principio del processo equo e dell’uguaglianza delle armi presuppone, in linea di principio, che la pubblica accusa riveli tutte le prove raccolte e contenute nel protocollo processuale in modo da dare la possibilità all’accusato di conoscere l’intero materiale probatorio e dunque approntare una difesa appropriata; ciò però non esclude, a parere della Corte, che possano verificarsi delle ipotesi in cui delle circostanze particolari consiglino di evitare una completa disclosure (si pensi all’ipotesi che ciò possa compromettere la sicurezza nazionale od esporre dei testi a rappresaglie ovvero bruciare dei metodi investigativi efficaci, ecc.). In questo caso la corte europea ritiene che sussista un dovere del giudice nazionale di esaminare l’intero protocollo processuale per verificare se siano presenti degli elementi probatori non rivelati, in tutto od in parte, all’accusato e se tale mancata disclosure sia compatibile con il dovuto bilanciamento tra l’interesse della collettività (consistente ad esempio in una delle esigenze sopra menzionate) e l’interesse del singolo a difendersi efficacemente in un processo penale. Se il pubblico ministero rifiuta tale controllo, così da impedire al giudice la necessaria attività di verifica, vi è violazione dell’art. 6 Conv. in dipendenza di un processo non equo, dove è venuto a mancare il principio del contraddittorio e dell’uguaglianza delle armi tra accusa  e difesa.
 
[24] ) Con riguardo a tale diversità è concepibile una differenza dei mezzi di gravame soprattutto in ragione dei rispettivi interessi e diritti costituzionalmente rilevanti e garantiti FRIGO, in  Guida al Diritto, 2006 p. 101
[25] ) CourEDH, 20.12.2005,  Guillemot c. Francia :  « En conséquence, en réclamant, au profit du ministère public ou des coaccusés, un droit d’appel des arrêts d’acquittement, la requérante invoque un droit qui n’est pas garanti par la Convention ».
[26] ) CourEDH, 20.12.2005,  Guillemot c. Francia : §40. « La Cour rappelle, tout d’abord, que l’article 6 de la Convention ne garantit pas le droit de faire poursuivre ou condamner pénalement des tiers (Perez c. France [GC], no 47287/99, § 70, CEDH 2004‑...). ».
[27] ) CourEDH, 20.12.2005,  Guillemot c. Francia : § 40. « De plus, cet article ne garantit aucun droit à un double degré de juridiction et l’article 2 du Protocole no 7 ne réserve ce droit qu’à la personne déclarée coupable d’une infraction pénale afin qu’une juridiction supérieure examine la déclaration de culpabilité ou sa condamnation. »
[28] ) CourEDH, 20.12.2005,  Guillemot c. Francia : §32 « ... “et qu’aucune disposition n’impose une obligation de résultat supposant que toute poursuite doit se solder par une condamnation, voire par le prononcé d’une peine déterminée. ».
[29] ) Protocollo n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, modificato dal Protocollo n. 11 Strasburgo 11 maggio 1994, entrato in vigore internazionale 1.11.1998
[30] ) CourEDH, 6.9.2005, Curepka c. Ucraina.
[31] ) La Corte europea ha riscontrato la violazione dell’art. 6 della Convenzione, sotto il profilo del diritto di accesso ad un tribunale, ogniqualvolta la legge preveda che il termine per proporre impugnazione da parte dell’imputato avverso una sentenza di condanna decorra dalla data della sua pronuncia e non invece da quella della pubblicazione della sua motivazione (CourEDH 11.04.2002, AEPI S.a.c. Grecia; da ultimo, CourEDH  4.08.2005, Agationos c. Grecia, § 17).  
