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Penale.it - Tribunale di Cosenza, Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza 23 febbraio 2011 (dep. 23 febbraio 2011)

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Tribunale di Cosenza, Giudice per le Indagini Preliminari, sentenza 23 febbraio 2011 (dep. 23 febbraio 2011)
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In tema di omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (art. 2 d.l. n. 463/83 conv. in l. n. 638/83), la previa notifica dell'avvenuto accertamento della violazione (dalla quale inizia a decorrere il termine di tre mesi concessa al datare di lavoro per provvedete al versamento dovuto) non può essere validamente surrogata dalla notifica del decreto di citazione per il giudizio (o del decreto penale di condanna), con la conseguenza che la mancata notifica dell'avviso di accertamento (contenente l'indicazione specifica delle somme dovute e l'avvertenza della facoltà di regolarizzare la posizione entro tre mesi) ed il mancato decorso del termine escludono la procedibilità dell'azione penale e, comunque, la possibilità di emettere una pronuncia di condanna.

Tribunale di Cosenza
Sezione del Giudice per le Indagini Preliminari

Sentenza di giudizio abbreviato
- artt. 438 e ss. c.p.p. -


Repubblica Italiana
In Nome del Popolo Italiano
Il Giudice per le Indagini Preliminari

nella persona del dott. Livio A. Cristofano, all'udienza in camera di consiglio del 23 febbraio 2011, ha pronunziato e pubblicato, mediante lettura del dispositivo e della motivazione, la seguente

SENTENZA

nel procedimento penale di primo grado instaurato nei confronti di:
S.P., nato a Xxxxxxx (XX) il dì XX.XX.19XXX, ivi residente alla Xxxxxxx n. X – libero, contumace;
difeso di fiducia dagli avvocati Aldo Cribari e Armando Arcidiacono del foro di Cosenza

IMPUTATO

dei reati di cui al foglio allegato
Con l'intervento dell'assistente giudiziario Alfonso Barbieri, del pubblico ministero dott. Giuseppe
Visconti, e degli avvocati Aldo Cribari e Domenico Arcidiacono del foro di Cosenza, difensori di fiducia dell'imputato.
Le parti hanno concluso nel modo seguente:
- l'Ufficio del pubblico ministero: condanna alla pena finale di mesi 2 di reclusione e € 200,00 di
multa, concesse le attenuanti genetiche, nonché operata la riduzione prevista per il rito;
- il difensore dell'imputato: assoluzione perché il fatto non sussiste; in subordine, minimo della pena.

