Mario De Giorgio, Utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e frode fiscale: profili relativi alla successione di leggi nel tempo ed alla prescrizione

Ad oltre un anno e mezzo dall’entrata in vigore del Decreto Legislativo n. 74 del 2000, recante consistenti modifiche all’impianto della legislazione penale-tributaria, numerosi problemi si pongono ancora nelle aule di giustizia in relazione alla disciplina da applicare ai procedimenti iniziati sotto l’impero della legge n. 516 del 1982.

In particolare, un sentito dibattito si è svolto in relazione alla sorte del reato un tempo previsto dall’articolo 4, comma 1, lettera d), della legge n. 516 del 1982, concernente la mera utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti; con rapidità inconsueta, le SS.UU. della Corte di Cassazione hanno composto il contrasto sorto fra le sezioni semplici stabilendo - con la sentenza n. 27 del 25.10.2000 (depositata il 7.11.2000), Di Mauro, in Cass. pen. 2001, n. 195 - che le condotte di utilizzazione di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti “non sono più, di per sé, penalmente rilevanti, non potendo in alcun modo essere ricondotte nella previsione della più recente disposizione incriminatrice che individua nella presentazione della dichiarazione annuale la condotta tipica della fattispecie ed il momento in cui si verifica la lesione dell’interesse erariale all’integrale riscossione delle imposta.

Sussiste, viceversa, continuità normativa fra il reato di frode fiscale (in precedenza punito dall’articolo 4, comma 1, lett. f), della legge n. 516 del 1982) e l’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000. La stessa sentenza Di Mauro, infatti, ha precisato che “per la fattispecie di cui all’art. 4 lett. f) ben può ravvisarsi, stante l’omologa strutturazione e la sovrapposizione delle due previsioni punitive – salvo per quanto attiene all’estensione dell’attuale incriminazione alla dichiarazione annuale IVA, rispetto alla quale non è configurabile un rapporto di successione modificativa tra leggi – una continuità normativa d’illecito con la nuova ipotesi dell’art. 2 D.Lgs. 74/2000”.

La giurisprudenza di merito si è celermente adeguata al pronunciamento delle Sezioni Unite, ripercorrendone sostanzialmente le argomentazioni e pervenendo quindi ai medesimi risultati (cfr. Trib. Milano, Sez. I, sent. 21.12.2000, Trib. Varese, sent. 11.1.2001, App. Milano, Sez. II, sent. 27.3.2001, Trib. Milano, Ufficio G.i.p., sent. 3.4.2001, tutte su Il Foro Ambrosiano, 2001, pp. 260 ss., nonché Trib. Pisa – Sez. Pontedera, sent. 25.6.2001, Trib. Pisa, sent. 13.7.2001, queste ultime su www.pisa.camerepenali.it, sezione documenti).

Pertanto, in presenza di un capo d’imputazione in cui viene contestata la semplice utilizzazione di fatture per operazioni ritenute in parte o del tutto inesistenti, dovrà necessariamente prendersi atto dell’intervenuta abolitio criminis del delitto ipotizzato e, per l’effetto, s’impone una pronuncia di assoluzione perché il fatto non è più previsto dalla legge come reato.

Nei casi in cui, all’opposto, viene contestato l’inserimento delle fatture mendaci nella dichiarazione dei redditi ovvero nel bilancio o rendiconto ad essa allegato (e quindi non anche, si badi bene, nella dichiarazione annuale dell’IVA), si applicherà il terzo comma dell’articolo 2 del codice penale, vertendosi in un’ipotesi di successione di leggi penali nel tempo.

Orbene, proprio il riferimento all’articolo 2.3 C.p. implica una riflessione, giacché il principio ivi espresso non può essere invocato solo, per così dire, in malam partem (con riguardo, s’intende, alla posizione dell’imputato), bensì necessariamente anche in bonam partem (sempre nella prospettiva del prevenuto), giacché la norma de qua dispone anche che, in caso di diversità di leggi nel tempo, sia applicata quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo.

Ragion per cui, ai procedimenti per frode fiscale pendenti al momento dell’entrata in vigore della riforma occorrerà applicare i termini prescrizionali previsti dalla legge n. 516 del 1982, giacché quest’ultima si deve considerare lex mitior rispetto al decreto legislativo n. 74 del 2000. Ed infatti:

-      l’articolo 4 della legge n 516 del 1982 prevedeva la reclusione da sei mesi a cinque anni, mentre l’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000 contempla una pena compresa fra un anno e sei mesi e sei anni di reclusione;

-      l’articolo 9 della legge n. 512 del 1982 prevedeva un termine prescrizionale di sei anni (prorogabili di altri tre) per le ipotesi di cui all’articolo 4, mentre il decreto legislativo n. 74 del 2000 rinvia ai fini del computo dei termini prescrizionali alle disposizioni del codice penale: il nuovo termine prescrizionale per il delitto di cui all’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, quindi, si deve ravvisare in dieci anni - prorogabili di altri cinque - nell’ipotesi di cui al primo comma, ed in cinque anni - prorogabili della metà - per l’ipotesi lieve del terzo comma.