[32] ) La Corte europea ha riscontrato la violazione del principio fissato nell’art. 6 § 1 della Convenzione (uguaglianza delle armi come aspetto del diritto ad un equo processo), nell’ipotesi in cui, in sede di procedimento dinanzi alla corte d’appello o alla cassazione, le conclusioni scritte del procuratore generale non siano rese conoscibili all’imputato, il quale quindi non dispone di una efficace possibilità di replicare (CourEDH, 31.01.2002, Lanz c. Austria, § 54-64;  CourEDH, 22.2.1996, Bulut c. Austria, Recueil 1996-II, § 49). Ciò anche nell’ipotesi in cui, alle conclusioni scritte, segua un’udienza orale, a cui tutti abbiano l’opportunità di partecipare e di parlare. Infatti, per la corte europea, che cita alcuni suoi precedenti (Dombo Beheer b.v. c. Olanda del 27 ottobre 1993, § 33; Ankerl c. Svizzera del 23 ottobre 1996; Bulut c. Austria, § 47 del 22.2.1996), il diritto all’uguaglianza delle armi significa che una parte non deve essere collocata in una situazione più disagevole rispetto all’altra, anche perché la corretta amministrazione della giustizia si nutre pure di apparenze.
 
[33] ) Risoluzione interinale ResDH (2005)114 adottata dal Comitato dei Ministri il 30.11.2005, riguarda le sentenze della Corte Europea dei diritti umani e le decisioni del Comitato dei Ministri in 2183 casi contro l’Italia relativi alla durata eccessiva delle procedure giudiziarie. Il Comitato …. che “PREGA insistentemente le autorità italiane di rafforzare il loro impegno politico e di fare del rispetto degli obblighi dell’Italia ai sensi della Convenzione e delle sentenze della Corte una priorità effettiva, per garantire il diritto ad un processo equo entro un termine ragionevole ad ogni persona che dipende dalla giurisdizione dell’Italia; DOMANDA alle Autorità competenti di organizzare una politica nazionale efficace, coordinata al più alto livello governativo, in vista di giungere ad una soluzione globale del problema, e di presentare, da qui alla fine del 2006 al più tardi un nuovo piano d’azione basato sul bilancio dei risultati compiuti e che includono un approccio efficace per la sua messa in opera”.
[34] ) CourEDH, 18.2.1997, Farange c. Svizzera, Recueil 1997-I, p.107, § 30)
[35] ) La Corte utilizza, come parametro di riferimento, il periodo in cui una persona è consapevole di essere oggetto di un procedimento penale; recentemente v. CourEDH, 15.12.2005,  Barry c. Irlanda.
[36] ) CourEDH,  9.03.2003, Georgios Papargeogiou c. Grecia : « La Cour rappelle que le caractère raisonnable de la durée d'une procédure s'apprécie suivant les circonstances de la cause et eu égard aux critères consacrés par la jurisprudence de la Cour, en particulier la complexité de l'affaire, le comportement du requérant et celui des autorités compétentes (voir, parmi beaucoup d'autres, l'arrêt Di Pede c. Italie du 26 septembre 1996, Recueil des arrêts et décisions 1996-IV, § 27), qui, en l'occurrence, appellent une appréciation globale ».
[37]) Tra le più recenti decisioni della Corte v. CourEDH, G.C., 25.3.1999, Pelissiér, Sassi c. Francia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 701; CourEDH, 22.5.1998, Hozee c. Paesi Bassi, in Dir. Pen. Proc., 1998, 973-974 e i precedenti ivi riportati.
[38]) CourEDH , II, 1.02.2005,  FRANGY c. Francia : § 61. «  La Cour rappelle que le caractère raisonnable de la durée d'une procédure s'apprécie suivant les circonstances de la cause et eu égard aux critères consacrés par sa jurisprudence, en particulier la complexité de l'affaire, le comportement du requérant et celui des autorités compétentes ainsi que l'enjeu du litige pour les intéressés (voir, parmi beaucoup d'autres, Frydlender c. France [GC], no 30979/96, CEDH 2000-VII, § 43) ».
[39] ) CourEDH, 10.12.1982,  Corigliano c. Italia.
[40]) CourEDH 12.5.1999, Ledonne c. Italia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 975; nello stesso senso CourEDH, 12.5.1999, Saccomanno c. Italia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 976
[41] ) CourEDH , Venditeli c. Italia.