MOTIVAZIONE IN FATTO E IN DIRITTO

A seguito di istanza dell'Ufficio del pubblico ministero, veniva emesso in data 1.10.2010 dal giudice per le indagini preliminari pedissequo decreto penale di condanna ex art. 459 e ss. c.p.p. nei confronti di S.P. per i reati descritti nel capo di incolpazione sopra richiamato.
Il decreto penale di condanna n. 1765/10 veniva regolarmente notificato al prevenuto in data 18.11.2010 e, nei termini e con le modalità indicati dall'art. 461 c.p.p., l'imputato avanzava atto di opposizione depositato presso la cancelleria del giudice per le indagini preliminari in data 1.12.2010, contestualmente richiedendo che il procedimento venisse definito con il ricorso al giudizio abbreviato a norma degli artt. 438 e ss. c.p.p., nella forma specifica del rito abbreviato cd. puro.
In data 6.12.2010, il giudice, previo provvedimento di revoca del decreto penale di condanna opposto (con ciò aderendosi all'opinione maggioritaria secondo cui l'opposizione al decreto penale di condanna comporta, in ogni caso, l'esaurimento dal procedimento monitorio e, per l'effetto, la irretrattabilità dell'opposizione stessa: cfr., da ult., Cass. 18.5.2004 a 23263, Carriere), ammetteva l'imputato al giudizio abbreviato e fissava l'udienza camerale per la data odierna per la celebrazione del rito alternativo.
Va preliminarmente ribadito che il rito abbreviato comporta, in termini estremamente sintetici, una riduzione del terzo della pena finale alla quale -eventualmente- dovrebbe essere condannato l'imputato, in quanto costui, a fronte di tale indubbio elemento premiale, accetta consapevolmente di essere giudicato sulla base degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero (che, peraltro, può essere ben comprensivo anche dell'incartamento costituito dalle indagini difensive che in esso confluiscono ex art. 391 octies c.p.p.) e delle prove eventualmente assunte in udienza preliminare.
Con la scelta del rito abbreviato 'puro', l'imputato, onde usufruire di un trattamento sanzionatorio più favorevole, accetta -in buona sostanza- di sottostare ad un più limitato esercizio delle facoltà difensive imposto dal rito speciale, in cui la decisione deve avvenire necessariamente 'allo stato degli atti', con l'utilizzazione del materiale probatorio già acquisito e con l'esclusione della possibilità di procedere ad ulteriori acquisizioni.
L'art. 442, comma 1° bis, c.p.p. indica quali debbano essere gli elementi della piattaforma probatoria del giudizio abbreviato, precisando che, ai fini della decisione, il giudice deve utilizzare gli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero trasmesso contestualmente alla richiesta di rinvio a giudizio, la documentazione afferente alle indagini suppletive eventualmente svolte dall'accusa dopo il deposito della richiesta di rinvio a giudizio, nonché le prove eventualmente assunte nell'udienza del giudizio abbreviato stesso.
Per comprendere quale debba essere l'esatto contenuto del bagaglio probatorio e per dirimere le comprensibili aporie interpretative della materia, occorre inevitabilmente far riferimento al dato ermeneutico offerto da una pronuncia delle Sezioni Unite della Cassazione (sentenza 30.6.2000 n. 16, Tammaaro), la quale ha operato, in subiecta materia, un'essenziale demarcazione fra la categoria della cd. inutilizzabilità 'patologica' e quella della inutilizzabilità 'fisiologica' della prova, rimarcando come solo la prima di esse sia assolutamente ed incondizionatamente incapace di produrre un qualsiasi effetto probatorio e, quindi, sia del tutto inidonea a costituire materiale valutativo usufruibile dal giudice dell'abbreviato.
L'assunto fondamentale -estraibile dalle motivazioni rassegnate dalle Sezioni Unite- si concentra nella proposizione per cui “nel giudizio abbreviato il giudice non può valutare né porre a fondamento della decisione gli atti probatori viziati da nullità o inutilizzabilità assolute, non risultando il principio della rilevabilità di ufficio nonché della insanabilità di queste situazioni patologiche derogato, né espressamente né implicitamente, da alcuna norma, e dovendosi escludere l'incompatibilità del rito speciale con il precetto che le concerne, di guisa che il giudice, fatta eccezione per i casi di inutilizzabilità 'fisiologica' prevista solo per il dibattimento, non può utilizzare prove affette da inutilizzabilità 'patologica', quella cioè inerente agli atti probatori assunti contra legem il cui impiego è vietato in modo assoluto dall'art. 191 c.p.p.”.
Nella categoria in parola vanno inclusi tutti quegli atti che risultano affetti da vizi profondi ed irreversibili, e cioè quegli atti probatori assunti contra legem e il cui impiego è vietato in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in qualsiasi altra fase del procedimento penale, ivi compresi le indagini preliminari, l'udienza preliminare, gli altri riti alternativi e i subprocedimenti cautelari.
Al contrario, non rilevano e non dispiegano alcun effetto la cd. inutilizzabilità 'fisiologica' , ovvero