Tali conclusioni sono altresì confortate dalla giurisprudenza (cfr. al riguardo nuovamente SS.UU. n. 27/2000, Di Mauro: “rispetto al D.Lgs. 74/2000 la legge 516/82 s’atteggia anzi come lex mitior per i profili del trattamento sanzionatorio e dei termini prescrizionali, sempre che non ricorra l’ipotesi attenuata prevista dall’art. 2, comma 3, del medesimo decreto”) e dalla dottrina (“se, ai fini della determinazione del tempo occorrente per la prescrizione, la legge dell’epoca del commesso reato produce effetti più favorevoli al reo rispetto alla nuova - ad esempio, minor tempo occorrente per l’estinzione del reato - é la prima che deve applicarsi e non la seconda”, Bellagamba-Cariti, I nuovi reati tributari, Milano, Giuffrè, 2000, p. 163).

In definitiva, se si richiama il principio di continuità normativa fra la fattispecie prevista dall’articolo 4, comma 1, lettera f) della legge n. 512 del 1982 ed il delitto punito dall’articolo 2 del decreto legislativo n. 74 del 2000, dovrà necessariamente anche applicarsi il termine prescrizionale più favorevole, e cioè quello della legge n. 516 del 1982; se, all’opposto, si ritiene che la nuova normativa non contempli più come reato la condotta contestata nel procedimento pendente (poiché viene ipotizzata la mera utilizzazione di fatture fittizie), si verterà in un’ipotesi di abolitio criminis ex articolo 2.2 C.p.: tertium non datur.

Occorre considerare, infine, che nelle ipotesi in cui sia stata contestata la frode fiscale non sembra applicabile de plano la proroga dei termini prescrizionali disposta dalle varie “sanatorie” intervenute nel corso degli ultimi anni (sul punto cfr., fra gli altri, Cardone, La disciplina della prescrizione dei nuovi reati tributari, su www.penale.it). Scendendo nel dettaglio:

a) la sospensione di cui all'articolo 21.7 del decreto legge n. 69 del 1989, convertito nella legge n. 154 del 1989, "non può operare per i delitti di omessa dichiarazione dei redditi e di frode fiscale di cui all'art. 4 della L. 512/82 poiché si è in presenza di irregolarità non formali, di una certa rilevanza e determinanti per la ricostruzione dei redditi" (così Cass. pen., III, 3.2.1998, Bormolini), sospensione viceversa applicabile al solo reato - oramai depenalizzato - di omessa tenuta delle scritture contabili (cfr. sent. ult. cit.);

b) non può operare la sospensione stabilita dai decreti legge nn. 7 del 1991 e 83 del 1991, l'ultimo convertito nella legge n. 154 del 1991, poiché tale normativa nulla dispone in relazione al reato di frode fiscale (cfr. sent. Bormolini);

c) non può operare la sospensione prevista dalla legge n. 413 del 1991; difatti, "poiché quello letterale non è un criterio interpretativo della legge, ma il limite di ogni altro criterio ermeneutico e poiché la L. 413/91 non contiene alcuna disposizione che letteralmente si riferisca alla sospensione della prescrizione per violazioni finanziarie costituenti reato, la prescrizione dei reati finanziari non risulta sospesa in concomitanza con la sospensione biennale dei termini che l'art. 57 della citata legge prevede solo per gli accertamenti fiscali" (così SS.UU., 19.5.99, n. 11, Tucci, in Riv. trim. dir. pen. economia, 1999, 841);

d) la sospensione legale dei procedimenti stabilita dal D.P.R. n. 23 del 1992, in quanto l'articolo 2, comma 3, di tale decreto può operare solo se al momento dell’entrata in vigore del decreto (20.1.1992) già pendeva il procedimento penale (cfr. Cass. pen., III, 3.6.1997, A.G.);

e) le proroghe previste dai successivi decreti legge nn. 174 del 1992, 269 del 1992, 316 del 1992, 319 del 1992, tutti non convertiti in legge, ma i cui effetti sono stati fatti salvi dalla legge n. 75 del 1993, nonché quelle di cui ai decreti legge nn. 455 del 1992 e 16 del 1993, quest'ultimo convertito in legge n. 75 del 1993 (che ha fatto salvi anche gli effetti del decreto legge n. 455 del 1992), operano solo se ed in quanto al momento della loro entrata in vigore i procedimenti penali erano in corso (cfr. quanto detto sub d, nonché Cass. pen., III, 4.8.1998, Drago);

f) quanto alla sospensione disposta dal decreto legge n. 41 del 1995, convertito in legge n. 85 del 1995, l'articolo 19 bis, comma 6, del decreto stesso prevede che "i giudizi relativi alle violazioni previste nei commi precedenti, in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, sono sospesi": in tal caso il limite previsto sub e) in relazione al procedimento viene riferito al dibattimento (oltretutto le SS.UU., con la sentenza n. 11/99, Tucci, cit., hanno precisato che “ il legislatore non ha usato ambiguamente e scambievolmente i due termini <procedimenti> e <giudizi> così precisi e così discriminanti … è chiaro che quando la legge parla di sospensione dei giudizi, con riferimento al campo processuale-penale, non può che fare riferimento alla fase susseguente alla richiesta di rinvio a giudizio, mentre quando parla di procedimento allude ad una fase anteriore. Le ragioni della scelta sono di politica fiscale e criminologica e non sta all’interprete sindacarla ma comprenderla per meglio interpretarne la portata giuridica”).

- avv. Mario De Giorgio - dicembre 2001

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