[42] )  CourEDH 25.2.1993 Dobbertin c. Francia.
[43]) In questi termini v. CourEDH, 12.5.1999, Ledonne c. Italia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 975-976; nello stesso senso CourEDH, 12.5.1999, Saccomanno c. Italia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 976; CourEDH, 23.9.1998, Portington c. Grecia, in Dir. Pen. Proc., 1999, 169.
[44] ) CourEDH  23.10.1990, Moreira de Azevedo c. Portogallo, Recueil A-189 ; CourEDH, 23.11.1999, Arvois c. Francia
[45] )  cfr. fra le più recenti, CourEDH, 15.07.2005, De Landsheer c. Belgio; CourEDH,  4.08.2005, Dattel c. Lussemburgo;
[46]) E' questa una delle prime affermazioni della Corte, rimasta sempre attuale v. CourEDH, 27.6.1968 Neumeister c. Austria., Recueil Série A n. 8.
[47]) Una attenta disamina dei c.d. "tempi morti" del processo penale è condotta da G. UBERTIS, Verso un giusto processo penale, Torino, 1997, 53 ss. In giurisprudenza v. CourEDH, 31.03.1998, Reinhardt & Slimane Kaid c. Francia., in Dir. Pen. Proc., 1998, 848; CourEDH, 25.11.1997, Zana c. Turchia, in Dir. Pen. Proc., 1998, 302; CourEDH, 27.06.1997, Philis c. Grecia., in Dir. Pen. Proc., 1997, 1088;  CourEDH, 25.03.1996, Mitap e Muftuoglu c. Turchia, in Dir. Pen. Proc., 1996, 816.
[48] ) Il Rapporto CommDh (2005)9 è stato presentato a Strasburgo il 14.12.2005. Per un commento v. M. De Stefano, Le violazioni dei diritti umani denunciate nel 2005 dal Commissario per i diritti dell’uomo del Consiglio d’Europa, in Dir.Uomo. Cronache e Battaglie, 2005, n. 3, p. 68.
[49] ) Per la giurisprudenza europea i diritti delle vittime sono dei “diritti di carattere civile”, dunque protetti dall’art. 6 §1 della Convenzione nonché coperti dalle prerogative che tale articolo comporta, non solo nell’ipotesi di richiesta di risarcimento danni, ma ogniqualvolta l’esito del procedimento sia determinante per il “diritto di carattere civile” ovvero quando, indipendentemente dalla sua qualificazione giuridica, il diritto abbia dei contenuti e degli effetti che lo facciano ritenere di “carattere civile” nel senso tracciato dalla giurisprudenza europea (CourEDH, 23.10.1990, Moreira de Azevedo c. Portogallo,  § 66; CourEDH,  12.2.2004, Perez c. Francia, § 57-65).
[50] ) Decisione quadro del consiglio dell’unione europea 15 marzo 2001, n. 2001/220/GAI in G.U.C.E. 22 marzo 2001, n. L082, volendo in Dir.pen.proc. 2001, n. 5, p. 652.
[51]) CourEDH, GRANDE CHAMBRE, 29.3.2006, Scordino c. Italie (No 1) : §126.  « La Cour réaffirme que si, en principe, il n’est pas interdit au pouvoir législatif de réglementer en matière civile, par de nouvelles dispositions à portée rétroactive, des droits découlant de lois en vigueur, le principe de la prééminence du droit et la notion de procès équitable consacrés par l’article 6 de la Convention s’opposent, sauf pour d’impérieux motifs d’intérêt général, à l’ingérence du pouvoir législatif dans l’administration de la justice dans le but d’influer sur le dénouement judiciaire du litige (Zielinski et Pradal & Gonzales c. France [GC], nos 24846/94 et 34165/96 à 34173/96, § 57, CEDH 1999-VII ; Raffineries grecques Stran et Stratis Andreadis c. Grèce, arrêt du 9 décembre 1994, série A no 301-B ; Papageorgiou c. Grèce, arrêt du 22 octobre 1997, Recueil 1997-VI) ».
 
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