quella propriamente funzionale ai connotati essenziali del processo accusatorio (al quale, si ribadisce, l'imputato consapevolmente rinuncia con il ricorso al rito abbreviato), e quella 'relativa', per cui è posto divieto al giudice di poter utilizzare -ai fini della deliberazione postdibattimentale- prove che, se pure assunte secundum legem, appaiano intrinsecamente diverse da quelle legittimamente acquisite nel contesto dibattimentale e nel rispetto del principio del contraddittorio (art. 526 c.p.p.).
Ciò premesso, nel caso che ci occupa, va affermata la piena utilizzabilità di tutti gli atti contenuti nel fascicolo delle indagini preliminari, senza eccezione alcuna (né, del resto, alcuna questione veniva sollevata sul punto dalla difesa).
La vicenda concerne l'omesso versamento da parte dell'imputato, nella sua veste di legale rappresentante della ditta 'Xxxxxxxx', con sede in Xxxxxxxx (XX) alla via Xxxxxxxx n. X, dei contributi obbligatori, di natura previdenziale ed assistenziale, stabiliti dalla legge per i lavoratori dipendenti.
In data 3.12.2010 giungeva presso la Procura della Repubblica di Cosenza l'informativa di reato conseguente all'accertamento redatto dalla sede INPS di Cosenza.
In essa si dava atto di avere accertato documentalmente che il S. aveva omesso di versare alla sede provinciale INPS di Cosenza le ritenute previdenziali ed assistenziali nei riguardi dei lavoratori dipendenti per il secondo e terzo trimestre dell'anno 2007, per un ammontare complessivo di € X.XXX,XX.
Il predetto verbale non risulta agli atti notificato, allo scopo di consentire al contravventore, come previsto dall'art. 2, comma 1 bis, della legge n. 638 del 1983 (come modificato dal D. Lgs. n. 211 del 1994), di potersi avvalere della causa di non punibilità con il pagamento dei debiti contributivi entro il termine di tre mesi dalla notificazione della contestazione.
La questione, dunque, si concentra sull'affermazione della difesa dell'imputato di non aver ricevuto alcuna comunicazione in merito e di avere ottenuto informazione dell'accertamento solo con l'emissione del decreto penale di condanna e tale eccezione appare meritevole di accoglimento, in quanto sembra del tutto insussistente la prova di conoscenza legale dell'atto o, quantomeno, sembrerebbe doversi affermate l'esistenza di un insuperabile e concreto dubbio al riguardo.
Una tesi giurisprudenziale, d'altra parte, insiste nel riconoscete un'ampia operatività ed una sorta di ultrattività alla causa di non punibilità del versamento tardivo del debito contributivo, nell'ipotesi in cui si giunga alla constatazione dell'omessa notifica dell'avviso di accertamento al soggetto penalmente obbligato.
Seconda tale impostazione (evidentemente accolta dal pubblico ministero e ribadita in data odierna), nel caso in cui si accerti che il datore di lavoro non abbia effettivamente avuto la conoscenza legale dell'avviso di accertamento del proprio debito, il termine di tre mesi, previsto dalla normativa di settore, andrebbe a 'rianimarsi', con il conseguente decorso di un nuovo termine trimestrale decorrente dalla data di notifica del decreto di citazione a giudizio (o del decreto penale di condanna), entro il quale l'imputato potrà versare il dovuto e godere della causa di esclusione della punibilità, giungendosi persino ad ipotizzare la possibilità per l'imputato, in sede di dibattimento, di poter chiedere (ed ottenere) dal giudice un differimento al fine di poter adempiere al versamento [in nota: Espressione di tale indirizzo giurisprudenziale sono, fra le altre, Cass. 18.10.2007 n. 38501, Falzoni; Gasa. 30.1.2008 n. 4723, Passante].
Opposta corrente ermeneutica [in nota: In tale direzione, Cass. 1.6.2006 n. 19212, Bianchi e, più di recente, Cass. 22.11.2008 n. 44542, Vares] sostiene, viceversa, che la tesi ora delineata non sembra possedere un sicuro fondamento normativo e finirebbe, in buona sostanza, col produrre l'effetto di porre nel nulla l'obbligo di notificazione legislativamente imposto all'Ente accertatore, ponendosi anche in aperto contrasto con la ratio e le finalità della disciplina Essa, cioè, non chiarirebbe su quale dato normativo si fondi questo ulteriore onere che sarebbe imposto all'imputato e, soprattutto, su quale norma si baserebbe l'obbligo dei giudice di rinviare il dibattimento e nemmeno spiega che cosa accadrebbe qualora il giudice -se non vi fosse effettivamente obbligato- rifiutasse il rinvio e decidesse di emettere sentenza. L'inconveniente non sarebbe di poco conto, perché potrebbe determinarsi una manifesta sperequazione di trattamento e una palese irragionevolezza interna del sistema, sia qualora si pervenisse ad una condanna (perché l'imputato sarebbe stato ingiustamente privato della possibilità di accedere, al pari di tutti gli altri, alla causa di non punibilità per l'omessa comunicazione dell'Ente previdenziale), sia nel caso in cui si pervenisse ad un'assoluzione (perché l'imputato sarebbe irragionevolmente avvantaggiato solo per il caso accidentale di un'udienza fissata in tempo utile). Per non parlare, poi, dell'eventualità (anch'essa ragionevolmente verificabile) in cui il decreto di citazione a giudizio non contenesse tutti i dati necessari per far decorrere il termine per il pagamento (con la possibilità teorica che si dovrebbe ipotizzare una sorta di ulteriore obbligo -da verificare se in capo al giudice, al pubblico ministero o all'Istituto previdenziale- di integrare in dibattimento il contenuto del decreto di citazione con l'indicazione dell'ammontare della somma dovuta).
Non si ritiene condivisibile neanche l'opinione secondo cui l'addentellato normativo della sospensione del dibattimento potrebbe essere logicamente desunto dalla considerazione che, nel caso di omessa notifica dell'accertamento, non vi sarebbe una norma che preveda espressamente un obbliga del pubblico ministero di sospendere il procedimento fino alla scadenza del termine fissato per la eventuale regolarizzazione, a differenza di quanto stabilito -ad esempio- nella diversa materia delle contravvenzioni in tema di sicurezza e igiene sul lavoro dall'art. 23 del D.Lgs. n. 758 del 1994. In effetti, il sistema delineato dal D.Lgs. n. 758/94 è piuttosto diverso, poiché si prevede che l'organo di vigilanza, pur dovendo impartire la prescrizione e fissare il termine per l'adeguamento al contravventore, ha -comunque- l'obbligo immediato di riferire la notitia criminis: al pubblico ministero, anche se il procedimento è sospeso fino a quando l'organo di vigilanza non comunichi l'esito positivo o negativo dell'eventuale regolarizzazione, fermo restando che la sospensione non preclude la richiesta di archiviazione, né l'assunzione di prove in incidente probatorio, né gli atti urgenti, né l'emissione di misure cautelari reali.
Il giudice ritiene maggiormente condivisibile e argomentato questo secondo indirizzo esegetico, poiché risulta evidente che la legge n. 638 dei 1983 detta una procedura del tutto peculiare e sui generis, poiché, da un lato, non prevede alcuna sospensione del procedimento e, dall'altro, prescrive espressamente che l'organo accertatore non debba presentare subito la denunzia di reato al pubblico ministero, ma trasmetterla senza ritardo solo dopo che si realizzi uno dei due eventi previsti: o il versamento della somma da parte del soggetto obbligato o l'infruttuoso decorso del termine di tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell'accertamento. Prevedendo il legislatore l'alternativa del mancato inizio di un procedimento penale, appare ben comprensibile perché sarebbe stato del tutto superfluo ed irragionevole disporre la sospensione di un procedimento, il cui instaurarsi è connesso solo al caso dell'intervento di un ulteriore e specifico elemento di novità.
D'altronde, non può neanche ignorarsi il principio consolidato, e più volte affermato in sede di legittimità [in nota: Vedi, ad esempio. Cass. 2.4,2007 n. 13459, Baldi e Cass. 10.10.2007 n. 37311, Dottorini, le quali, entrambe pronunciate riguardo alla materia paesaggistica, hanno affermato che la presentazione, all'Autorità preposta alla gestione del vincolo, della domanda di compatibilità paesaggistica al fine di ottenere la estinzione del reato di cui all'art. 181 D.Lgs. n. 42 del 2004 (il cosiddetto 'condono paesaggistico'), non consente la sospensione del procedimento relativo ai reati paesaggistici, in mancanza e in difetto di una espressa previsione legislativa. Oppure si pensi, ancor meglio, alla consolidata opinione che sostiene che la norma processuale che prevede la sospensione o il rinvio del dibattimento per il caso di legittimo impedimento del difensore è dettata per la sola udienza preliminare e che, in mancanza di una esplicita disposizione di legge, non possa trovare applicazione begli altri procedimenti camerali (Cass. SS.UU. 22.9.2006 n. 31461, Passamani)], dell'impossibilità per il giudice di disporre la sospensione o il rinvio del processo quando manchi una norma che preveda espressamente una tale eventualità.
Si preferisce, in conclusione, la tesi -maggiormente coerente con la ratio e la finalità della previsione della causa di non punibilità, nonché più armonica con i principi costituzionali- secondo cui la previa notifica dell'avvenuto accertamento della violazione (dalla quale inizia a decorrere il termine di tre mesi concessa al datare di lavoro per provvedete al versamento dovuto) non può essere validamente surrogata dalla notifica del decreto di citazione per il giudizio (o, come in questo caso, del decreto penale di condanna), con la conseguenza che la mancata notifica dell'avviso di accertamento (contenente l'indicazione specifica delle somme dovute e l'avvertenza della facoltà di regolarizzare la posizione entro tre mesi) ed il mancato decorso del termine escludono la procedibilità dell'azione penale e, comunque, la possibilità di emettere una pronuncia di condanna.
Ne consegue, dagli elementi sinora esaminati, l'inequivoca e chiara affermazione dell'assoluta mancanza di responsabilità in capo all'imputato, il quale va -dunque- mandato assolto dal reato contestatogli.
Sussistendo quantomeno una prova insufficiente dell'esistenza della condizione di procedibilità costituita dal decorso del temine di tre mesi, ne consegue, pertanto, la pronuncia di una sentenza di non doversi procedere perché l'azione penale non doveva essere iniziata.

P.Q.M.

Il Giudice per le Indagini Preliminari
visti gli artt. 442, 529 c.p.p.,
dichiara non doversi procedere nei confronti di S.P. perché l'azione penale non doveva essere iniziata.
Così deciso in Cosenza, il dì 23 febbraio 2011.
Il Giudice
dott. Livio A. Cristofano

 
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